Dicembre 2009

alla ricerca dei poeti dimenticatI

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In ombra

Ada Provenzano
Giorgio Franciosa
Elisa Minerva

Coll.: Giovanna Arigliani
Alessandro Olmo
Enzo Oxilia

 
 

Autentica poesia.
Nessuno è stato sorretto dalla
critica militante, dalle grandi case editrici. Eppure in molti nascondono bagliori di vite
lacerate, demolite, celate dalla
quotidianità.

 

 

Avevamo accennato in una precedente occasione alla necessità di inserire in una qualche discreta silloge i testi di alcuni cantautori. Si trattava di una convinzione espressa anche da altri autori di raccolte, di antologie, tuttavia rimasta nel limbo delle buone intenzioni, o, come è stato scritto, mai inverata nel gran fortunale della scrittura ufficiale. In una o due occasioni soltanto qualche editore ha tentato la sorte, ospitando le parole in musica di un De Andrè o di un Dylan. Ma soltanto da poco il tentativo si è concretizzato grazie a una raccolta – Gli invisibili – che accoglie non soltanto Fabrizio De Andrè, Paolo Conte, Piero Ciampi, Franco Battiato, Angelo Branduardi, Vinicio Capossela, Gianmaria Testa, Demetrio Stratos e il “maestro” Domenico Modugno, ma anche una fitta schiera di poeti messi in ombra dalla cultura ufficiale.
E passi per Arturo Onofri, Cristina Campo, Amelia Rosselli, Giorgio Vigolo, Davide Maria Turoldo, Angelo Maria Ripellino e soprattutto Clemente Rebora, che un loro posto in uno spicchio di sole bene o male lo hanno trovato. Ma in questo caso vengono fuori dal cono d’ombra altri nomi, che aprono (per meglio dire, riaprono) la seria questione: a che cosa serve la critica? A celebrare farisaicamente l’esistente, o a cercare nel sottobosco degli ignorati di turno? Perché alcuni nomi che non dicono molto, o addirittura nulla, al lettore non soltanto medio, ma anche di buona cultura, riservano gradevolissime sorprese: dal siciliano Edoardo Cacciatore (presente, fra l’altro, nel catalogo di un nostro validissimo editore, Manni), ai lombardi Emilio Villa e Luisito Bianchi, al campano Lorenzo Giusso, al piemontese Eugenio Battisti, al toscano Lamberto Maccioni, ai calabresi Lorenzo Calogero e Aldo Dramis, al romano Marcello Jacorossi, al bellunese Beniamino Dal Fabbro.
Nessuno di costoro è stato sorretto dalla critica militante, dalle grandi case editrici. Eppure essi (e molti altri ancora) nascondono bagliori di vite lacerate (consacrate, demolite, celate dalla quotidianità), e di poesia autentica. Poesia vera, semplice, colma di umanissimo stupore, come in Luisito Bianchi:

«Doppiamente folle o Signore
nello spiegare il mio canto
col fiato che mi rimane di questa lunga giornata
per credere ostinatamente
che nel deserto nasce la primavera
e al di là della notte
il sole s’annuncia».


O come in Neri Pozza, che vien fuori dall’oblio poetico con liriche profonde e tese agli abissi del non dicibile, seppure proposte con levità quasi familiare.
Una prima esplorazione fra i giacimenti della poesia metafisica del Novecento, subito emergono i versi di Arturo Onofri, che nel suo “Nuovo Rinascimento come arte dell’Io” aveva scritto: «Ogni parola (…) è come una formula magica, che evoca lo spirito del quale essa non è che il corpo. E l’essenza vera della parola è non solo di creatrice del mondo, ma anche di liberatrice del mondo. Essa è redenzione e salvazione. Con le parole fluisce l’essenza dell’universo, come con l’acqua si muove la corrente di un fiume. Ciò che noi vediamo come rappreso, fissato nell’esistenza fisica degli esseri e delle cose, la parola ne può ridare la vivente fluidità originaria; essa può disincantare dal mondo materiale l’essenza plastica dello Spirito che vi si immerse foggiando la materia, e può riportare questo Spirito alla sua primitiva libertà e potenza risorta...!».
Di Onofri, “Cometa”:

«Rossa cometa che baleni un’ora
sull’orizzonte afoso della vita,
e più deludi quei che più t’adora
sì che forza gli dà la tua smentita;
Arte, in te sola il mio tormento anelo
innamoratamente s’inabissa;
ond’io sospiro d’inchiodarti al cielo,
ché tu vi splenda come stella fissa».


E in “Terrestrità del sole”:
«Ecco il ritmo frenetico del sangue,
quando gli azzurri tuonano a distesa,
e qualsiasi colore si fa fiamma
nell’urlo delle tempie.
Ecco il cuor mio nella selvaggia ebbrezza
di svincolare in esseri le forme
disincantate a vortice di danza.
Ecco i visi risòlti in fiabe d’oro
e in lievi organi d’ali.
Ecco gli alberi in forsennate lingue
contorcersi, balzar fra scoppiettii
di verdi fiamme dalla terra urlante.
E fra l’altre manie del mezzogiorno,
ecco me, congelato in stella fissa,
ch’esaspero l’antica aria di piaghe
metalliche, sull’erba di corallo.
(Pulsa il fianco del mare sul granito
come un trotto infinito di cavallo)».


E infine da “Zolla ritorna cosmo”:
«...Alberi e cuori esalano un respiro
che unitamente ascende verso i mondi:
vita irraggiante eternità, nel giro
degli astri in sé defunti, su dai fondi
del tellurico suolo,
che innalza impeti a volo.

Zolla ritorna cosmo, per ridare
alle stelle energie germinative
create qui dal pullulio solare
d’erbe e d’umanità: zolla che vive
nei cieli sovrumani,
tessendovi il domani…».

Clemente Rebora, adesso, con il quale, per usare un’espressione di Celan, «la poesia non si impone, si espone». Una poesia più propriamente filosofica, che le radici oscure nella sofferta coscienza dell’impossibilità di venire a capo serenamente delle proprie contraddizioni; una poesia che rivela il disagio di una generazione e di un’epoca in cerca di una propria autonomia espressiva.
Scrive:
«Come frantumo sull’onda,
o animazion profonda,
vagò la fantasia;
di te creasti e non parve.
Ecco: nella grande ora sommersa
la trama dell’ombra incastona
nidi e bisbiglia di lucidi fili;
con ciglia bagnate, traspaiono
evanescenze materne e sfumano
in un sentor di carezza;
fosforescenze di scie,
sussurro interior d’armonie
sciolgon con pace e sgomento soavi
le lucciole del mistero
in ala di dolcezza
a me che trasfiguro
perso in divino fremito il pensiero».

E ancora:
«Fuor delle nubi d’ebano e amianto
guarda il cielo in pertugio lunare:
quasi è di belva alla vista del pasto
la rauca furia del mare;
scintilla il flutto ora là ora qui
per vertebre e fauci, nell’alto e agli scogli:
sul tufo del tempo, all’aperto contrasto,
s’infrange e si crea
la labile storia del mondo,
s’invera e trapassa così».


La poesia di Davide Maria Turoldo non ha come riferimento esclusivo la denuncia, ma implica con il suo rapporto col divino anche la visione delle cose terrene. Non a caso ad introduzione del suo “Prorsus et versus” (sottotitolo: Motivi per un poemetto eretico) riporta un brano tratto dai “Fratelli Karamazov”, con la dichiarazione folgorante: «…Oh, nel mio povero spirito terrestre euclideo, io so soltanto che il dolore esiste, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa scaturisce direttamente e semplicemente da un’altra, che tutto scorre e si equilibra; ma già, queste non sono che bubbole euclidee... A me occorre un compenso non nell’infinito, chissà dove e chissà quando, ma già qui sulla terra, e tale che io stesso lo possa vedere...». Il fine, dunque, è quello di far combaciare l’“ordine e connessione delle idee” con l’“ordine e connessione delle cose”: rapporto dialettico il cui tormento teologico-morale è smisurato, ma che pure trova nella finitezza del verso la propria realizzazione.
Da “Ultime poesie”:
«Mio male non è l’orrendo drago
che pure mi addenta e si avvinghia
su per il corpo come
il Serpente sull’albero della vita.

Mio male è sapermi impotente
a dire il tuo dramma, mio Dio,
di fronte allo stesso male:
il tuo patire della nostra pena
di saperci così infelici.

O di non cantare con degni canti
la festa che fai quando
un bimbo è felice
e un disperato torna a sperare...».

Carlo Stasi

Carlo Stasi

Vigolo ebbe dapprima uno stretto sodalizio con Onofri. Poi interruppe il rapporto per non essere accusato di scrivere poesia di ispirazione esoterica, al modo di quella onofriana, cui contrapponeva una ricerca di armonia e di equilibrio attraverso lo studio dei classici nostri, ma anche europei, al fine di «contemperare Goethe con gl’italiani», (Petrarca, i Cinquecentisti, Leopardi). Vigolo, dunque, non mirerà a smaterializzare la realtà terrena rinvenendo in essa i segni della presenza divina; né mirerà alla scomparsa del corporeo nella totale fusione con l’assoluto, ma privilegerà il tema dell’incarnazione nell’incontro con il soprasensibile che si pone al limite dell’esperienza poetica.
Dall’emblematica poesia “Il ritorno di sera”:
«Talor vagando per erbosi monti
il vespero mi coglie e la serena
urna il silenzio sopra me sospende
sì che intorno non sento che odor d’erba;
se chiudo allora gli occhi
vedo nel buio cuor sorgere un’alba
e illuminarsi un ignorato mondo:
in me stesso nascondo un altro cielo.
E par che il sol che dietro i boschi cade
e brune lascia le contrade e i monti,
dentro di me rinasca ad albeggiare
e non tramonti.

Anima senza tempo in te mi perdo…

E sento ormai che del corporeo mondo
ogni parvenza trema e si dilegua:
questa è la soglia estrema
ove il pensier degli umani è spento…

Ma più grata al riaprir gli occhi, la cara
terra che amiamo e le borgate e il fiume
che il moribondo lume
della sera d’autunno in sé rattiene
e con sue rosee vene
l’ultima luce per le valli sparge.
Caro viso di donna anche ritrovo
sulle fiorite soglie
della casa serena:
e quasi gli occhi inumidisce il pianto
se sull’amata bocca e sulle chiome
bacio l’antica pena
e il ritrovato incanto
della vita terrena».


Riecheggia qui la voce profondamente religiosa di Giovanni Testori, di gran lunga più noto come narratore e, per altro verso, come autore di testi teatrali peraltro riflessi in molti testi poetici dal tono epico, o epicamente recitativo:
«Dentro di Lui, dentro di me,
vi stringo tutti.
Tutti vi stringo,
uno per uno,
nella famiglia immensa e intera,
nella bellissima foresta,
nel prato d’erba che formate,
nell’ardente grandissima vetrata.
Vi stringo tutti dentro le mie ossa,
attorno al fuoco vi rinchiudo,
nella capanna lacera,
nel povero frammento che è restato
del camino.
Oh, figli miei,
miei fratelli,
siete voi il mio senso,
siete voi il mio destino…
Non c’è segno diverso,
non c’è diverso amore,
né diversa vastità,
nel volere che tu, e tu,
quanti qui siete,
quanti qui foste,
quanti nei secoli sarete,
per cui rinascerò ogni volta che vorrete,
ogni volta che in silenzio
e gridando voi mi chiamerete,
per cui rinascerò anche se mi rifiuterete,
anche se ogni teatro sarà per me
deserto, vuoto...».

Carlo Buttazzo

Carlo Buttazzo

Tutto il complesso itinerario di Cristina Campo sotto il segno della perfezione e della bellezza resterebbe un’esperienza puramente estetizzante, se non fosse fondata sulla ricerca della Verità, e determinata, alle origini, dall’incontro sconvolgente con il pensiero di Simone Weil. Grazie al quale si verifica un’osmosi tra il pensiero della filosofa transalpina e quello che va formandosi nella mente della scrittrice italiana, tracciando un cammino che ha nella «passione della purezza» il senso di direzione da cui sgorga ogni ulteriore scoperta, fino alla divergenza finale che sfocia nella scelta religiosa della Campo, che si ricrea nella parola uno spazio estatico in cui elevare la sua preghiera:
«Ora non resta che vegliare sola
col salmista, coi vecchi di Colono;
il mento in mano alla tavola nuda
vegliare sola: come da bambina
col califfo e il visir per le vie di Bassora.

Non resta che protendere la mano
tutta quanta la notte; e divezzare
l’attesa della sua consolazione...».

Amelia Rosselli, figlia e nipote dei fratelli antifascisti assassinati nel bosco di Bagnoles-de-l’Orne ad opera dei membri della Cagoule francese su commissione dei servizi segreti italiani, sommò tragedia (familiare) a tragedia (personale), il giorno in cui, nel febbraio ‘96, chiuse il cerchio della distruzione vitale e dell’inesaurito martirio mentale con un ultimo volo dal balcone di una cucina, come ha scritto Marzio Pieri, «cielo e interno domestico, precipite estasi e chiusura, suggello e prigione», anima contesa da troppe capitali, troppe lingue, troppi miti e dèi formativi, troppe vie di salvezza e caduta, troppe impotenze e troppe ricusazioni, nel teatro di una donna sola.
Da “Una martire”:
«...E cosa voleva quella folla dai miei sensi se non
l’arsa mia disfatta, o io che chiedevo
giocare con gli dei e brancolavo
come una povera mignotta su e giù
l’oscuro corridoio – oh! Lavatemi i piedi, scostate
le feroci accuse dal mio
reclino capo, reclinate
le vostre accuse e scombinate ogni
mia viltà!: non volei io rompere il delicato strato di ghiaccio
non volei rompere la battaglia crescente, no, giuro, non volei
irrompere fra le vostre risa
irrisorie! – ma la grandine ha altro scopo che
di servire e l’orientale umido vento della
sera ben si guarda dal portar
guardia ai miei
disincantati singhiozzi da leone: non più io correrò
dietro ogni passaggio di bellezza, – la bellezza è vinta, mai più
smorzerò all’attenti quel fuoco che ora balugina come
un vecchio tronco
del cui cavo le rondinelle fanno deriso nido, gioco d’infanzia,
in calcolante miseria, in calcolante miseria di simpatia».


E sulla lunghezza d’onda del Rimbaud di “Trouvez Hortense”:
«Trovate Ortensia
che muore fra i lillà, fragile e dimenticata.
Sorridente e fragile fra i lillà della vallata
impietosita; impietrita. Trovate Ortensia, che
muore sorridendo tra i lillà della vallata,
trovatela che muore e sorride ed è stranamente
felice, fra i lillà della villa, della vallata
che l’ignora. Popolata è la sua solitudine di
spettri e di fiabe, popolata è la sua gioia di
strana erba e strano fiore, – che non perde l’odore».

Carlo Buttazzo

Carlo Buttazzo

Quello di Angelo Maria Ripellino è nome rimasto legato soprattutto al prestigio dello slavista, autore di memorabili saggi (“Praga magica”, “Il trucco e l’anima”) e traduzioni (Pasternak, Belyj, Holan, Halas...). Minori gli echi dell’autore di sei raccolte di poesia, voce anomala che si considerava «fuori tempo, fuori mafia, fuori festa», anche se in realtà fece tesoro in varie forme delle avanguardie del Novecento: dai cubo-futuristi russi ai dadaisti, dai surrealisti ai poetisti praghesi.
La sua, ha scritto Antonio Pane, è una danza sbilenca, nella quale «adotta la veduta obliqua, doppia, furtiva dei nipoti di Hoffmann, di Stern, di Laforgue; e vi adibisce la forma del “diario” (l’improvvisazione, l’appunto veloce, il graffio estemporaneo) riversata nella marcia traballante del ritmo: uno swing tutto giambi, sincopi, scarti, fatto di accelerazioni e decrementi, che fa pensare a un esametro ubriaco, scosso da tremiti». Ma, quasi per contrappeso e contrappasso, pretende dalla sua scrittura il massimo di compattezza e spessore: la vuole concreta, consistente, attestata in solide trame fonetiche, «in tambureggiante consonantismo”.

Il risultato è una “pronuncia” inconfondibile:
«Meglio non dir nulla di nulla, soffrire senza proclami,
barbugliare abbagliati dall’acciarino del pianto.
Ma a che cosa aggrapparsi? Si affonda nel fango.
E a che servi? Chi sei? Perché sopravvivere?

Anche se zero, se straccio, se torso, tu devi
risalire, respingere i crac e le croci, se larva,
se ombra, se filo di fumo, se crespo di lutto,
se hai voglia di rivederli, se zero, se ombra,
anche se straccio, perché rinunziare, se ruggine,
perché spegnere tutto?».


E dedicata a Dylan Thomas, sul filo dello stesso tema:
«Vita, non abbandonarmi. Comunque tu sia, cactus, coltello,
daga, cappio, ferro in fuoco, oscurità, malsanìa,
sei sempre vita, e frullina e leggiadra e civetta:
anche se nonostante, continuo ad amarti.
Comunque tu sia, laida e scrignuta e streghesca e malvagia,
sei sempre vita, e preziosa nel mio lapidario.
Verde riviera, non abbandonarmi:
anche se involto d’atroce malinconia,
non voglio smarrirti, zitella dal fiato pesante,
guercia bigotta, garrula becchina,
tu rogna e affrantura, tu amore, mia vita,
tu limpida vita, tu vita inimica, ma vita».


E nella silloge “Autunnale barocco”, un grido dal circo-teatro della vita:
«Come rassegnarsi al termine della morte,
quando si hanno ancora tante e tante
cose da dire, da gridare forte,
quando ti senti ancora un clown parlante,
un augusto ornato di pagliette,
alle cui spalle incalza un cane nero,
uno spoglia morti, un guastafeste.
Devi darti da fare, caballero,
perché ancora risuoni un’alborada
in questo capriccio spagnolo
e nella tenzone più desolata
non smettere il tuo buffo assolo.
Senza troppi riguardi
ti faranno cadere,
ma tu spolvera la tua bombetta, non cedere.
Imperversa, imperversa, prima che sia troppo tardi».


È la poesia come giovinezza che non si piega, che scorrazza sulle strade insidiose del mondo, che invita a resistere:
«Questi aghi di pino, questa buganvillea,
questo lago
sono tutti progetti, germogli di analisi,
da cui potrebbero sorgere cento faville.
Perché ogni cosa è ricca come il mare,
ogni cosa è intrisa di futuro,
ogni cosa anela a generare.
Cogli questi segnali, collegali insieme,
scambia con la natura messaggi.
Mirabile cerchio che pullula e freme,
unico corpo vivente, struttura magica.
Tu sei giallo, sei un fiore.
Tu sei di piombo, sei un lago.
Sei un fanello che non sa volare.
Sei un progetto di vita,
che il Nulla vuol soffocare».

Argentino, ritenuto giovane cucciolo di progenie borgesiana, e tuttavia distinto da distanze messianiche non riscattabili, J. Rodolfo Wilcock si trasferì stabilmente in Italia, e qui scrisse, quarta sua raccolta poetica, quell’Italienisches Liederbuch che resta, insieme con quelli di Saba e di Testori, il maggior canzoniere d’amore moderno affidato a dei versi italiani:
«Quando tu, mia poesia, leggi poesia,
si oscura il cielo di una luce verde,
la gente sfugge la riva del mare
per un senso remoto di tempesta
o di contrasto tra gli elementi,
vampe si inalberano sui fili dei tram,
e un gran silenzio cala sulla città:
è la poesia che contempla se stessa.
Leggi parole di un tempo scomparso,
di un presente che crolla senza sosta
velocemente nell’informe passato,
leggi di re e corone, giardini e guerre,
tu che sei la corona di ogni impero
e il giardino del mondo conosciuto
e la guerra dei sensi della natura,
leggi, “chi crederà i miei versi in avvenire
se dico adesso tutto il tuo valore?”
e accade in quel momento che quei versi
come una freccia scagliata nei secoli
raggiungono chi un giorno li ha ispirati.
E allora il buio verde si fa totale,
la gente si rintana, sopraffatta,
e in un silenzio come di terremoto
si alza la luna sui Castelli Romani
e lentamente volge tutto all’azzurro,
mentre tu, mia poesia, leggi poesia».

Rosa Pugliese

Rosa Pugliese


Una colpa grave ha avuto il milanese Rodolfo Quadrelli, del quale sono rimaste misconosciute originalità e grandezza: il suo rifiuto di due modalità della poesia, l’hortus conclusus dell’interiorità e il rapporto “organico” (si legga: servile) con la sfera pubblica. Eppure, tanta sua poesia è potentemente “visionaria”, nel senso che riesce a sublimare l’equilibrio tra il visto e il vissuto, (come soltanto ai poeti è consentito di fare), con una mirabile sintesi tra il pensiero assoluto e la finitezza del mondo che apre squarci lirici suggestivi, lucidamente espressivi:
«Di fronte all’ultimo gioco del potere
perdo le forze e ritorno bambino:
apro un opuscolo e guardo le bandiere.
È azzurro questo? O è quasi turchino

che mi prende d’un subito, colore
di desiderio e insieme di memoria?
Io sono qui per odio della storia
perché non riesco a vivere d’amore.

Potessi dietro al verde, al rosso, al giallo
dove mi perdo e non mi salvo, privo
del fuoco interno di ogni uomo vivo,
dimenticarmi del mio primo fallo!

Che cos’ho fatto? No, non è un segreto
che sono andato spesso fuori pista;
credi di esistere solo nella lista
di chi vede “permesso” ed è “divieto”.

Ma errore non può essere il destino
che io deliberai giovane adulto;
e perché non mi presto al basso culto
sono qui a vaneggiar, vecchio bambino.

Dietro alle voci degli anni di allora
trema l’orgoglio di una vita fiera;
io mi piego in silenzio d’ora in ora,
e quella sventola come una bandiera».


E in prosa quasi poetica (perché intrisa di memoria e di consapevole nostalgia), descrive: «La realtà imita la letteratura. Dietro le ringhiere si muove una vita che sento ancora diversa dalla mia e cedo al sogno di amori e dolori nei quali ci si può integrare… Ma è più buono e anche più bello scendere giù, alle ortaglie che sono perlopiù floricolture, e alle rogge, non sempre luride, che si snodano tra aperti spazi punteggiati di indeciso verde, tra un Naviglio e l’altro. È bello guardare in alto, verso finestre di case sospese, ancora in città, su così strane e familiari prospettive. Nascere, vivere e morire lì, tra finestra e cortile, tra prato e balcone, tra casa e chiesa, significa per me mantenere un’altra storia accanto a quella conosciuta e patita da tutti: significa nascondere nel cuore un fervore che forse regge nei tempi difficili, che forse la vince più che non si creda sul crescere dell’odiosamato Milanon».

Rosa Pugliese

Rosa Pugliese


Una prosa che infine traduce in versi:
«...Volevo l’intero, volevo l’istante
e vedevo snodarsi il destino
dietro al bagliore di uno scorcio sghembo.
Era il Manzoni, (no, non certo il Bembo),

o un suo sosia scapigliato e demarchiano
che mi guardava tenendomi per mano.
E in fondo a una visione ampia e lontana
c’era il pioppo di Giovanni Camerana.

Voi rimarrete in me, reliquie vive
della mia mente che pregando scrive
o che sommessa attende nella notte
che memorie e speranze interrotte

riemergano al mattino, in un ritorno
che fa di questa mora eterno giorno
e bello e buono acqueta quel tumulto
che mi fu vita in un materno indulto».

(1 - continua)

   
   
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