Dicembre 2009

che mondo farà

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Il baricentro del potere

B.S.

 
 
 

Nuove regole.
Solo che questa volta le regole
non saranno
stabilite dai Paesi
sviluppati
e dovranno essere negoziate tra una pluralità di
soggetti in grado
di far valere
un peso reale
nello scenario
planetario.

 

 

 

 

 

Se consideriamo il periodo storico che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai nostri giorni, notiamo che si è manifestata un’impressionante regolarità di scadenze: cioè, ogni vent’anni un evento dirompente ha provocato un radicale sommovimento degli equilibri consolidati nell’ambito geopolitico e nella società. Cominciò il 24 giugno 1948 con l’assedio di Berlino da parte dei Sovietici, avvenimento che sanciva la divisione del mondo in due blocchi contrapposti, separati da un Muro emblematico; nel maggio 1968 gli studenti francesi innescavano l’ondata di contestazioni destinata a propagarsi in America (già percorsa dalle convulsioni sulla guerra in Vietnam) e nel resto d’Europa, ridisegnando in questo modo le scale di valori e le gerarchie sociali; nel 1989 la caduta del Muro berlinese e la fine del più vecchio degli Imperi, quello Sovietico, (in apparenza con un anno di ritardo rispetto alla cadenza ventennale, ma in realtà l’effetto carambola era iniziato a settembre 1988 con i negoziati a cui Solidarnosc aveva costretto il governo Jaruzelski).
E arrivando ai fatidici giorni nostri, la bancarotta della Lehman Brothers nel settembre 2008 ha aperto la strada a un movimento tettonico nella geografia del potere economico globale e ad un ripensamento profondo dei fondamenti del libero mercato. Ovviamente, questi cataclismi non erano stati provocati da improvvise fratture, ma piuttosto costituivano la fase finale di processi profondi, di cui tuttavia non si era valutata la portata. La Cortina di Ferro era il risultato della reciproca ostilità tra le grandi potenze di allora (Usa, Regno Unito, Francia) e l’Unione Sovietica, messa temporaneamente da parte per via della guerra contro i nazisti; il ‘68 nasceva sulla spinta di un boom demografico che dava alle nuove generazioni la massa critica numerica e si combinava ad una determinazione ideologica volta a sovvertire le regole della società, (non necessariamente migliorandole); l’implosione del blocco sovietico era il risultato di decenni di pianificazione insensata, di corruzione diffusa e di feroce repressione delle libertà fondamentali.

Il 2008 non fa eccezione in questo senso. Sulle cause della crisi finanziaria è stato scritto di tutto. Vorremmo aggiungere una spiegazione di respiro più ampio, in termini forse troppo semplici ma certamente efficaci: una spiegazione che non si fermi alle filippiche contro il mercatismo (che non capiamo ancora bene che cosa starebbe a significare), contro la globalizzazione e contro il liberalismo economico.
La crisi affonda le radici nell’esplosione della bolla delle cosiddette “dotcom” all’inizio del nuovo secolo-millennio. Per tamponare una severa recessione nel 2001, l’Amministrazione Bush decise di sostituire lo stimolo che fino ad allora era stato fornito dagli investimenti in tecnologie con un aumento del consumo privato. Le famiglie furono indotte a indebitarsi grazie a tassi di interesse minimi e agli sgravi fiscali. Gli attacchi alle Torri gemelle dell’11 settembre resero ancora più forte la determinazione del governo americano a sostenere la crescita dell’economia a tutti i costi nel momento critico in cui la superpotenza si sentiva vulnerabile come raramente era accaduto in passato.
Ma gli stimoli artificiali alla domanda interna creavano una montagna di debito estero (e di debito pubblico) esattamente nel momento in cui le casse del Tesoro si trovavano a sostenere lo sforzo in Iraq e in Afghanistan, due guerre che solo l’incompetenza e il pressappochismo dei neocon e del Pentagono potevano far prevedere di breve durata.
Più la politica economica si focalizzava sugli orizzonti di breve termine, più le avventure militari si impantanavano, più si estendeva la leva del sistema finanziario necessaria a tenere in piedi l’illusione del benessere. Le banche americane, in particolare le banche di investimento con l’aggiunta di Freddie Mac e Fannie Mae, si erano trasformate di fatto in hedge funds con esposizioni pari a quasi trenta volte gli asset. Le europee Deutsche Bank, Ubs, Barclays, Bnp, tanto per citarne alcune, avevano allegramente seguito la stessa strada, raggiungendo anzi leverage addirittura superiori.

Archivio BPP

Archivio BPP

A un certo punto, il meccanismo si è spezzato sotto il peso dei debiti e dell’incompetenza. Sono stati i mutui subprime a innescare la crisi, ma di micce ce n’erano in abbondanza: i credit default swaps, le esposizioni di qualche grande banca (non necessariamente Lehman Brothers), la caduta dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, i debiti delle case automobilistiche.
Per quanto le cause della crisi forniranno ancora per molto tempo materia di dibattito (anzi, hanno riaperto addirittura quello sulla crisi del ‘29), la percezione delle ripercussioni è tuttora allo stadio iniziale. Ne vorremmo sottolineare una che ci sembra di portata storica. La grande crisi del 2008-‘09 è lo spartiacque tra un mondo dove il baricentro del potere economico era saldamente ancorato all’interno dei Paesi occidentali (con l’aggiunta del Giappone e dell’Australia), e un mondo nel quale, sull’onda delle macro-tendenze demografiche, si imporranno sulla scena i Paesi più popolosi dell’Asia e in generale le economie cosiddette emergenti. In sostanza, la geografia economica del XXI secolo verrà ridisegnata dalle classi medie che stanno consolidando la propria ascesa in Estremo Oriente (e in misura minore in India e nei Paesi del Golfo Arabico). La crisi finanziaria con epicentro Wall Street non ha fatto altro che accelerare e rafforzare un processo già avviato, che vedrà le economie più deboli del Vecchio Continente, tra cui l’Italia, relegate a un ruolo marginale, e la leadership dell’America incrinata.
Su questo macro-trend i dati sono impietosi. Secondo Standard & Poors, nel 1999 i mercati dei capitali statunitensi rappresentavano il 46 per cento del totale mondiale. Alla fine del 2008 questa quota era scesa al 33 per cento. Nel 1999 il mercato dei capitali negli altri Paesi avanzati rappresentava il 45,6 per cento del totale, mentre alla fine del 2008 il dato era sceso al 41 per cento. Per contro, i mercati emergenti nel 1999 erano appena l’8 per cento del totale, mentre a fine 2008 erano il 26 per cento. I quattro Paesi emergenti più grandi, Brasile, Russia, India e Cina (indicati con la sigla BRIC) oggi rappresentano il 16 per cento dei mercati dei capitali mondiali, contro il 2 per cento nel 1999.

ICP Milano

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Un decennio fa le grandi economie emergenti erano ancora alle prese con le grandi crisi scoppiate dal 1996 al 1998 dopo avere accumulato forti deficit di parte corrente e un immenso debito estero che stentavano a sostenere (la similitudine con l’America di oggi salta all’occhio). Ora i Paesi asiatici vantano avanzi di parte corrente, e la Cina in particolare, insieme al Giappone e ai Paesi arabi produttori di petrolio, ha finanziato (e continua a finanziare, anche se con crescente e malcelata irritazione) il debito pubblico americano e quello delle famiglie statunitensi.
Altri dati danno la misura del trend di lungo periodo. Nelle economie emergenti la quota di investimenti sul Pil è aumentata del 25 per cento nel 1993 e crescerà di quasi un terzo nel 2010. Nei Paesi avanzati tale quota scenderà dal 22 per cento del 1993 al 18 per cento nel 2010. Nel 2013, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, la porzione del Pil mondiale (calcolato in modo da riflettere il potere di acquisto in ciascun Paese) prodotta dai Paesi emergenti sarà leggermente superiore a quella prodotta dai Paesi sviluppati, vale a dire il 50,6 per cento contro il 49,4 per cento.
Per essere più concreti delle nude cifre macro-economiche, prendiamo un esempio a beneficio della celeberrima casalinga di Voghera. La Cina, che fino a poco tempo fa aveva un’economia di dimensioni simili a quella italiana, ha in cantiere nei prossimi tre anni un’estensione della rete ferroviaria di 20mila chilometri. La rete ferroviaria italiana supera di poco i 16mila chilometri. Ancora più impressionanti sono i dati sulle infrastrutture viarie: nella prima metà del 2009, in base al piano di stimolo del governo, sono partiti i cantieri su 111 autostrade che aggiungeranno 12mila chilometri alla rete. Poi ci sono le autorità locali, che hanno progetti per altri 120mila chilometri di strade. Certo, la Cina ha un territorio immenso e probabilmente non tutte le linee ferroviarie o non tutte le strade saranno completate entro tre anni, ma anche considerando ritardi e impedimenti vari rimane il fatto che lo sforzo è imponente, soprattutto se paragonato ai 30 chilometri del Passante di Mestre che, aperto dopo decenni di diatribe, appena arrivata l’estate, era già al collasso.
Come già accennato, lo spostamento del baricentro riflette in primo luogo un grande sommovimento demografico. La Cina avrà nel 2010 una popolazione di 1,35 miliardi, e l’India addirittura ha già superato questo livello. I brasiliani saranno circa 200 milioni. In Europa e in Giappone la popolazione invecchia e ristagna, in America cresce in buona parte grazie agli immigrati. In secondo luogo, il successo dei Paesi emergenti è dovuto alla diffusione dell’economia di mercato a scapito della centralizzazione burocratica e del protezionismo, mentre l’Europa e il Giappone ormai in questo ambito sembrano voler tornare indietro, dopo i timidi progressi degli anni Novanta.

L’Occidente (insieme al Giappone), vecchio e rivolto al passato, si illude ancora di mantenere il benessere raggiunto dalle generazioni precedenti. Una larga fetta dell’elettorato è attenta solo ai benefici pensionistici (insostenibili) e non mostra il minimo interesse per il futuro. Dall’altra parte i giovani asiatici, che costituiscono la maggioranza della popolazione, vedono a portata di mano un livello di vita sconosciuto ai loro padri e assaporano il gusto della sfida. Studiano e lavorano perché sentono che il vento è dalla loro parte. Investono perché considerano un orizzonte di cinquanta o sessant’anni. E, soprattutto, conoscono la fame per esperienza diretta, quindi non risparmiano alcuno sforzo per farsi strada. Chiamate una qualsiasi fabbrica cinese alle 10 di sera, ora locale, di un giorno qualsiasi, inclusa la domenica, e con molta probabilità troverete un addetto commerciale che vi risponderà.
Lo smottamento del 2008-‘09 spazza via un ordine che stava già sfaldandosi. Le vecchie certezze sono destinate a sgretolarsi in fretta, e l’economia mondiale dovrà obbedire a nuove regole. Solo che questa volta le regole non saranno stabilite dai Paesi sviluppati e dovranno essere negoziate tra una pluralità di soggetti in grado di far valere un peso reale nello scenario planetario.
I Paesi emergenti non chiedono più soltanto di sedersi al tavolo come invitati, ma essendo in grado di pagare il conto (quello proprio, e, volendo, anche quello degli altri), non sentono particolare gratitudine verso i padroni di casa. Ironia della sorte ha voluto che l’ultimo G8, il Direttorio-Del-Mondo-Che-Non-Esiste-Più, si sia tenuto tra i cumuli di macerie, degna cornice per un simulacro di autorità che interessa ormai solo gli albergatori, gli addetti alla sicurezza e i ciambellani del protocollo. Prima o poi, si certificherà la sua inutilità e si avvierà il processo di co-decisione tra Paesi sviluppati ed emergenti. Il che non significa che la strada sia tracciata, e tantomeno che sia stata indicata una direzione. Ma non ci si illuderà più che un incontro tra cinque europei, un nipponico e due nordamericani possa bastare a formulare una politica economica mondiale.

   
   
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