Dicembre 2009

Mezzogiorno ed emigrazione

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Treni dal Sud

Cristina Baltieri
Luca Del Vecchio

Coll.: Renato Ardenzi
Rossana D’Agata
Pierluigi Montano

 
 

Erano esuli della fame, della disperazione, nati in un’Italia giovane e fragile che negava pane e giustizia ai suoi figli più poveri,
sicché intere comunità abbandonavano
con la morte nel cuore terre e parentele
e amicizie solidali.
L’Italia era stata fatta, gli italiani no.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sullo sfondo del Rapporto Svimez 2009, ancora due Italie. Con un dato che emerge imperiosamente su tutti gli altri: dal 1997 al 2008, circa 700mila persone sono state costrette ad abbandonare le regioni del Sud. Come se si fosse svuotata una città delle dimensioni di Palermo. Soltanto nel 2008 le regioni meridionali hanno perso 122mila persone, giovani che sono andati a stabilirsi nel Nord, dove ci sono occasioni di lavoro. Indietro son tornati in 60mila, anziani e pensionati, ma anche stranieri.
Le altre cifre sono un corollario quasi ineludibile del dato sulla migrazione: il lavoro nero nel Sud tende a diminuire, ma ancora oggi un lavoratore su cinque è irregolare. Il trend è costante: nel 2004 partiva dal Sud un giovane laureato su quattro, tra quelli che avevano ottenuto il massimo dei voti. Oggi siamo giunti a uno su due e mezzo.
Oltre l’87 per cento delle partenze ha origine in tre regioni: Campania, Puglia e Sicilia. I capolinea sono in Lombardia, in Emilia-Romagna e nel Lazio. Il che vuol dire che non è cambiato nulla, in sessant’anni, a parte la geografia delle destinazioni: del vecchio “Triangolo industriale” sopravvive soltanto Milano, perché Torino e Genova non hanno più nulla da offrire. Le ha sostituite Roma, che oltre ad essere il centro burocratico italiano per eccellenza, è anche una “città dell’informatica” in crescita costante.
È stato rilevato che un indicatore serve più di tutti a dare il segno della gigantesca dispersione di ricchezza che si è verificata nell’antico Reame: nel 1951 nel Mezzogiorno veniva prodotto il 23,9 per cento della ricchezza nazionale. Sessant’anni dopo, nel 2008, la quota è rimasta sostanzialmente immutata, anzi è regredita, scendendo al 23,8 per cento. Nel frattempo, vi sono stati investiti ingenti capitali pubblici, e il Sud è cresciuto più o meno allo stesso ritmo del Centro-Nord, senza tuttavia riuscire ad annullare il ritardo. Anche se sono nate aree d’eccellenza, come in Basilicata, dove si registra una crescita del Pil regionale che fa impallidire persino la Cina: il 24 per cento. Isole felici, certamente. Perché per il resto il paesaggio è sconfortante.
Il Sud, infatti, dal 1995 al 2005 è sprofondato nelle classifiche europee, attestandosi tra il 165° e il 200° posto su 208. Un processo di regressione in decisa controtendenza con le altre aree deboli dell’Unione europea, che sono cresciute mediamente del 3 per cento annuo dal 1999 al 2005, mentre il Mezzogiorno italiano si è fermato al +0,3 per cento.
Altre cifre negative: l’80 per cento dei migranti meridionali ha meno di 45 anni d’età; il 50 per cento svolge professioni di livello elevato; l’esodo, che è alla base delle difficili condizioni del mercato del lavoro nel Sud, ha riguardato il 25 per cento dei laureati “eccellenti” nel 1974 e il 38 per cento nel 2007; tra i pendolari a lungo raggio, 173 mila sono gli occupati residenti al Sud nel 2008 con un posto di lavoro al Centro-Nord o all’estero (cresciuti di 23mila unità nel 2007: +15,3 per cento); infine, nel 2008 solo il 17 per cento dei giovani meridionali in età 15-24 anni lavora, contro il 30 per cento del Centro-Nord.

Va ricordato che quello dell’emigrazione è stato, a più riprese, un fenomeno italiano, e solo dalla fine del Secondo conflitto mondiale un avvenimento quasi esclusivamente meridionale. Una cronistoria tragica, costellata di episodi inenarrabili di sfruttamento, di soprusi, di persecuzioni, di odii razziali sui quali spesso e volentieri si è inelegantemente sorvolato.
Comunque, riepilogando: dal 1861, anno dell’Unità d’Italia, fino ad oggi, sono emigrati oltre ventinove milioni di italiani. Undici milioni hanno poi fatto ritorno; gli altri, no. Si è generata così un’Italia fuori d’Italia, stimata in sessanta-settanta milioni di persone, quanti sono gli oriundi e i loro discendenti sparsi per il mondo.
Alcuni hanno varcato le Alpi, altri gli oceani: in sedici milioni hanno cercato fortuna in varie aree dell’Europa, quasi dodici milioni nelle Americhe, poco più di mezzo milione in Africa, gli altri in Australia e in Oceania. C’è chi è espatriato in cerca di libertà, come gli esuli politici; ma la maggior parte – gente mossa dalla speranza di un futuro diverso e migliore – ha lasciato il Bel Paese in cerca di lavoro. Erano esuli della fame, della disperazione, nati in un’Italia giovane e fragile che negava pane e giustizia ai suoi figli più poveri; che era remota dal suffragio universale, e dunque impediva il diritto al voto alla maggioranza degli uomini e a tutte le donne. Sicché intere comunità abbandonavano con la morte nel cuore terre e parentele e amicizie solidali. L’Italia era stata fatta, gli italiani no. Fino a tempi recentissimi. E in qualche misura ancora oggi. Chi partiva, allora, era siciliano o veneto o romano o sardo o pugliese o umbro o lombardo o calabrese… Gente che parlava solo il proprio dialetto, analfabeti che spesso ignoravano l’italiano. Ma anche gente che si scopriva italiana soltanto quando era all’estero, che iniziava a guardarsi con occhi fraterni e a riconoscersi di identiche radici soltanto a migliaia di chilometri o di miglia marine di distanza dalla Penisola. Tuttavia, senza mai perdere del tutto e per sempre i legami, gli echi antropologici, la civiltà dei luoghi d’origine.

Un emigrante italiano e suo figlio in un cotonificio del Kansas (primo Novecento). - Archivio BPP

Un emigrante italiano e suo figlio in un cotonificio del Kansas (primo Novecento). - Archivio BPP

È stato scritto che le molteplici esperienze di emigrazione, legate ai diversi contesti regionali e locali di partenza, hanno generato un movimento che ha segnato la storia del nostro Paese, la costruzione della sua Unità, della sua identità. Come somma di identità peculiari, purtroppo a lungo rimosse dall’analisi storica. Gli studi sull’emigrazione, infatti, hanno evidenziato come il fenomeno non possa essere rappresentato in modo uniforme nelle cause e nei comportamenti; ma sempre influenzato dalle caratteristiche strutturali e culturali delle zone d’esodo.
Dato comune incontrovertibile: i numeri imponenti, i milioni di volti e la storia di storie umane, la dignità delle persone, la fierezza delle origini. Così scopriamo che la regione che ha generato storicamente più emigranti è stata il Veneto (3,2 milioni di persone), seguita da Sicilia e Campania (2,9 milioni di persone ciascuna), dalla Lombardia (2,5 milioni), dal Piemonte e dalla Valle d’Aosta (2,3 milioni complessivamente), dal Friuli (2,2 milioni), dalla Calabria (2 milioni).
La storia della nostra emigrazione ha trovato finalmente casa. E l’ha trovata nell’ambiente più nobile di Roma, nel Vittoriano, con un Museo promosso dai ministeri degli Esteri e dei Beni culturali, in collaborazione con le Teche Rai e l’Istituto Luce. Il Museo offre un percorso cronologico che allinea fotografie, documenti, lettere, cartoline, oggetti rari o legati alla vita quotidiana e al lavoro dei nostri connazionali all’estero, insieme con pannelli esplicativi, una biblioteca, una sala cinema e alcuni spazi di approfondimento interattivi con documentari, film, musica, canzoni popolari e altri materiali multimediali e testimonianze sull’emigrazione.
Una prima sezione è dedicata alle migrazioni pre-unitarie. La seconda racconta gli anni dal 1876 (quando iniziano le serie statistiche ufficiali) al 1915: sono gli anni dell’esodo di massa – il 54 per cento degli espatri si verifica prima della Grande Guerra. La terza sezione copre il periodo fra le due guerre mondiali e rilegge l’emigrazione in rapporto all’epoca fascista, a quella coloniale e ai flussi migratori interni. La quarta sezione presenta le profonde trasformazioni che il fenomeno migratorio affronta tra il 1946 e il 1976, epoca di radicali mutamenti per l’intero Paese.
Terminato il percorso storico, hanno inizio gli spazi dedicati alla realtà odierna degli italiani nel mondo, ma anche al «mondo che approda in Italia»: è a partire dagli anni Settanta che diventiamo Paese d’immigrazione. Nel frattempo, abbiamo mandato 5,8 milioni di italiani negli Stati Uniti, 4,4 milioni in Francia, 4,3 milioni nei Cantoni Elvetici, 3,1 milioni in Argentina, altrettanti nella ex Repubblica Federale Tedesca, un milione e mezzo in Brasile…
Aiuta a scoprire storie e vicende umane la banca dati, che ripercorre le rotte e i destini dei nostri avi consentendoci di accedere alle informazioni nei registri di sbarco delle navi approdate nei porti di New York, Buenos Aires e Vitoria. Un sito web censisce la trama di iniziative esistenti a livello regionale e locale – musei, fondazioni, centri-studi, archivi privati, associazioni – che sono rimaste a lungo sconosciute.

Ne fanno parte, fra i tanti altri, il Museo regionale dell’emigrazione di Gualdo Tadino (Perugia); la Rete dei Musei Siciliani dell’Emigrazione, (Salina, Savoca, Giarre, Canicattini Bagni, Ragusa, Acquaviva Platani e Santa Ninfa); la Fondazione “Paolo Cresci” per la storia dell’emigrazione italiana di Lucca; il Centro AltreItalie della torinese Fondazione Agnelli; il Centro studi emigrazione degli scalabriniani di Roma; il Museo Giovan Battista Scalabrini di Piacenza; il Museo dell’Emigrazione di Vibo Valentia intitolato allo stesso “apostolo degli emigranti” (“apostolo” al modo di Bonomelli e Francesca Saverio Cabrini, con gli anonimi operatori salesiani, barnabiti, pallottini); il Museo dell’emigrazione mantovana di Bagnacavallo; il Museo dell’emigrazione della Gente Toscana di Massa Carrara; l’Archivio storico dell’emigrazione italiana, di Viterbo; oltre ai Musei di Sant’Elia Fiumerapido (Frosinone), Roasio (Vercelli), e a quelli legati all’associazionismo regionale, sindacale, ecclesiale, o agli enti locali: soggetti molto diversi fra loro per storia, per “missione”, per attività, per profilo scientifico, ma tutti accomunati dall’attenzione a un versante drammatico della storia italiana troppo a lungo rimosso.

Fenomeno generale, abbiamo detto. Infatti, fra la metà del XIX secolo e il 1915 lasciano l’Europa, dirette nelle Americhe, 150 milioni di persone. Tra le cause di fondo, la forte crescita demografica, che riguardava tutti i Paesi; l’abbandono delle campagne, nelle quali era giunta al culmine la pressione dei braccianti e dei generici, che erano nello stesso tempo protagonisti e vittime di un’economia di pura sopravvivenza; e poi ancora, la rivoluzione industriale; e infine l’eccedenza di manodopera.
In questo scenario, l’Italia si pose con alcune peculiarità: all’indomani dell’Unità, i contrasti fra Stato e Chiesa furono forti; la questione agraria, irrisolta, provocò l’espulsione dei mezzadri; e l’unificazione geografica non avviò alcun bilanciamento tra le diverse aree del Paese in fatto di strutture e infrastrutture, i cui costi – quasi esclusivamente conteggiati per gli interventi a favore delle regioni del Nord – alimentarono una pressione fiscale che impoverì i ceti popolari, esasperandoli: non essendo ormai più tempo di insorgenze, si ebbe una fortissima spinta all’emigrazione, osteggiata dalla borghesia, che la vedeva come un fenomeno congiunturale e una perdita di manodopera. Per questa ragione chiese all’autorità pubblica di reprimerla. E così accadde. Ma ciò non bastò a fermare i migranti: soltanto nel 1913 ben 370mila italiani si imbarcarono sulle “bare galleggianti”, le navi stracariche di esseri umani, esuli della fame, diretti a Ellis Island, l’isola-porta d’ingresso negli Stati Uniti.
Subito dopo il Primo conflitto mondiale, l’intero movimento migratorio europeo ampliò lo sguardo e riconobbe nell’emigrazione un aspetto centrale della “questione sociale”, e nello stesso tempo reclamò strutture di supporto, oltre che materiale, anche socio-culturale, avendo compreso che la salvaguardia dei valori delle persone e l’integrazione nelle società d’arrivo non potevano essere tutelate in “personalità eradicate”, spogliate della propria identità, ma con donne e uomini saldi nella loro lingua e cultura d’origine, nel loro patrimonio di memorie, di tradizioni, di costumi, e di devozioni persino, come cemento sul quale costruire la vita delle discendenze.
Eccola, allora, la funzione vitale del Museo che celebra simultaneamente i 150 anni dell’Unità e i 100 anni del Vittoriano: esso può aiutare gli italiani di oggi, in particolare i giovani, a riscoprire figure straordinarie e storie straordinarie, nel bene e nel male, negli aspetti positivi e nei risvolti tragici che hanno costellato i giorni dell’espulsione demografica, che ancora oggi continuano a mettere in un cono d’ombra la vita civile e sociale del Sud Italia, e di quest’Italia soltanto, come se il tempo vi si fosse irrimediabilmente fermato.

Lettera spedita al quotidiano torinese La Stampa da Giuseppe Morgana, 70 anni, emigrante, pubblicata il 2 settembre 2009: «Chi scrive è un italiano residente all’estero, per definirmi meglio sono un emigrante, perché appartengo alla categoria di coloro che negli anni Cinquanta hanno dovuto lasciare la propria patria in cerca di un futuro migliore. Sì, con la triste valigia di cartone legata con lo spago. Gli italiani che vivono all’estero sono quelli venuti via in aereo o in navi di lusso, noi “emigranti”, invece, lo abbiamo fatto viaggiando in carrette dei mari. Non esistevano le cabine; le nostre erano le stive dove viaggiavano ammassati 300 o 400 passeggeri. Dico questo non per essere commiserato ma per difendere uno “status” del quale sono orgogliosissimo, perché, anche se molti lo hanno dimenticato o voluto dimenticare, gli emigranti – con i loro sacrifici, il loro lavoro, il loro mangiare pane e cipolla – ogni mese mandavano i pochi dollari che riuscivano a mettere da parte in Italia. Quanti milioni di emigranti lo hanno fatto da tutto il mondo? Quanti miliardi sono entrati nelle casse di uno Stato che era in ginocchio e che grazie anche a questi sacrifici è riuscito a risollevarsi e diventare quello che è oggi? Oggi però ci dicono che non ci sono fondi e quindi sempre meno soldi e meno risorse per i nostri consolati e le nostre ambasciate. In Venezuela ci sono connazionali che non hanno nessun sostegno e vivono della carità altrui. Sarebbe ora che i nostri governi si occupassero prima dei propri cittadini e dopo di quelli che pretendono di arrivare e sistemarsi alla meno peggio nel nostro Paese; che invece di dire che siamo un Paese inospitale andassero all’estero a lavorare per constatare quanto sa di sale lo pane altrui. Io da due anni non lavoro più, ragioni di salute ed età…».

Non li chiamavano extracomunitari solo perché il termine, all’epoca, non era stato ancora coniato. Li chiamavano “Musi neri”. Come quelli morti a Marcinelle (136 italiani, in massima parte meridionali). O li definivano, come in America, “wop” (without passport, senza passaporto), per indicarli come clandestini, smentendo in questo modo quanti, compreso lo scrittore Carlo Sgorlon, hanno negato che gli italiani avessero mai avuto a che fare con la clandestinità. Lo ricordano, fra l’altro, le celebri copertine della Domenica del Corriere che raccontavano di mamme travolte sulle Alpi da tempeste di neve, al modo di Angela Vitale che «si era messa in viaggio dalla lontana Sicilia con i suoi sei bambini». E lo rammentano decine di studi e di inchieste italiane e straniere.
Certo, in alcuni momenti storici e in alcuni Paesi la nostra emigrazione è stata “anche” regolare e concordata con atti bilaterali, come quello con Bruxelles, del 1946: «Per ogni scaglione di 1.000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà in Italia: tonn. 2.500 mensili di carbone...».
C’erano comunque, in quegli anni, due correnti regolari. Una di emigranti regolari, l’altra di clandestini, che in buona parte erano quelli che attraversavano i sentieri delle Alpi: vi transitavano centinaia e centinaia di emigranti per notte. Come riferì un cronista, una volta ne passarono mille in poco più di ventiquattr’ore, con intere nidiate di bambini. Era gente spesso in condizioni così disperate, che ad un certo punto il sindaco di Giaglione, in Alta Val di Susa, fu costretto a chiedere con insistenza alla prefettura di Torino un finanziamento supplementare, «non avendo più risorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi». Morivano qui, e morivano dalle parti di Ventimiglia, quando cercavano di valicare il Passo del Diavolo, nel tratto scosceso noto come “Salto della morte”, che portava in terra francese o all’altro mondo.

Emigrati italiani impegnati nelle opere murarie di un edificio, in Austria, in una foto degli anni Venti del Novecento. - Archivio BPP

Emigrati italiani impegnati nelle opere murarie di un edificio, in Austria, in una foto degli anni Venti del Novecento. - Archivio BPP

Sì, oggi non emigriamo più con i “treni della speranza” né con le “bare galleggianti”. Abbiamo in tasca il biglietto aereo e una laurea. Ma si continua ad essere espulsi da una terra che era di artigiani e contadini, e che è di combattenti e reduci.
Parla degli ultimi caduti in Afghanistan, Roberto Saviano. Di tutti i caduti qui e altrove, dice l’autore di Gomorra, la maggior parte sono meridionali arruolati nelle regioni d’origine, o figli di meridionali emigrati: «A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un’appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d’origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stata in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all’ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d’Italia, versano all’intero Paese». Sicché Nassirya, il Libano, Kabul sembrano, e sono, appendici del Mezzogiorno italiano, province dell’Italia miserabile, dal momento che qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori d’altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti; e delle armi, del potere, delle vite che, con quel che ne ricavano, riescono a comprare. E questa è una delle verità meno dette, in Italia. Non si dice che i ragazzi che si arruolano lo fanno perché non vogliono lamentarsi per la condanna – quella di sempre – alla disoccupazione e alla fame; perché non vogliono entrare fra i gregari delle mafie; perché vogliono misurarsi con se stessi e con gli altri per cambiare le cose in un Paese cinico, indifferente a ogni dolore, assuefatto a ogni tragedia, dimostrando il proprio coraggio e il proprio valore. Perché vengono da un Sud dove si è in guerra. Da sempre.

(Si dovrebbe ricordare nelle scuole del Sud, insieme con Marcinelle e con le vittime della “morte ignota” per affondamento di carrette del mare o per congelamento nel passaggio di frontiere montane, anche la figura di un sacerdote americano, il reverendo Everett Briggs, scomparso di recente, che dedicò gran parte della sua esistenza all’identificazione delle vittime della sciagura avvenuta a Monongah, nello Stato della Virginia Occidentale il 6 dicembre 1907. Quella sciagura fu – nello stesso tempo – il più grave disastro minerario mai verificatosi nella storia degli Stati Uniti, e la peggior tragedia abbattutasi su una comunità di italiani all’estero.

In quella tristissima circostanza persero la vita 956 lavoratori, la maggior parte dei quali erano italiani, emigrati dal Molise, dalla Calabria, dalla Puglia e dall’Abruzzo. Il reverendo Briggs fu per mezzo secolo il parroco della chiesa di Nostra Signora del Rosario di Pompei. Vi era giunto nel giorno di Natale del 1956, e aveva appreso della sciagura dai fedeli che ancora ne serbavano il ricordo.
Uomo di profonda umanità e di vasta cultura, dedicò le sue energie alla conservazione della memoria di quell’evento luttuoso e alla definizione delle sue reali dimensioni, per lungo tempo non a caso sottovalutate. Egli si prefisse, inoltre, l’obiettivo di dare un nome al maggior numero possibile di vittime: compito che era reso quanto mai arduo per il fatto che ai minatori veniva consentito di condurre con sé, quali aiutanti, pagati a prezzo vilissimo, figli minori che non venivano nemmeno registrati dalle compagnie minerarie. Briggs stabilì di onorare la memoria dei caduti realizzando a Monongah una casa di riposo per anziani intitolata a Santa Barbara, patrona dei minatori.

Poco prima di morire era in procinto di inaugurare il monumento, in marmo di Carrara, che celebrava le madri e le mogli dei minatori scomparsi nelle viscere della miniera. L’opera era stata da lui stesso intitolata “All’eroina di Monongah”. Perché fossero ricordate anche le martiri viventi dell’emigrazione).
   
   
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