Dicembre 2009

PARLANDO DI SUD A 150 ANNI DALL’UNITÀ

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L’eterna “questione”
di un Paese a due velocità

Bruno Landi

 

 
 

L’Italia esiste.
Anzi, esiste
prescindendo
da quanti la
vorrebbero morta
e si riconosce
nelle tante Italie che danno senso alla nostra storia
e ricchezza alle nostre tradizioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima denuncia porta la firma della Svimez: negli anni si è arrivati nel Paese a due diversi modi di produrre e di consumare ricchezza: la spesa pubblica, trasferita a Sud, alimenta i consumi sotto forma di importazioni dal Nord. È la drammatica conferma del fallimento di ogni politica economica dei governi italiani. Un fallimento bipartisan.
La seconda denuncia è del Centro Studi della Confindustria, che ha da poco snocciolato alcune cifre allarmanti. Per esempio, rispetto al Centro e al Nord, il Mezzogiorno registra attualmente il 42 per cento in meno di Prodotto interno lordo pro-capite; ospita il doppio delle famiglie che vivono sotto la soglia della povertà (6 per cento contro il 3); ha una produttività assai inferiore rispetto a quella del resto del Paese; ha una macchina amministrativa pubblica così scarsamente efficiente, da somigliare a quella di un Paese da Terzo mondo. A tutto questo va aggiunto un altro dato negativo: la scarsa capacità del Mezzogiorno di attrarre investimenti diretti dall’estero, che dal 2003 al 2007 sono stati appena 2 per milione di abitanti, mentre la media europea supera quota 23.
Il terzo allarme è di chi ha riscoperto di recente i termini della vecchia e irrisolta “questione”, ed è incentrato sul fatto che non dei problemi reali si parli, ma di tutt’altro. Non si fa cenno, infatti, alle infrastrutture che non sono mai state realizzate – a parte la scommessa simbolica e finora soltanto d’immagine del Ponte sullo Stretto – né di rilancio dell’agricoltura e meno che mai della scelta, rinviata da decenni, sullo sviluppo del Sud basato sull’industria oppure sul turismo.

Eppure, ogni giorno si rinnova un miracolo: si evita la spaccatura del Paese, anche se un ministro della Repubblica, quello dell’Economia, ha ritenuto di dover tagliare fondi importanti, se non proprio vitali, adombrando da una parte l’immagine di un Nord operoso, che merita più attenzione e più soldi, e dall’altra quella di un Sud scialacquatore, che va punito.
Queste immagini erano state alimentate, finora, solo dalla Lega e avevano trovato un’eco sempre più interessata in alcuni organi di stampa legati all’establishment industriale settentrionale. Ma nel momento in cui ad usare questi argomenti è un ministro, vuol dire che la situazione può deteriorarsi e sfuggire di mano. Anche perché può sembrare facile tornare a catechizzare il Sud con toni che ricordano quelli degli ufficiali sabaudi all’indomani dell’unificazione.
Ma come quegli stessi ufficiali – e l’intera classe dirigente nordista – impararono presto a proprie spese, i conti con la storia non si fanno per decreto legge. E i tagli decretati indiscriminatamente da Roma, che vanno in questa direzione, sono destinati a creare rischi di gran lunga più pericolosi dei vantaggi che sono stati millantati.
Ci riferiamo in particolare ai tagli di fondi destinati alle università del Sud, che operano in contesti e in bacini di utenza difficili. Se le università meridionali possono andare giustamente orgogliose delle eccellenze che possono schierare sul fronte scientifico e didattico, gli studenti sono inevitabilmente il prodotto del tessuto economico e sociale in cui crescono. E soltanto chi non ha messo piede in due aule, dello stesso corso di studi, al Sud e al Nord, può continuare a discettare astrattamente di responsabilità delle istituzioni meridionali, magari condendo le accuse con una cospicua dose di moralismo, tornato ora tristemente di moda.

La realtà è che, piaccia o meno agli opinionisti à la page, i problemi del Sud non si affrontano con le ricette – e con l’accetta – del ministro dell’Economia. Molte università meridionali meriterebbero consistenti fondi di incentivazione, per il ruolo costante che svolgono di contenimento del disagio. Mentre riescono comunque a sfornare professionalità di qualità che il mercato del lavoro – al Nord e all’estero – continua ad apprezzare e a reclutare.
I tagli, al contrario, significano che i giovani del Sud avranno ancora meno opportunità. Come se non bastassero i sacrifici che loro, e le loro famiglie, debbono affrontare quotidianamente, d’ora in poi gli esami si allungano. Fino a ieri avevamo l’Italia a due velocità, ma coltivando almeno la certezza che eravamo tutti uguali. D’ora in poi, avremo anche l’Italia a due opportunità. E in queste condizioni ci accingiamo a “festeggiare” il secolo e mezzo dell’Unità nazionale.
A proposito: prima di monetizzare e quantizzare le cose, dovremmo discutere dei contenuti, dei programmi, dell’idea centrale, della scelta di fondo, che dovranno caratterizzare l’anniversario, evitando la retorica dei Padri della Patria e dei natali luminosi dello Stato, ricordando il sostanziale successo dell’avanzamento civile e sociale di tutto il Paese, ma riconoscendo anche lacune e difetti che l’unificazione – non soltanto geografica – ha conservato fino ad oggi; tenendo conto di ciò che è stato costruito, ma anche di ciò che non si è fatto. Perché in questa narrazione il Mezzogiorno ha molto da dire, e non solo – o non tanto – nei termini di un conto ancora aperto, dello sviluppo duale dell’Italia, della “unificazione incompiuta”.
Se ci fermassimo a questo, ripeteremmo la giaculatoria di un meridionalismo della testimonianza e della denuncia che, volenti o nolenti, è l’altra faccia del neo-separatismo (finora più nelle parole che nei fatti) dell’intero Sud contro tutto il resto del Paese. No. Il Sud ha molto da dire e da rivendicare sul contributo in positivo che le popolazioni delle sue regioni hanno dato allo sviluppo e alla crescita democratica.
L’Unità d’Italia, quella vera, aspra, dura, che non cede, resiste e guarda avanti, è fatta anche delle Quattro giornate e del sacrificio dei ragazzi di Napoli, dei movimenti per la terra e la rinascita del Mezzogiorno, degli emigranti che hanno lasciato il Sud per costruire le basi materiali di un Paese più competitivo. È fatta delle opere di cultura e delle ricerche scientifiche di tante Università e di altrettanti Centri studi e laboratori meridionali. Se vogliamo riscoprire (e celebrare seriamente e senza retorica) la nostra identità, dovremmo riflettere su quella dei vari gruppi sociali, delle regioni e delle città italiane che alla prova dei fatti hanno saputo mantenere le proprie diversità dentro un orizzonte unitario e solidale.

Donato Antonaci Dell’Abate

Donato Antonaci Dell’Abate

Ci riflette un altro ministro, quello dei Beni culturali, secondo il quale tutti noi siamo consapevoli dei nodi insoluti che restano nella storia italiana dalla sua fondazione, tanto che «l’identità degli italiani si fortifica per contrasti»: tra laici e cattolici, liberali e socialisti, riformisti e massimalisti, democratici e fascisti, democratici e comunisti, centralisti e federalisti, nordisti e sudisti, statalisti e capitalisti. E alla luce di queste ricorrenti dicotomie, sono stati letti e poi disgregati anche i pochi momenti unitari, «così che il Risorgimento fu criticato perché fenomeno antipopolare e di élite, la presa di Roma per la connotazione anticlericale, la vittoria della Prima guerra mondiale perché troppo patriottica… e si potrebbe continuare elencando i fenomeni divisi che non sono, si badi, le tensioni federaliste… da sempre presenti nel dna italiano al Nord e al Sud, o le celebrazioni della battaglia di Legnano, che pure è in nuce un momento aggregativo della nostra nazione, bensì tutte quelle convenzioni ad excludendum, spesso di natura moralisteggiante, che hanno contraddistinto negli ultimi sessant’anni soprattutto la sinistra».
Nonostante i lamenti degli intellettuali, comunque, l’Italia esiste. Anzi, esiste prescindendo dagli storici e dai sociologi e dai politologi e perfino dai politici che la vorrebbero morta. Esiste perché trova radici in ambiti pre-politici, come la lingua e il patrimonio culturale e spirituale che abbiamo alle spalle, e di cui siamo orgogliosi. La nostra è un’identità fondata su molte identità locali: un’Italia unita che ancora si riconosce nelle tante Italie che danno senso alla nostra storia e ricchezza alle nostre tradizioni. Un’Italia che si unisce attraverso un percorso di annessione, piuttosto che un processo federativo che pure può avere avuto una legittimità storica e culturale. Anche per continuare a riflettere su una questione così rilevante, come quella del Sud nel contesto generale del Paese, in questo terzo millennio: alla ricerca di una memoria condivisa e di un riequilibrio come scommessa per il futuro, le celebrazioni del 150° anniversario possono essere d’aiuto.

   
   
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