Dicembre 2009

Nasce la "Geomitologia"

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Il lato oscuro della storia

Tonino Caputo
Manlio Ercolani
Gennaro Venturi

Coll.: Eraldo Lazzari
Domenico Stati

 
 

I miti non solo possono svelare l’inconscio, come sosteneva Jung, ma racchiudono i ricordi di tragedie e di disastri che hanno modellato la civiltà e ci
mettono in guardia sul nostro futuro.

 

 

 

 

Piove, e smottano colline di fango, ingoiando case e persone in una Messina che ebbe già nel 1908 uno dei terremoti più distruttivi della storia dei sismi italiani. Trema la terra in Molise, poi trema in Abruzzo, e in questi giorni nella Valle del Tevere, in Umbria, e si registrano altre rovine e altre vittime. Com’era accaduto in Irpinia, in Friuli, nella Valnerina…
Quella italiana è terra giovane, si va ancora formando, dunque è soggetta a fenomeni tettonici, a bradisismi, ad erosioni. Tranne la Sardegna, che è il più antico lembo di terra emersa dell’emisfero occidentale, e (per i sismi) il Salento, considerate aree ormai “quiete”, tutta la Penisola è da sempre a rischio, come dimostra la memoria storica, alimentata dalle leggende e dai miti che sottendono comunque parti di verità che emergono grazie a studi condotti con le tecnologie moderne. E per rendersene conto è necessario fare un complesso excursus tra i risvolti del passato, quelli più oscuri,  alcuni dei quali sono stati rischiarati “a pelle di leopardo” dalle ricerche di studiosi, specialisti di varie e complementari branche della scienza, esploratori originali che si sono interrogati sui significati proprio dei miti, delle tradizioni orali, delle credenze che si sono proiettate fino ai nostri giorni, per metterne a nudo i significati nascosti.

Pag. a lato: Le “pietre sospese” di Stonehenge, complesso nella piana megalitica di Salisbury,
Gran Bretagna. - Ph © Carlo Buttazzo

Le “pietre sospese” di Stonehenge, complesso nella piana megalitica di Salisbury,
Gran Bretagna. - Ph © Carlo Buttazzo

Facciamo qualche esempio. Che fine fece Romolo, gemello di Remo, come lui allattato dalla lupa, dapprima fratricida e in seguito fondatore di Roma? Tito Livio narra che, mentre passava in rassegna l’esercito presso la palude Capra, nel Campo Marzio, scoppiò un temporale. Il primo dei celeberrimi sette re fu avvolto da una nube, e da quel momento non riapparve più. E Plutarco precisa: «La luce del Sole si eclissò, calarono le tenebre, non foriere di pace e di tranquillità, ma colme di tuoni terribili e di soffi di vento, che portavano con sé tempeste». Ebbene: se finora questo episodio veniva considerato uno dei miti che alimentano l’epopea di Roma, oggi c’è chi lo prende molto sul serio: «I testi classici e medioevali raccontano, talvolta in modo confuso, eventi calamitosi realmente accaduti – sostengono all’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – ed ecco perché sarebbe opportuno iniziare a tradurli in chiave geofisica».

La presenza poco lontano da Roma dell’apparato vulcanico dei Colli Albani, da alcuni ritenuto ancora attivo, può per esempio suggerire un’interpretazione letterale di quella misteriosa vicenda. Non è da escludere che nell’estate del 716 prima di Cristo si sia verificata nell’area laziale un’eruzione vulcanica, poi trasfigurata in uno dei miti dell’Urbe. Lo stesso Virgilio definisce la campagna romana “Saturnia tellus”, un appellativo che evoca ripetuti scuotimenti del suolo.
Se correttamente interpretati, eventi meteo straordinari e prodigi inspiegabili, miti dell’acqua e del fuoco, sommovimenti tellurici, razzie di mostri, vendette degli dèi e oracoli predittivi possono essere letti come indizi di catastrofi naturali reali. Non a caso ci sta provando una nuova disciplina, la geomitologia: tenuta a battesimo dall’Ispra, nasce dalle intuizioni di un fisico della Scuola di Fermi, Giorgio Fea, padre del Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare, e messa a fuoco di recente da studiosi di geologia, vulcanologia, filologia, archeologia, geografia storica, antropologia e climatologia. Sette discipline invitate ad elaborare questa inedita chiave interpretativa della storia, grazie anche alle tecnologie satellitari assicurata dal Gruppo di Ricerca Telegeo.
Conoscere la periodicità con cui determinati fenomeni geofisici si sono verificati – spiegano – è fondamentale per comprendere l’evoluzione di un territorio instabile come quello italiano, caratterizzato da una forte sismicità, costellato di vulcani e afflitto da frequenti alluvioni, e, quindi, per analizzare i rischi futuri. E non è un caso che la vulcanologia nasca da Plinio il Vecchio, che descrisse l’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo che distrusse Pompei ed Ercolano, seppellendo qui e nei dintorni opere d’arte di inestimabile valore.
Ma la casistica snocciolata dai ricercatori è straordinaria: copre millenni e attraversa geografie e culture. Si va dalla vexata quaestio del Diluvio fino al sangue di San Gennaro, simbolicamente legato alla lava. E, fra le tante, è la figura di Ercole a meritare attenzione. Figlio di Zeus, il semidio percuote il suolo con la clava, creando montagne e deviando fiumi, esattamente come fa un terremoto. E infatti numerosi templi a lui dedicati sorgono lungo la Via Eraclea, su una parte sismica dell’Italia Centro-meridionale, che coincide con alcune linee tettoniche. Durante il Medioevo, negli stessi luoghi si sovrappose il culto di San Vito, protettore degli epilettici e signore dei tremori, mentre la cattedrale di Ascoli Piceno, dedicata a Sant’Emidio, patrono anti-sismico, sorge sulle fondamenta di un tempio consacrato ad Ercole.

Nel mondo classico, le crepe che fendevano il suolo durante un terremoto potevano essere descritte come serpenti che guizzavano via. Un esempio è la “tacita Amyclae”, città fiorita tra il VI e il IV secolo prima di Cristo alle pendici dei Monti Aurunci, di cui si dice che fu «a serpentibus deleta», rasa al suolo dai serpenti. Sta di fatto che i resti ancora visibili delle mura sono sprofondati in una dolina carsica creata verosimilmente da un sisma. Ma è l’area laziale dei Colli Albani a riservare le maggiori sorprese. Dionigi d’Alicarnasso descrive un evento prodigioso che pose fine all’assedio dell’etrusca Veio da parte dei Romani, intorno al 398 prima di Cristo: l’esondazione del Lago Albano. Gli assedianti, terrorizzati, inviarono delegati all’oracolo di Delfi, perché interpretasse l’eccezionale fenomeno.

Per molto tempo l’evento è stato considerato leggendario, fino al giorno in cui alcuni scavi (insieme con studi stratigrafici e con datazioni radiometriche) hanno svelato che nel cratere che ospita il lago si verificarono numerosi eventi eruttivi gassosi, con la fuoriuscita violenta delle acque, e con la formazione di colate di fango che devastarono il territorio, formando alla fine la Piana di Ciampino. I Romani costruirono poi un canale di drenaggio, ma un intervento analogo era stato già realizzato dagli Etruschi: queste opere, che rappresentano uno dei più antichi esempi di prevenzione idrogeologica, testimoniano la ciclicità del fenomeno.
I primi risultati degli studi geomitologici, dunque, sono tutt’altro che rassicuranti. Perché – sottolineano gli studiosi – molte evidenze sembrano avallare l’ipotesi che qualche complesso vulcano italiano, considerato erroneamente estinto o quiescente, sia stato attivo in epoca storica. Con tutta probabilità dovremo riscrivere l’intera storia del bacino del Mar Mediterraneo. Fra l’altro, per esempio, grazie ai rilevamenti satellitari si è in grado di registrare il “respiro dell’Etna”, vale a dire i movimenti verticali del vulcano dovuti allo spostamento oppure alla fuoriuscita di magma.
La stessa Roma rivela ampie zone di “collasso gravitativo”. E, a proposito della capitale, si sostiene ancora che la storia dei Sette Colli non quadra e di conseguenza le informazioni vanno lette in un modo diverso: forse lo stesso Quirinale, residenza del dio Quirino, sorge su un edificio vulcanico. Ma per capirlo abbiamo bisogno di studiosi scevri da visioni deformanti.

Altro luogo nel mirino del gruppo di studiosi di geomitologia è proprio l’antica Heraclea, nei pressi di Policoro, in Basilicata. Ma l’attenzione si allargherà alle aree dell’Amiata, dei Vulsini, dei Sabatini, del Roccamonfina, del Vesuvio e dei Campi Flegrei, oltre a quelle del Vulture, delle Isole Eolie, delle Isole Pontine, di Ischia e della bizzarra Isola Ferdinandea, emersa al largo di Sciacca nel 1831, contesa da italiani (i Borbone delle Due Sicilie primi fra tutti), e da inglesi e francesi (gli uni e gli altri non si capisce proprio a che titolo), e oggi, dopo altre emersioni, sempre determinate dalle attività sismiche provocate dall’Etna, nuovamente sommersa.

Brindisi: Una colonna in marmo greco del cosiddetto Portico dei Templari. - Nello Wrona

Brindisi: Una colonna in marmo greco del cosiddetto Portico dei Templari. - Nello Wrona


Per la sovranità sulla Ferdinandea si è giunti a vere e proprie crisi diplomatiche. Per la storia: la Lega navale italiana ha chiesto a Roma di rivendicare ufficialmente l’isola, per evitare che lo ribadiscano altri Paesi, come, appunto, il Regno Unito, che nel 1831 aveva piantato una bandiera, inserendola nelle carte dell’epoca con la denominazione “Graham Island”. L’isola (già scambiata per un sottomarino libico e bombardata da aerei americani nel 1987) vanta potenziali rivendicazioni anche da parte di Libia e Francia, ma secondo il Times di Londra pare che sommozzatori italiani abbiano già provveduto ad immergersi per innestare un tricolore. Notizia, questa, passata sotto silenzio sulla nostra stampa.

Risalendo il Tirreno, dunque, occorre far sosta di fronte ai Campi Flegrei (Phlegràios = ardente). Tutto quel che c’è (ed è tantissimo) in fondo al mare, qui, può essere considerato un vero e proprio “museo sommerso”, dal momento che custodisce una concentrazione di beni archeologici così alta, da non avere uguali al mondo e che dovrebbero essere in modo adeguato tutelati e valorizzati. Facendo il periplo di questa terra da Cuma a Pozzuoli, si incontrano aree decisamente proiettate nel cono d’ombra della tragedia annunciata dalle eruzioni vulcaniche, dal bradisismo, dai sommovimenti tettonici, dal persistente fumarolismo. Pozzuoli (Puteoli = piccoli pozzi), emporio della potente Cuma, e come Cuma colpita dall’eruzione del Monte Nuovo del 1538, era stata l’approdo romano più importante del Mediterraneo, tanto da essere appellata Delus minor e Litora mundi hospita, con le arti del vetro, della ceramica, dei profumi, dei tessuti, dei colori e del ferro largamente diffuse, grazie alla presenza di maestranze locali educate a tradizioni fenicie, ellenistiche ed egiziane. Ancora attivo il suo Vulcano della Solfatara, dal cratere ellittico, risalente a circa 4.000 anni fa, con impressionanti manifestazioni fumaroliche. L’ultima eruzione, peraltro storicamente non accertata, risalirebbe al 1198.
Qui sorgono l’Anfiteatro Neroniano-Flavio, capace di contenere fino a ventimila persone; il Macellum (Mercato) o Tempio di Serapide, perché vi fu rinvenuta una statua del dio egizio Serapis, con colonne marmoree e intatte tabernae nell’ampio porticato che ha come centro una tholos con quattro poderose colonne, tre delle quali ancora in piedi; i templi di Augusto e di Nettuno, e quello di Apollo sulle sponde del Lago d’Averno; oltre il Monte Nuovo (140 metri, il più giovane complesso montano d’Europa), ci sono le grandiose strutture in gran parte sommerse per bradisismo discendente del Portus Julius.
Cuma, poi, immenso, prezioso giacimento archeologico scavato da Emilio Stevens, nato a Gallipoli. E Cuma di superficie, con il tempio di Giove e quello di Apollo, il primo trasformato in basilica cristiana, oggi con residue tracce ma con un originale battistero, il secondo legato alla leggendaria costruzione da parte di Dedalo, qui atterrato dopo il favoloso volo dal labirinto di Creta. E con l’antro oracolare della Sibilla, tutto scavato nel tufo nell’acropoli cumana: un luogo che affascina e incute paura per l’atmosfera di mistero che lo circonda. Stando alla descrizione di Virgilio (Libro sesto dell’Eneide), è in fondo a un corridoio (dromos) di oltre 131 metri, di forma trapezoidale, illuminato da sei aperture laterali, in fondo al quale c’è un ambiente arcuato nel quale si affaccia un altro ambiente, più riposto, da cui provenivano gli oroscopi.
Baia e la sua splendida insenatura, ancora. Il nome della città è legato al viaggio di Ulisse, che qui seppellì il suo compagno Bajos. Approdo di Cuma, fu il luogo flegreo più decantato per le delizie ambientali e le sorgenti termali, al punto che Orazio poté esclamare: «Nullus in orbe sinus Bais praelucet ameni». Il bradisismo ha sommerso gran parte dell’antica città.
Miseno, infine. Che deve il nome alla leggenda omerica che qui pone il sepolcro del compagno di Ulisse, trasformato da Virgilio nel trombettiere di Enea. Fu base navale del Tirreno, con flotta comandata, fra gli altri, dai prefetti Tiberio Claudio Aniceto, che inviò i suoi sicari a trucidare Agrippina, madre di Nerone, e Plinio il Vecchio, che morì durante l’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. Tra le sue sontuose ville, primeggia quella del dittatore Caio Mario, poi acquistata da Lucullo: vi morì, nel 37 dopo Cristo, l’imperatore Tiberio.
Lungo l’intera fascia costiera, una miniera di reperti archeologici, che arricchiscono i musei locali, regionali e nazionali.

Pompei: Un affresco con serpente, nella Casa del Centenario. Si noti il voluto accostamento dell’animale con il Vesuvio. - Archivio BPP

Pompei: Un affresco con serpente, nella Casa del Centenario. Si noti il voluto accostamento dell’animale con il Vesuvio. - Archivio BPP

I miti, quindi, non finiscono di sorprenderci: non solo possono svelare l’inconscio, come sosteneva Jung, ma racchiudono i ricordi di tragedie e di disastri che hanno modellato la civiltà. E ci mettono in guardia sul nostro futuro.
Del «vapor da baratri profondi» raccontato da filosofi e scrittori si è occupato di recente Armando Torno. Il 1755 – scrive – fu un anno senza grandi novità, se si esclude una rivolta in Corsica per l’indipendenza da Genova. Non capitò nulla, almeno fino al mese di novembre, quando un catastrofico terremoto distrusse Lisbona. Oltre alle vittime e ai danni architettonici, i più colpiti furono i filosofi che nei decenni precedenti avevano assicurato l’umanità circa le buone intenzioni della natura e, ricalcando Leibniz, avevano ricordato a tutti che il nostro è pur sempre il migliore dei mondi possibili.
Per quante discussioni fossero state aperte su quella strage, si deve precisare che in quel tempo i terremoti erano spiegati ancora con le antiche teorie. Delle quali ci offre un compendio, nel 1585, Tommaso Garzoni, in quell’opera stravagante e geniale che è la Piazza universale delle professioni del mondo: «Del terremoto Anassagora ha detto ch’egli è aria; Empedocle, fuoco; Democrito e Talete Milesio, acqua; Aristotile, Teofrasto e Alberto Magno, vento overo vapore di sotterra». Tra coloro i quali «dissero cercarsi indarno della cagione di questo effetto», il buon Garzoni mette giustamente Seneca.

Se non erano migliori le conoscenze sulle meccaniche terrestri, di sicuro le descrizioni circolanti furono stilate da penne illustri. Matteo Maria Boiardo nell’Orlando Innamorato (lib. 2, can. 8) ce ne offre un esempio, con quel suo stile che ricorda le velocità televisive: «Cominciò incontinente un terremoto, / Scotendo intorno con molto rumore. / Mugiava in ogni lato il sasso voto: / Odita non fu mai voce maggiore».
Nel decimo libro della Cronica, di Giovanni e Matteo Villani, si poteva leggere «di grandi terremoti che furono in Puglia, e assai guastarono della città di Ascoli», mentre in una novella di Matteo Bandello si trovavano gli effetti devastanti del sisma a Pozzuoli: un terremoto colpì «case e chiese nel mare sommerse e tante meravigliose caverne che la natura ha fabricato» (parte 2, novella 7). Il terremoto di Napoli del 1688 è invece descritto da Giacomo Lubrano, un gesuita seguace del Marino, che definisce il fenomeno «Sozzo vapor da baratri profondi».

Rimanendo sempre in Italia – Paese che dall’inizio dell’era volgare è stato colpito da circa 350 sommovimenti tettonici classificabili da disastrosi a catastrofici – si possono trovare un paio di sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli (il 1279 e il 1369, per l’esattezza) che parlano di terremoti. Il primo è una satira sulle elemosine che si raccolgono dopo le disgrazie: «Er terremoto come ll’antri guai / Pe li vescovi è bbono a cquarche ccosa». Massimo D’Azeglio ne I miei ricordi parla del terremoto avvertito in villeggiatura («a Viù sopra Lanzo»), con un’inevitabile osservazione di tono romantico: «Non s’ha idea quanto esso appaia più grandioso e terribile fra le alte montagne». Nei Malavoglia, Giovanni Verga sottolinea come la Mena compia diciott’anni a Pasqua, e quindi vada maritata: quell’età è dedotta dal fatto che sia nata «l’anno del terremoto». Federico De Roberto, ne I Viceré, e Luigi Capuana ne Il marchese di Roccaverdina ricordano i danni causati dal sisma del 1693.
È una storia infinita. Dal terremoto di Messina e di Reggio Calabria del dicembre 1908 (di cui riferisce Pirandello ne L’uomo solo) a quello che nel 1883 uccise a Casamicciola i genitori e la sorella di Croce, dal sisma epocale che forse inghiottì Atlantide, via via, sino a quello che turbò il mondo al momento della morte di Cristo. Si legge nel Vangelo di Matteo: «Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti resuscitarono» (27, 51-52). Un terremoto mediterraneo con cui comincia la nostra era.
La diceria popolare è che la Città Eterna sia al sicuro dai terremoti, perché i monumenti vecchi di duemila anni restano sempre in piedi: il Colosseo, l’Arco di Costantino, la Tomba di Cecilia Metella, il Foro Romano, il Pantheon, e così via. E di fatto, Roma sorge su un territorio a basso rischio sismico. Può capitare di avvertire scosse provenienti dai Monti Tiburtini, o altre volte dai Colle Albani. Tuttavia, sono eventi sismici di lieve intensità e di brevissima durata.


Ma è stato sempre così? La storia ci insegna che le cose cambiano nei secoli. Quattromila anni fa, ad esempio, i Colli Albani erano un vulcano. Nell’antica Roma la principale accusa rivolta ai cristiani era proprio quella di provocare i terremoti. Quando la terra tremava, era un presagio di sventura e un segno della collera degli dèi.
I terremoti colpirono la Città Eterna nel 442 dopo Cristo, e, sempre nell’era volgare, nel 467 e soprattutto nel 476, anno in cui pare che Roma abbia tremato per quaranta giorni di seguito. Neppure l’Anfiteatro Flavio restò immune dal violento sisma dell’801, quando crollarono numerose colonne del portico superiore e parte delle gradinate. Riportarono forti danni anche la Basilica di San Paolo fuori le Mura e la Chiesa di Santa Petronilla sull’Ardeatina.
I maggiori danni la città li subì, però, nel terrificante terremoto del 1348, quando caddero giù come birilli interi palazzi. Il movimento tettonico ebbe origine nell’Appennino centrale, fra Perugia e Benevento, ed ebbe effetti devastanti. A Petrarca, che visitò Roma nel 1351, per il Giubileo, la città apparve in ginocchio: «Dalla sua fondazione, che risale a duemila anni fa, non è mai accaduto nulla di simile», scrisse in una lettera. «Caddero gli antichi edifici ammirati dai pellegrini. Quella torre, unica al mondo, che era detta “del Conte”, aperta da grandi fenditure si è spezzata. Inoltre, perché non manchino le prove dell’ira celeste, buona parte di molte chiese, e anzitutto quella dedicata all’apostolo Paolo, è caduta a terra. Tutto ciò rattrista con gelido orrore l’ardore del Giubileo».
Dopo questo terremoto, seguì per fortuna un lungo periodo di tranquillità. Finché nel 1703 un nuovo violento sisma scosse la città, provocando decine di vittime e gettando nel panico la popolazione. La terra tremò talmente tanto, che secondo le cronache dell’epoca molti temettero che fosse giunto il “giorno del giudizio universale”.

Il sisma ebbe origine nel Reatino e rase al suolo Leonessa, città nella quale provocò ben 800 morti. Per ritrovare un altro terremoto di pari intensità, occorrerà arrivare al sisma che colpì il Fucino nel 1915. A Roma, distante cento chilometri, restarono lesionati tratti delle Mura Aureliane e dell’Acquedotto Claudio, e furono danneggiate le chiese di Sant’Agata dei Goti e di Santa Maria alla Scala.
   
   
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