Dicembre 2009

il fatto - le opinioni

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Epicedio per il Pil

M.B. - D.M.B.

 

 
 

Col passare
del tempo il Pil
si è svalutato:
ha mostrato le sue lacune e i legacci rozzi che tenevano insieme i suoi
pezzi, è diventato
insignificante.

 

 

 

“Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago.
Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti, non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.
Robert Kennedy, 1968.

 

 

 

 

 

 

 

Il passaparola partito dalla Francia è: sostituire il rozzo Pil, finora metro della produzione, con una nuova misura della ricchezza delle nazioni. E si mette in rilievo, fra l’altro, il cinismo del Prodotto interno lordo, che cresce in caso di catastrofi naturali, perché misura le spese della ricostruzione, ma non i costi del disastro. Invece, una rivoluzione statistica mondiale metterebbe l’accento più sulla “quantità” di benessere della popolazione che sulla produzione economica. Così, al Prodotto interno lordo (Pil) è preferibile il Prodotto nazionale netto (Pnn), che tiene conto degli effetti del deprezzamento del capitale in tutte le sue dimensioni.
I francesi, però, non sono stati i primi a voler modificare il Pil. Anticipatore fu Robert Kennedy, che nel suo discorso (1968) all’Università del Kansas sostenne: «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto nazionale lordo. Quest’ultimo comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgomberare le nostre autostrade dalle carneficine del week-end. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».
Le Nazioni Unite, su suggerimento di Amartya Sen (come Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia), adottarono a partire dagli anni Ottanta un misuratore della qualità dello sviluppo dei singoli Paesi, l’Indice dello Sviluppo Umano.
Gli statistici hanno sempre minori difficoltà ad elaborare criteri standard di quantificazione degli aspetti economici, ma difficilmente riescono ad accordarsi sulla misura degli indicatori sociali stabilendo le percentuali di reciproca importanza.
Forse è un caso, ma Parigi ha diffuso il progetto di misurare il capitale in tutte le sue dimensioni alla vigilia dell’incontro di Pittsburgh del G20. La Francia sembra voler indicare che in mancanza di strumenti adeguati c’è il rischio di continuare ad alimentare bolle speculative. Se una famiglia è proprietaria di un appezzamento di terreno agricolo e pensa che il suo valore debba essere determinato sulla base di quello di un terreno edificabile, è probabile che falsi il valore reale di mercato del terreno in quella particolare situazione geografica, economica e sociale. Ma se chi compra ha speso 1.000 euro al posto di 100, si è indebitato dieci volte di più. Ed è stato l’indebitamento la causa principale della crisi.

Per quanto riguarda l’Italia, è un fatto che, non avendo un’economia drogata dalla finanza, godrà degli effetti benefici di essere la seconda manifattura d’Europa. Ed è un fatto che la montagna dei debiti privati del mondo è stata garantita con debito pubblico. Lo Stato è tornato sui mercati come garante, ma non riesce a imporre nuove regole. Il governo italiano è bersaglio dei catastrofisti che leggono male il Pil, non conoscono gli avanzi primari e non sanno dove sta di casa il Prodotto nazionale netto; ma è anche vittima della sua audacia nel proporre regole a Paesi che della “deregulation” hanno fatto una sorta di credo religioso, capaci di arricchire ben specifici club, creando nuovi templari della Finanza, come Goldman Sachs.
Tanto tempo fa a bordo del panfilo reale “Britannia”, in acque territoriali italiane, si incontrarono tutti gli esponenti della Prima repubblica, che furono fatti salvi dalla falsa rivoluzione di Tangentopoli. Tutti gli altri subirono invece dalla stampa britannica crudeli attacchi. Quegli attacchi ci ricordano quelli attuali al nostro Paese e alla sua classe politica al potere che invoca nuove e serie regole. Forse sarebbe meglio per l’Italia appoggiare la rivoluzione statistica proposta dalla Francia, per difendersi da tanti maestri che, con nuovi indicatori, si troverebbero in classifica dopo, molto dopo l’Italia.
Il Pil ha avuto i suoi meriti. È stato l’orologio del nostro tempo, il tempo dell’economia, il tempo della ricchezza. Una misura, per quanto approssimativa, di questa ricchezza. È stato un atto di genio l’idea di condensare in un’unica cifra la somma di tutte le transazioni che avvengono nel corso di un anno: il loro volume moltiplicato per i loro prezzi. Si comprende – come ha scritto Giorgio Ruffolo – che in un tempo nel quale l’economia ha sopravanzato la potenza e la gloria quella cifra fosse assurta a segno di gloria e di potenza.
Però, è divenuto troppo insignificante rispetto al suo più autentico significato. Col passare del tempo il Pil si è svalutato: ha mostrato le sue lacune e i legacci rozzi che tenevano insieme i suoi pezzi. È inutile ripercorrere, se non per memoria, la lista dei suoi vizi. La pretesa di dare un qualunque significato positivo a un accumulo di beni e di mali. L’assurdità di lasciar fuori del conto tanta parte del lavoro e della ricchezza che non possono essere conteggiati in moneta. La pretestuosità con la quale si conteggiano come beni gli stipendi pagati ai pubblici impiegati. E tante altre manifeste incongruità. Tanto da far dire a un grande economista, Oscar Morgenstern, che il Pil è la misura più stupida inventata dagli economisti.

Sentenza ingiusta, perché, se ridotto alla sua essenza reale, il Pil offre una dimensione significativa di un aspetto fondamentale dell’economia: la portata e l’estensione del mercato; non però del benessere, perché include la droga; non del lavoro, perché esclude quello non retribuito in moneta; non dell’efficienza, perché non tiene conto dei servizi della pubblica amministrazione; tanto meno della giustizia e della felicità.
È necessario quindi “depilizzare” il Pil. Ridurlo alla sua dimensione significante. Così saremo liberati dall’ansia di chiedere all’Istat le cifre del nostro destino. Di esaltarci o di disperarci per qualche frazione del Prodotto lordo in più o in meno. Certo, per molti politici, economisti, giornalisti, la dissacrazione non è una buona notizia. Ma non ci si deve preoccupare più di tanto: chissà per quanto tempo ancora costoro faranno finta di niente.

E un po’ di ragione forse ce l’avranno, perché oggi come oggi il problema è con che cosa sostituirlo, anche se in questo campo non siamo proprio a zero. Fior di economisti e sociologi si sono misurati da tempo con il problema di costruire indicatori del benessere più significativi del Pil. Un approccio molto noto è quello dei bisogni sociali fondamentali. Anziché identificare il benessere con lo sviluppo economico, si è proposto di misurarlo con indici specifici (indicatori sociali) di sei grandi bisogni essenziali: nutrimento, salute, acqua, abitazione, educazione, sostenibilità ambientale. Questo approccio non è oggettivo come (sembra) quello del Pil, e non è, al modo stesso, sintetico. Non esprime il benessere sociale, come fa il Pil, con un solo numero. Inoltre, esso individua i beni sociali, ma non la capacità di usarli.
Queste due obiezioni hanno indotto Amartya Sen e altri a suggerire la costruzione dell’Indice di Sviluppo Umano basato su tre aspetti fondamentali: la durata della vita, la conoscenza e l’accesso alle risorse economiche. L’economia rientra nel conto, ma, appunto, come accesso alle risorse, non come semplice produzione. Come mezzo, e non come fine. Rappresentati da tre indicatori sintetici, questi aspetti centrali del benessere vanno combinati tra di loro con una semplice media aritmetica, quell’Indice dello Sviluppo Umano (Isu), che è stato effettivamente adottato dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite. Sicché il problema sembrerebbe risolto.
Va ascritto a merito di due giovani studiosi italiani, Salvatore Monni e Alessandro Spaventa, l’avere affrontato e – secondo noi – risolto questo problema, rovesciandone i termini: anziché affidare la scelta delle priorità sociali agli esperti, costruendo su questa gli indicatori, desumerla da esplicite opzioni politiche democratiche dei Paesi interessati. A mo’ di esempio, gli autori hanno tratto dalle decisioni politiche di Lisbona dell’Unione europea le scelte essenziali di obiettivi di benessere sociale, sulle quali hanno costruito un sistema di indicatori sociali che comprende tre aspetti centrali del benessere: la competitività, la coesione sociale e l’ambiente. Ecco un modo, non soltanto per misurare correttamente il nostro benessere, ma per dare all’Europa la possibilità, finalmente, di esprimersi su ciò che vuole realmente essere.

 

   
   
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