Dicembre 2009

150 anni di divario. E la storia rischia di ripetersi

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Un’utile Banca per il Sud

Enzo Gamaleri

 

 
 

Una nuova banca può aumentare
la concorrenza
nel sistema
finanziario,
a patto che operi
con gli stessi
vincoli e con gli stessi criteri
applicati al resto del sistema
bancario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dobbiamo necessariamente partire da lontano, affrontando questo argomento. E constatare che con l’avvicinarsi del 150° anniversario dell’Unità d’Italia si comincia a riflettere, sia pure pigramente, sulla storia nazionale. Su quali siano i grandi mali del Paese c’è un discreto accordo, anche se sulle terapie ciascuno la pensa a modo suo. Campeggia, com’è persino ovvio, la “questione meridionale”, vista da tutti come il maggiore dei nostri problemi irrisolti. Tutte le forze politiche, comprese quelle che ritengono di difendere solo il Nord, concordano sul fatto che il divario di sviluppo socio-economico, a differenza di quanto è successo in altri Stati europei, non è stato colmato. Anche la maggior parte degli storici, italiani e stranieri, non ha seriamente messo in dubbio questo stato di cose, e semmai si sono chiesti perché in tanti anni nessun governo sia mai riuscito ad eliminare la cosiddetta “forbice”, riducendo le differenze a limiti ragionevoli (un divario del 5-10 per cento rientra nell’ordine delle cose, mentre il divario reale del 30-40 per cento che persiste nel tempo è una patologia grave).
Insomma, l’idea che ha preso piede è che il divario ci sia sempre stato e che l’unificazione della Penisola non sia servita a sopprimerlo. L’Italia era profondamente divisa nel 1861, e tale pare sia rimasta per tutta la sua vicenda unitaria. Questa leggenda metropolitana è entrata nel senso comune di molti di noi attraverso la celebre frase attribuita a D’Azeglio: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani».

Rosa Pugliese

Rosa Pugliese

Eppure, se si prova a ricostruire la storia del divario in termini statistici, come scarto fra il reddito pro-capite prodotto dalle regioni meridionali e quello prodotto dalle regioni del Centro-Nord, le cose sono tutt’altro che chiare. Fino a qualche anno fa la maggior parte degli studiosi riteneva che, al momento dell’Unità, il Sud avesse un ritardo dell’ordine del 15-20 per cento. Oggi, alla vigilia del 2011, una ricostruzione dovuta a due studiosi dell’economia – Paolo Malanima e Vittorio Daniele – ci restituisce una storia diversa.

Secondo i due autori, sulla base del lavoro che ha integrato fonti statistiche diverse (fino agli anni Quaranta non esisteva la moderna contabilità nazionale), non è affatto vero che al momento dell’unificazione il Sud fosse economicamente più arretrato del Nord. Il divario, invece, sarebbe interamente un portato proprio della storia unitaria, qualcosa che non esisteva nel 1861 e si sarebbe prodotto dopo. Affermano i due studiosi: il periodo nero della storia del Mezzogiorno è quello che va dal 1880 al 1951, mentre l’epoca che va dagli anni Cinquanta ai primi anni Settanta sarebbe il periodo migliore della storia post-unitaria del Sud.
Questa ricerca si ferma al 2004. Dotandola dei dati ufficiali più recenti, possiamo tracciare una traiettoria completa, dal 1861 al 2009. Ebbene, il risultato non è dei più allegri. La tendenza di lungo periodo sembrerebbe, inequivocabilmente, al declino relativo del Sud, con due soli periodi di respiro: il ventennio dal 1951 al 1971, e il decennio 1995-2005. In sintesi: su 150 anni di storia unitaria, circa 120 sarebbero di arretramento. Un grande shock per un Paese che, distrattamente, si avvia a festeggiare l’Unità conquistata un secolo e mezzo fa.

Archivio BPP

Archivio BPP

Una “questione” da risolvere senza più rinvii, si dice nel Palazzo. E a conferma, si vara un progetto che dovrebbe essere il pilastro portante della “nuova” politica in favore del Mezzogiorno: vale a dire, la creazione di una Banca del Mezzogiorno in grado di emettere obbligazioni dedicate al Sud. Il ministro dell’Economia ha tranquillizzato gli scettici: «Non sarà un carrozzone, anche perché l’Unione europea non ce lo consente». Anche se ci preoccupa, in via preliminare, l’altra affermazione: «Sarà una banca dove non si parlerà inglese», perché «si occupa di piccolo e medio credito».
Sarà già bene che non parli neanche in dialetto, ma probabilmente dovrà parlare francese, visto che «il modello di riferimento è quello del Crédit Agricole», tra l’altro principale azionista di BancaIntesa. «C’erano resistenze preconcette – ha sostenuto il ministro – ma adesso in sede Abi e Confindustria c’è un crescendo di favore per questa iniziativa». Anche perché, fra l’altro, «ipotesi come quella di una Mediobanca del Sud sono robe che non hanno senso».

La creazione della banca è regolata da un disegno di legge che prevede uno stanziamento di 5 milioni di euro (su 6,7 miliardi di flussi di finanziamento previsti) come start-up per far funzionare il comitato promotore: «Questo è l’investimento massimo previsto per lo Stato, una quota simbolica, poi il Tesoro uscirà per lasciare il posto ai privati». Il “cuore” del disegno di legge che disciplina il funzionamento non solo della nuova banca, ma di tutto il credito per il Sud: il risparmiatore che sceglie di destinare i suoi investimenti al Sud – usando bond, certificati, titoli o altri strumenti di raccolta emessi anche da banche del Nord, per un ammontare massimo di 100mila euro a soggetto – avrà aliquota fiscale agevolata del 5 per cento (contro l’attuale aliquota del 12,5 per cento). Cambieranno anche le garanzie dello Stato sui bond emessi dalla stessa Banca per finanziarsi: se nella prima versione era a tempo indeterminato, ora si ipotizza una garanzia massima di due anni per «obbligazioni emesse a condizioni di mercato con durata non inferiore a tre anni».
Il ministero dell’Economia effettuerà un monitoraggio semestrale al fine di verificare gli effetti sui saldi di finanza pubblica e conseguentemente a individuare idonei mezzi di copertura: diversamente, se concesse, quelle garanzie contribuirebbero ad aumentare il disavanzo pubblico. Ulteriore precisazione di Palazzo Chigi: «La banca si inserisce nella politica e nella strategia del governo per il Mezzogiorno, ma non la esaurisce». Excusatio non petita, vista l’amara cronistoria sul tema ancora viva nella nostra memoria?

Due monete da 120 grana del Regno delle Due Sicilie: a sinistra, Ferdinando IV (1793) e, a destra, Ferdinando II di Borbone (1851). - Archivio BPP

Due monete da 120 grana del Regno delle Due Sicilie: a sinistra, Ferdinando IV (1793) e, a destra, Ferdinando II di Borbone (1851). - Archivio BPP

C’è chi vede questa iniziativa come fumo negli occhi. Dice Cirino Pomicino: «Adesso scoprono che il Mezzogiorno d’Italia è l’unica regione d’Europa, dal Baltico a Malta, che non ha una sua banca. Sono cose sconvolgenti: perché nessuno ha parlato quando negli anni Novanta le banche del Sud venivano assorbite dagli istituti del Nord? Al contrario di altri, io non c’ero».
Gli “altri” a cui si riferisce sono essenzialmente uno: Giulio Tremonti. Il quale potrebbe ammettere di “avere sbagliato”, perché tutti una volta o l’altra sbagliano. Ma sbagliò, secondo l’ex ministro del Bilancio ai tempi del Caf (asse Craxi-Andreotti-Forlani), anche chi «si calò le braghe» di fronte al commissario europeo Karel Van Miert. «Perché al Banco di Napoli, banca pubblica italiana, non vennero concesse le stesse possibilità date invece al Crédit Lyonnais, una grande banca pubblica francese fallita?». L’Italia era sotto schiaffo a Bruxelles? O c’era un governo di pavidi? Chissà.
Ma le responsabilità della politica non c’entrano niente con il crac del maggiore istituto bancario del Sud? Sarebbe necessario ricordare il contesto. Ecco quel che disse il vice-presidente del Banco, Vincenzo Scarlato, ex parlamentare democristiano, al giudice Eduardo De Gregorio che indagava sul crac: «Sono entrato nel CdA del Banco di Napoli per designazione politica da parte della corrente della sinistra dc, facente capo a De Mita. Sono stato eletto vice-presidente per ragioni di equilibrio politico e non per specifiche competenze professionali. Invero, ho sempre avvertito la disparità incolmabile fra la dimensione e la complessità delle attività da svolgere in qualità di vice-presidente e la mia inadeguata preparazione specifica». Allora le cose andavano così.
E la vicenda dell’altra grande banca del Sud, il Banco di Sicilia, non fu molto diversa, se è vero che nell’agenda dell’ex presidente Giannino Parravicini venivano scrupolosamente annotate tutte le segnalazioni che arrivavano dai politici: Calogero Mannino, Aristide Gunnella, Riccardo Misasi… Un fido di qua, un’assunzione di là, una consulenza a destra, una transazione a sinistra. Poi ci si stupisce che il Sud non abbia più una sua banca!

E pensare che al Sud volevano dare una Mediobanca: Meridiana Finanza, si chiamava così. Doveva rappresentare «il perno creditizio attorno al quale far ruotare i finanziamenti all’imprenditoria del Sud», e per questo era stata modellata dal presidente dell’Iri, Franco Nobili, sulla Mediobanca di Enrico Cuccia: banche e imprenditori privati. Ma con le dovute differenze.

Un registratore di cassa “National”, prodotto dagli Stati Uniti per l’Europa nel primo Novecento. - Donato Antonaci Dell’Abate

Un registratore di cassa “National”, prodotto dagli Stati Uniti per l’Europa nel primo Novecento. - Donato Antonaci Dell’Abate


C’erano Comit, Credit, Banco di Napoli, Imi e un plotone di imprenditori considerati quantomeno non ostili al Caf: Barilla, Franco Ambrosio, Dioguardi, Pisante, Lavezzari, Gavio e Giuseppe Ciarrapico. Presidente, “un professore napoletano, Antonio Marzano”, che poi fu ministro con il centro-destra, e che ebbe col capo del governo scontri memorabili perché – sostiene Pomicino – in tre anni quella banca non concluse un bel nulla, sicché l’8 agosto 1994 l’Iri ne decise la chiusura.
Qualche anno più tardi ci fu chi riprovò a rilanciare una grande banca del Sud. Con il Mediocredito Centrale, ancora banca pubblica, Gianfranco Imperatori riuscì nel 1997 a rilevare il Banco di Sicilia. La sua idea era quella di creare un grande polo bancario per il Mezzogiorno. Ma il progetto svanì due anni più tardi, perché la Banca di Roma di Cesare Geronzi assorbì Mediocredito e Banco di Sicilia.
Finché, tornato al potere, Tremonti ha rispolverato un’idea che covava da quattro anni. All’epoca, però, la sua Banca per il Sud aveva tutto il sapore della provocazione, tanto che per la presidenza si fece il nome di Charles de Bourbon des Deux Siciles. Nientemeno che l’ultimo rampollo dei Borbone! Solo che ai tempi in cui questa dinastia sedeva sul trono di Napoli le banche meridionali erano grandi e rispettate.

È una sfida non priva di rischi, poiché un altro grande problema del Sud è – fatte le debite eccezioni – la scarsità di buoni investimenti. E allo stato delle cose, non è affatto chiaro se la Banca del Mezzogiorno avrà la capacità reale di colmare questa lacuna, senza creare ulteriore debito pubblico, attualmente attestato ai livelli di guardia del 1992.
Ha scritto l’economista Pietro Garibaldi: «Anche se il Mezzogiorno è forse la parte più bella del Paese, è una terra in cui il contesto generale poco si addice ad assumere rischi imprenditoriali. Innanzitutto vi è un ben noto problema di criminalità organizzata. Vi è poi una pubblica amministrazione largamente inefficiente e una cronica mancanza di infrastrutture. Questi tre elementi rendono l’attività imprenditoriale e gli investimenti nel Mezzogiorno più rischiosi rispetto al resto del Paese. Non a caso, questo specifico rischio meridionale si manifesta oggi in un costo del credito nel Mezzogiorno superiore a quello del Nord del Paese».
Tutto vero. Ma attenzione: se i cartelli del crimine non sono stati ancora eradicati nelle regioni meridionali, è anche perché – come si viene non scoprendo, ma confermando da settembre scorso – lo Stato, o servizi dello Stato, o forse anche strutture deviate dello Stato, hanno consentito ai pezzi da novanta, in particolare siciliani, di stabilire contatti (trattative?) con esponenti delle istituzioni, concedendo armistizi, consentendo il dispiegamento indisturbato del malaffare, (sarà la magistratura ad accertare i fatti), in cambio di una tregua nello stragismo. A conferma che le zone d’ombra nelle quali ripiegano da sempre i misteri italiani, più che essere rischiarate, si moltiplicano come per partenogenesi.
Allora non è la società meridionale a volere arretrare nel futuro. Non sono gli uomini e le donne comuni del Sud ad alimentare il tasso di rischio. Sono le grandi, medie e piccole caste, con i loro intrecci di complicità e con le aberrazioni dell’avidità (di potere, di denaro), sulle quali si indaga con crescenti difficoltà, tanto sono consolidati i loro meccanismi di relazione e di azione criminosa. E non soltanto nel Sud.

Chiudiamo questa parentesi, e rientriamo nel tema. Dal punto di vista dei mercati finanziari, una nuova banca può essere un modo per aumentare la concorrenza nel sistema finanziario. Ma si deve trattare di una banca che effettivamente opera con gli stessi vincoli e con gli stessi criteri applicati al resto del sistema bancario. Altrimenti sarà uno strumento distorsivo della concorrenza, oppure uno stipendificio per amici, oppure una fonte di finanziamento per gli amici degli amici, o infine, e peggio che mai, un modo subdolamente carsico dei banchieri nordisti (non ci si meravigli, gli esempi si sprecano: si rilegga senza paraocchi la storia della Cassa per il Mezzogiorno) di spacciarsi per moralisti regolatori/rilanciatori delle attività di investimento nel Sud, mentre si è di fatto controllori del sistema bancario meridionale (che è ben radicato nel territorio) e rastrellatori di capitali meridionali, da gestire nominalmente, per progetti selezionati solo ed esclusivamente da banchieri e da interessati imprenditori del Nord.
A dirla tutta, con franchezza, i problemi del Sud sono ben altri: sconfitta della criminalità, senz’altro; ma anche creazione di posti di lavoro con moderne officine senza ciminiere, ritorno all’efficienza della pubblica amministrazione, rilancio della scuola e dell’Università, sviluppo della ricerca scientifica, recupero della produttività, moderne infrastrutture, moralizzazione generale della società… E serve ben altro che uno sportello bancario per risolverli.

Oltre le parole, il vero progetto

Una banca “alla francese”

Dimab

C’era una volta una Francia profondamente rurale, ricca e fiera dei suoi raccolti, dei suoi vini, dei suoi allevamenti e dei suoi formaggi. In quella Francia sono germogliati all’epoca della Terza Repubblica (sul crinale tra il XIX e il XX secolo) i semi del Crédit Agricole, soprannominato la “banca verde”. Attualmente, il Crédit continua ad avere due volti: quello delle campagne transalpine – in cui la rete dei suoi sportelli è paragonabile solo alla presenza delle Poste, della Gendarmeria, delle sedi municipali e delle scuole elementari – e quello multinazionale di un autentico gigante bancario.
Tremonti ha presente il primo volto, sapendo che oggi le Casse regionali francesi sono esse stesse delle banche, che contribuiscono a formare e a guidare la casa-madre del gruppo, che si chiama proprio Casa (ossia Crédit Agricole Sa), quotata in Borsa dal dicembre 2001, ma al sicuro da ogni possibile scalata perché la maggioranza assoluta del suo capitale è nelle mani delle Casse regionali.
Per cogliere il carattere del tutto particolare del Crédit dobbiamo fare molti passi indietro. La prima Cassa agricola locale della storia francese è nata il 23 febbraio 1885 a Salins-les-Bains, località del dipartimento del Giura, (confinante con la Svizzera), dove un tempo si scavava la terra alla ricerca del sale.
Le saline venivano in effetti da sorgenti sotterranee, la cui acqua era carica di sale, tradizionalmente estratto attraverso lavorazioni particolari. Il microcosmo agricolo-minerario di Salins aveva bisogno di investimenti, e perciò le risorse finanziarie locali furono raggruppate su base cooperativa, in modo da creare qualcosa di molto simile a una banca. In seguito, l’esperienza si ripeté in giro per la Francia, dove spuntarono molte Casse locali, destinate per esempio a finanziare l’acquisto di strumenti di lavoro e a fornire agli agricoltori anticipi sui proventi dei loro raccolti.
In questo modo è nata una struttura capillare di Casse a base cooperativa, direttamente collegate all’attività rurale, definita Caisses locales et régionales de Crédit Agricole mutuel. Alla fine del XIX secolo vennero varate due leggi per precisare le condizioni dell’attività delle Casse locali e regionali, che iniziarono a fungere da tramite tra Stato e mondo rurale, gestendo il meccanismo dei prestiti a condizioni vantaggiose per gli agricoltori. Nel 1920 quell’impalcatura finanziaria si diede un volto unitario con la nascita dell’Office National du Crédit Agricole, che nel 1926 si trasformò nella Caisse nationale du Crédit Agricole (Cnca, oggi Casa), il cui controllo venne assunto dallo Stato.
Le cose cambiarono con la legge del 18 gennaio 1988, che prevede una forma del tutto particolare di privatizzazione della Cnca: in pratica, il Crédit passò nelle mani delle sue stesse casse mutualistiche regionali per una cifra che ora come ora appare irrisoria: poco più di un miliardo di euro.

Parigi, La Banque de France, nel I Arrondissement, uno dei quartieri più antichi della capitale transalpina. - Ph. Ktylerconk

Parigi, La Banque de France, nel I Arrondissement, uno dei quartieri più antichi della capitale transalpina. - Ph. Ktylerconk

Le 39 Casse regionali compongono la Federazione nazionale del Crédit Agricole (Fnca) e controllano le 2.559 Casse locali, per un totale di 74mila dipendenti (sui 97.500 del Gruppo presenti sul suolo francese). Ciascuna delle Casse regionali è detenuta al 25 per cento dalla struttura centrale del Crédit, con cui esiste dunque un rapporto di influenza reciproca.
Gli anni scorsi sono stati caratterizzati dall’impressionante espansione del Crédit Agricole, diversificatosi soprattutto col boom dell’attività della sua filiale assicurativa “Predica” (ancora oggi Crédit crede fermamente nelle sinergie banca-assicurazioni) e con l’acquisizione nel 1996 della Banca d’Affari Indosuez (la rivale storica di Paribas).
Nel 2002 Crédit si impegnò nella battaglia per il controllo del Crédit Lyonnais, che vinse sborsando un prezzo molto superiore al previsto (il Lyonnais si è in seguito trasformato nell’attuale “Lcl”, mentre le sue attività di banca d’affari si sono fuse con quelle del Crédit Agricole-Indosuez, dando vita all’attuale “Calyon”, che è presente in 58 Paesi, e che ha subìto perdite molto rilevanti per via della crisi dei subprime).
In Francia il Crédit Agricole è il numero uno grazie alla sua straordinaria rete di 9.100 sportelli, e grazie anche al fatto che oltre un quarto delle famiglie possono essere annoverate tra i suoi clienti. Sul piano mondiale, il Crédit ha in tutto (Francia compresa) 160mila dipendenti. È presente in ventiquattro Paesi e tra i suoi punti di forza ci sono l’Italia (dove è azionista di Intesa-San Paolo con il 5 per cento circa, e controlla il gruppo Cariparma FriulAdria) e la Grecia (controllo della banca Emporiki).

 

   
   
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