Dicembre 2009

Otranto. è TEATRO la storia

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Qui non ritornare mai

Antonio Errico

 

 
 

Perché Otranto non è un luogo. Otranto è frontiera tra
la luce e il buio, una linea d’ombra tra realtà e
fantasia, un porto per viaggi verso lontananze,
è teatro nelle sere di novembre.

 

 

 

 

 

Non si dovrebbe ritornare mai.
Dopo aver conosciuto Otranto, dopo esserci vissuto – per lungo tempo o un’ora o un attimo soltanto – non si dovrebbe ritornarci mai: non si dovrebbe riaffondare gli occhi dentro il turbinio della sua luce, stupirsi ancora per la luna malandrina, farsi incantare – ancora – dalla favola di Idrusa, non si dovrebbe consegnarsi senza difesa alcuna alla malinconia di certe notti sue d’estate, alla nostalgia di certi suoi stupendi amori, al silenzio favoloso degli inverni che sembrano sempre un’altra primavera.
A Otranto non si dovrebbe ritornare mai. Perché Otranto è pensiero, metafora, astrazione, luogo senza spazio e senza tempo, storia, mythos che si sostanzia in logos, desiderio di un oltre, di un altrove, esperienza di sconfinamento, fantasticheria stranita. Letteratura. Teatro. Messinscena.
È teatro il castello, la cattedrale, la piazza. È rappresentazione strabiliante il mosaico di Pantaleone. Sono rappresentazioni della storia e del dolore i teschi esposti nelle teche. È teatro del tempo la torre del Serpe. Teatro la pietraia di San Nicola di Càsole. Teatro il faro della Palascìa. Sono – erano? – teatro le parole della gente. Sono – erano? – teatro i volti rugosi di salsedine. Teatro i racconti, gli antichi terrori per il turco che assedia le mura, e le sventra.
È teatro la storia.
Anche la memoria è teatro. Memoria lunga, rarefatta, dolceamara, miscuglio sapiente di falso e di vero, memoria come incantesimo d’infanzia, come racconto che passa di voce in voce, che non si conclude mai, né s’interrompe, che transita sulle soglie dell’immaginazione, si fa predizione, qualche volta, ammonimento, speranza di marinaio, ammutinamento di ciurma, desiderio di porto, di casa, di bordello, qualche altra volta delirio. Ma pacato. Sereno.

Immagini di Otranto: un particolare del Monumento ai Caduti, nei pressi della Porta Alfonsina, con una scena del Martirio del 1480. - Nello Wrona

Immagini di Otranto: un particolare del Monumento ai Caduti, nei pressi della Porta Alfonsina, con una scena del Martirio del 1480. - Nello Wrona

Otranto è teatro nelle sere di novembre che cala la nebbia. Quando tutto s’intravede in forma vaga, incerta, fluttuante, che tremola, vanisce. È dentro quella nebbia che tornano le voci, s’acquattano negli angoli, si spandono nei vichi, sibilano come vento che viene dal Canale, invadono il castello, sorvegliano le mura. Si riprendono la città. La sua solitudine.
Otranto è teatro quando è tempo di controra. Allora, all’improvviso, si conformano figure. Allora, all’improvviso, lontano, all’orizzonte, compaiono profili di galeotte e fuste. Compaiono volti immobili, di pietra. Allora si odono ancora bestemmie e urla in lingua sconosciuta, preghiere e sussurri in un dialetto dolce.
Anche il destino di Otranto è teatro. Quello che contiene ogni possibile scena, ogni personaggio. È teatro assoluto, del principio e della fine, della disfatta e della vittoria, teatro di morte e di resurrezione.
È il teatro della gloria e dell’onore, della storia che passa, del dolore che resta, lasciato in eredità a ogni generazione.
Poi è il teatro dell’oblio. Che rimaneggia il tempo, lo seduce con l’illusione e l’inganno, lo scompiglia, ma senza riuscire mai a prevalere.
Contro l’oblio Otranto alza barriere insuperabili di letteratura. Così la storia ritorna ad ogni parola come è tornata ad ogni parola di Maria Corti, di Carmelo Bene, Nicola De Donno, Donato Moro, Antonio Verri, Bruno Epifani. Tanti altri.
Non si dovrebbe ritornare mai.
Perché Otranto non è un luogo. Otranto è frontiera tra la luce e il buio, una linea d’ombra tra realtà e fantasia, un porto per viaggi verso lontananze, per ritorni a rive di certezze senza dubbi.

Immagini di Otranto: la darsena - Paolo Margari

Immagini di Otranto: la darsena - Paolo Margari


Otranto è l’ambivalenza, il chiaroscuro, la trasparenza, l’opacità, l’affermazione, la negazione, il pieno e il vuoto, il sinonimo e il contrario. È il simbolo di tutta un’esistenza: quello che su Otranto grava, quello che a Otranto è lieve, grava ed è lieve anche per quelle esistenze che per Otranto hanno pensieri e parole di passione.
Forse una terra esiste soltanto se viene raccontata. Perché una terra che non ha parole è soltanto un deserto di storia, di memoria. Non ha sentimento dell’esistenza, non ha ragioni, non ha racconti da tramandare, non ha emozioni da contagiare. Un luogo che non ha parole è privo di tempo, è un simulacro di senso, un sepolcro vuoto al quale non si rivolgono preghiere, per il quale non si celebrano rituali.
Le parole di un luogo sono la sua letteratura: quella tessitura di poesia e di narrazioni, quella trama di emozioni e riflessioni che rigenerano il suo passato, che attribuiscono significanza al suo presente, che lo proiettano in un futuro autenticamente fondato sulle radici antropologiche.
Il tempo di una terra, i suoi paesaggi, la sua gente, le storie, i misteri, i contrastanti sentimenti, la memoria, i notturni, gli albori, le parole, i sortilegi, esistono, hanno senso, solo in quanto e fin quando muovono un racconto. Perché al principio e alla fine non c’è altro che un racconto.
Quando tutti i giorni passano, e passano le creature, e i luoghi mutano la forma e mutano sostanza, rimane il racconto di com’erano le creature, di com’erano i luoghi. Questo solo. Nient’altro.
I luoghi hanno parole che custodiscono il senso profondo, ancestrale, che stringono l’enigma e attendono il suo disvelamento per poi poterlo riproporre e riprendere ad attendere ancora un’interpretazione: un’interpretazione ulteriore.
Le parole profonde di un luogo richiamano un’interpretazione infinita; intorno ad esse si forma una ragnatela di segni iconici, grafici, che riportano altri segni provenienti da una lontananza di tempo e di luogo o che ad una lontananza rinviano. Rintracciare questi segni, stabilire o costruire le loro relazioni, comparare i loro significati, perforare le loro stratificazioni, indagare nella memoria della terra, decodificare i linguaggi della pietra, vuol dire confrontarsi con l’origine, con la natura intima dei luoghi, con il lievito, l’essenza della storia di tutti e di ciascuno.
Ogni parola pronunciata per un luogo è una ricerca dell’origine: della sillaba che ha saputo farsi materia (o della materia trasmutata in una sillaba?), che impasta biologia e genetica, la corporeità e l’emozione cangiante e impalpabile, che si genera e s’irradia dal nucleo antropologico costituito dall’incrocio della storia con il mito.
Non c’è mai un racconto della ricerca dell’origine che possa essere esaustivo. Le parole pretendono altre parole, sempre, senza nessuna interruzione. Pretendono parole la bellezza e l’enigma, la scienza e lo stupore. Anche il silenzio pretende parole.
Perché non alla storia, né all’antropologia, né all’archeologia è data la possibilità di restituire ad un luogo l’anima che la ruspa del tempo ha schiantato, ma solo alla parola che narra e riesce a mantenerne accesa la memoria del tempo.
Fin quando ci sarà tempo. Fin quando ci sarà memoria.

   
   
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