Dicembre 2009

il feticismo delle cifre e la misura del benessere

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Totem Pil

Joseph Stiglitz

Premio Nobel per l’Economia

 
 

Misura imperfetta.
Da tempo,
è risaputo che
il Pil potrebbe
essere un indice di misura inadeguato del benessere
e perfino delle attività e dell’efficienza del mercato. 

 

 

 

 

 

 

Gli sforzi che mirano a riportare in vita l’economia mondiale e nello stesso tempo rispondere adeguatamente alla crisi globale del clima hanno fatto sorgere una domanda spinosa: le statistiche ci danno “segnali” corretti e affidabili in relazione a quello che stiamo facendo?
Nel nostro mondo concentrato sulla performance, gli interrogativi relativi all’affidabilità delle misurazioni hanno assunto un’importanza sempre maggiore: ciò che misuriamo influisce su ciò che facciamo.
Se disponiamo di rilevamenti inadeguati, ciò che ci sforziamo in tutti i modi di conseguire (per esempio, aumentare il Prodotto interno lordo) può in realtà contribuire a peggiorare gli standard di vita.

ICP Milano

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Potremmo anche trovarci di fronte a scelte falsate, vedendo compromessi tra produttività e protezione ambientale che di fatto non esistono. Al contrario, migliori misurazioni delle performance economiche potrebbero mettere in luce che le iniziative prese per migliorare l’ambiente risultano vantaggiose anche per l’economia.
Una ventina di mesi fa il presidente francese Nicolas Sarkozy ha istituito la Commissione Internazionale sulla Misura della Performance economica e del progresso sociale, essendo insoddisfatto – al pari di molti altri – dell’attuale stato delle informazioni statistiche riguardanti l’economia e la società. All’inizio di settembre questa Commissione ha reso noto il suo atteso Rapporto.
La domanda più importante alla quale occorreva dare una risposta era se il Pil costituisse o meno un valido indicatore degli standard di vita. In molti casi le statistiche sul Pil sembrano suggerire che l’economia sia in condizioni nettamente migliori di quelle percepite dalla maggioranza dei cittadini. Oltretutto, incentrare l’attenzione sul Pil scatena conflitti: ai leader politici si dice di amplificarne l’importanza, ma la cittadinanza esige che analoga attenzione sia garantita anche per migliorare la sicurezza, ridurre l’inquinamento acustico, dell’aria e dell’acqua, e così via, tutti aspetti che potrebbero contribuire ad abbassare la crescita del Pil.

Da tempo, ovviamente, è risaputo che il Pil potrebbe essere un indice di misura inadeguato del benessere e perfino delle attività di mercato, ma i cambiamenti sociali ed economici potrebbero avere accentuato i problemi, proprio quando i progressi nell’ambito dell’economia e delle tecniche statistiche hanno fornito l’occasione di migliorare le nostre rilevazioni.
Per esempio, mentre si suppone che il Pil misuri il valore della produttività delle merci e dei servizi, in un settore cruciale – il governo – di norma non abbiamo modo di farlo, così spesso misuriamo l’output semplicemente in base agli input. Se il governo spende di più – anche se in modo inefficiente – l’output aumenta. Negli ultimi sessant’anni, la percentuale dell’output di governo nel Pil è cresciuta dal 21,4 al 38,6 per cento negli Stati Uniti, dal 27,6 al 52,7 per cento in Francia, dal 34,2 al 47,6 per cento nel Regno Unito e dal 30,4 al 44,0 per cento in Germania. Pertanto, quello che era un problema relativamente secondario adesso è diventato un problema di primaria importanza.
Allo stesso modo, ai miglioramenti in fatto di qualità – per esempio, automobili migliori invece di un numero maggiore di automobili – si deve buona parte dell’aumento odierno del Pil. Ma valutare i miglioramenti in fatto di qualità è difficile. L’assistenza sanitaria esemplifica molto bene questo problema: essa è fornita pubblicamente e molte delle migliorie sono avvenute rispetto alla qualità.
Il medesimo problema che sorge facendo comparazioni nel tempo vale per le comparazioni fatte tra Paesi diversi. Gli Stati Uniti spendono più di qualsiasi altro Paese per l’assistenza sanitaria (sia pro-capite sia in percentuale rispetto agli utili), ma con risultati decisamente inferiori. Parte della differenza tra il Pil pro-capite negli Stati Uniti e nei Paesi europei potrebbe quindi essere dovuta alle modalità di misurazione adottate.
Altro rilevante cambiamento occorso nella maggior parte delle società è l’aggravio delle disparità: ciò significa che vi sono disuguaglianze in crescita tra i guadagni medi (intermedi) e il guadagno medio (ossia quello della persona “media”, i cui redditi si collocano a metà nella scala di distribuzione dei guadagni). Se un gruppetto di banchieri si arricchisce, il guadagno medio può salire, anche se la maggior parte dei guadagni individuali scende. Pertanto, le statistiche del Pil pro-capite possono non riflettere correttamente ciò che la gran parte dei cittadini sperimenta.

Per valutare beni e servizi noi usiamo il prezzo di mercato, ma adesso persino coloro che hanno sempre riposto la massima fiducia nei mercati mettono in discussione l’affidabilità dei prezzi di mercato, dichiarandosi contrari a valutazioni mark-to-market. I profitti delle banche di prima della crisi – un terzo di tutti gli utili delle corporation – sembrano essere stati un miraggio.
Comprendere ciò consente di gettare nuova luce non soltanto sulle nostre misurazioni della performance, ma anche sulle deduzioni che ne traiamo. Prima della crisi, quando la crescita degli Stati Uniti (secondo le misurazioni standard del Pil) sembrava molto più consistente di quella dell’Europa, molti europei sostenevano che il Vecchio Continente dovesse adottare il capitalismo di stampo statunitense. Naturalmente, chiunque si fosse presa la briga avrebbe potuto constatare facilmente il crescente indebitamento delle famiglie americane, e questo dato avrebbe contribuito moltissimo a rettificare la falsa impressione di successo trasmessa dalle statistiche sul Pil.
I recenti progressi metodologici ci hanno consentito di valutare meglio che cosa contribuisce al benessere della cittadinanza e di raccogliere le informazioni necessarie a fare tali valutazioni a scadenze regolari. Questi studi, per esempio, verificano e quantificano ciò che dovrebbe essere del tutto ovvio: la perdita di un posto di lavoro ha un impatto enormemente maggiore di quello che si potrebbe quantificare calcolando la sola perdita di un reddito. In tal senso, questi studi dimostrano altresì l’importanza dell’essere collegati a livello sociale.
Un buon indice di misurazione per comprendere come stiamo procedendo deve prendere in considerazione anche la sostenibilità. Esattamente come un’azienda ha bisogno di calcolare il deprezzamento del proprio capitale, così anche i conti della nostra Nazione devono riflettere l’esaurimento delle risorse naturali e il degrado del nostro ambiente.
Le tabelle statistiche sono concepite per sintetizzare ciò che accade nella nostra complessa società con numeri di facile interpretazione. Dovrebbe essere stato ovvio che era impossibile ridurre ogni cosa a un unico numero, il Pil. Il Rapporto della Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress dovrebbe aver portato a una migliore comprensione degli usi e degli abusi di un simile indicatore statistico.
Il Rapporto, inoltre, ha fornito alcune linee-guida per creare una più ampia gamma di indicatori (si vedano le “raccomandazioni della Commissione a lato, N.d.R.) che possano rappresentare con maggiore accuratezza il benessere e la sostenibilità, dando impulso per migliorare la performance dell’economia e della società. Simili riforme ci aiuteranno a dirigere i nostri sforzi (e le nostre risorse) in metodologie che conducano a un miglioramento in entrambi gli ambiti.

Le 12 raccomandazioni
della Commissione Sarkozy

1) “Per valutare il benessere materiale, bisogna analizzare i redditi e il consumo piuttosto che la produzione”. Il Pil non è falso, ma forse male utilizzato, soprattutto perché nasconde forti divari individuali.
2) “Rafforzare l’analisi dal punto di vista delle famiglie”. Il rapporto incita  a prendere in considerazione tasse, prestazioni sociali e i servizi forniti dallo Stato, come la sanità e l’istruzione.
3) “Bisogna tenere in conto il patrimonio delle famiglie”. Occorre, quindi, distinguere fra i nuclei che spendono tutti i loro redditi annuali tramite i consumi, accrescendo il benessere immediato, e quelli che riescono ad aumentare il patrimonio, a beneficio del benessere futuro.
4) “Dare più importanza alla ripartizione dei redditi”. A questo proposito il rapporto propone di rinunciare in certi casi alle medie matematiche così da optare, invece, per il livello di reddito che divide il 50% della popolazione più povera dal 50% più ricco.
5) “Estendere gli indicatori alle attività non legate direttamente al mercato”. Alcune (come le pulizie in casa o accudire i neonati) vengono prese in considerazione solo se svolte da personale salariato, ma non da membri della famiglia.
6) “Migliorare la valutazione di sanità, educazione e condizioni ambientali”, mediante calcoli oggettivi ma pure strumenti a carattere soggettivo (sondaggi).
7) “Valutare in maniera davvero esaustiva le ineguaglianze” rispetto alla qualità della vita. In altre parole, calcolare le differenze fra persone, sessi, generazioni, fornendo una particolare attenzione alle condizioni di vita degli immigrati.
8) “Realizzare inchieste per capire come le evoluzioni in un settore della qualità della vita hanno ripercussioni su altri”.
9) “Creare una misura sintetica della qualità della vita”: come dire, fornire un valore aggregato che dovrà essere svolto dagli istituti nazionali di statistica.
10) “Integrare nelle inchieste sulla qualità della vita dati sull’evoluzione effettuata da ogni cittadino nel corso della propria esistenza”.
11) “Valutare la sostenibilità del benessere”, ossia capire se si può mantenere nel tempo.
12) “Stabilire indicatori precisi che quantifichino le pressioni ambientali”.

 

   
   
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