Dicembre 2009

 

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Al Caffè Paszkowski
come agli Orti Oricellari

Ercole Ugo D’Andrea

 

 
 

 

 

 

 

 

 

Ci ha lasciati nell’agosto 2002. Aveva appena 65 anni. Ercole Ugo D’Andrea era stato poeta raffinatissimo, cresciuto sotto l’ala amica di Mario Luzi, e in parte di Betocchi, al tempo in cui in quel di Firenze era attivo un sodalizio al quale partecipavano scrittori, poeti e critici di alta caratura e di generosa disponibilità.
Ricordarlo a poco più di sette anni di distanza dalla scomparsa significa non soltanto porgere un doveroso omaggio alla figura di uno scrittore che seppe intrattenere rapporti e scambiare ospitalità con personaggi di rilievo letterario dell’epoca, ma anche riproporre la sua produzione poetica – tutt’altro che fragile o passatista – all’attenzione degli studiosi di casa nostra.
Per non dimenticare che, grazie soprattutto ad uomini di talento come lui, il Salento seppe tenersi al passo con i tempi e mantener salde le relazioni feconde con i centri culturali più vivaci e creativi d’Italia.
Il “pezzo” che proponiamo qui di seguito apparve nella terza pagina del settimanale “La Tribuna del Salento” del 15 luglio 1966.

Questa volta sono stato fortunato.
Appena a Firenze potevo, per telefono, salutare Carlo Betocchi e Oreste Macrì. Il poeta mi dava appuntamento alla Rai, dove lavora, di fronte alla chiesa di Santa Maria Maggiore; l’ispanista m’invitava, per quel sabato sera, al Caffè Paszkowski.
Niente di ufficiale alla Rai: una stanza ingombra di carte, un uomo che lavora a una scrivania, in maniche di camicia per il caldo, un poeta dei tempi nostri che scrive le sue “povere carte, o per il pane / cifre sopra un registro: tutto è uguale”.
Betocchi trovava la misura, fra una birra che mi offerse, una telefonata, un chiamare pel corridoio il poeta Pignotti, di sfogliare il mio libriccino di versi La bruna sorella, di dirmene quel che mi meritavo, di parlare di poesia e... di varia umanità.
Sfogliando il libretto diceva – Grazie a Dio, ci sono cose… – e, quanto alla poesia in generale, disse cose molto belle, in tutto degne di lui, e cioè che la poesia è l’anonimo, il “patir zitto” degli altri e i poeti son solo degli umili registratori. Sul serio mi toglieva le parole di bocca, perché anch’io la penso, grazie a Dio, così.
Mi parlò del suo primo libro di poesie, Realtà vince il sogno, il libro al quale si confessò più attaccato, forse anche perché gli rammentava, disse, la giovinezza, “la giovanile speranza”; ma si affrettò ad aggiungere che non aveva rimpianti o nostalgie: parole, queste, cancellate da un vocabolario d’un poeta virile com’è Betocchi. Disse press’a poco: se c’è una cosa che mi piace è che “volo verso la morte come un diretto”.
Caro Betocchi! Appena poi, a ripensarci, aveva detto “come un diretto”: una cosa, un veicolo mediano quindi, per uno che non ama fermarsi a tutte le stazioni (come un accelerato) ma a un tempo non ci scorre davanti come chi (l’incauto!) vorrebbe subito arrivare, ignorando le anonime stazioncine di campagna.
Betocchi parla come le sue poesie, egli che vive come quello che scrive, “di qualcosa che esalta e che mortifica”.
Uscimmo dalla Rai all’imbrunire, diretti al Caffè: lo affiancavo come un discepolo di buone maniere, un po’ impacciato, ma contento.
Al Paszkowski, in piazza della Repubblica, di fronte all’ormai storico Giubbe Rosse, c’era solo, a un tavolino all’aperto, il poeta Bigongiari, come una “Torre d’Arnolfo”. Di lì a poco arrivò Oreste Macrì, e poi Mario Luzi. Macrì presentava un frutto della sua terra salentina (che sarei io) ai suoi amici.
Comparvero anche Baldacci e Alessandro Bonsanti.
Correvano frizzi, battute, si consumava qualcosa, Luzi trovava “immorale” pagare un gelatino non so quanto. Di poesia si parlava lo stretto necessario, perché la poesia giace al fondo. Si accennava invece allo “Strega” e a chi lo avrebbe vinto: forse, La stazione di Firenze di Bonsanti. Si prendeva bonariamente in giro Luzi, le cui fotografie sui giornali appaiono sempre un po’ lisciate e giovanili.
Luzi ha lunghi silenzi, è di una qualità rara credo anche come uomo: sa ascoltare. Mi disse di spedirgli il mio Rosario di Stagioni e si scusò di non avermi ancora scritto a riguardo del mio secondo libretto.

Rosa Pugliese

Rosa Pugliese


– Maestro, come va il “segmento di lucertole”? – azzardai. Sorrise con un batter di ciglia. Ero non poco incuriosito di questo “sonnambulo d’eccezione”, come qualcuno ne ha scritto. Ero tra lui e Betocchi e ne domandai a questi. – Luzi – dissi – è il più austero –.
Betocchi rise della sua risata franca: – È buono, sa, è cordiale –.
Già per strada, venendo, mi aveva detto: – Io gli voglio un bene dell’anima –, accennando alla raccolta di Luzi Nel magma. Ora continuò: – Lui è sempre un po’ così... pensoso; è un po’ il Cavalcanti del gruppo –.
Io gli dissi del mio contenuto impaccio di trovarmi in mezzo a gente così.
– Lei è giovane – disse –; quando Macrì arrivò a Firenze, erano tutti della stessa età, Macrì, Luzi, Traverso, Bigongiari, e anch’io, che avevo qualche anno in più, mi sentivo giovane al pari di loro. È che da voi, caro D’Andrea, manca la consuetudine, il sodalizio, siete degli individualisti a oltranza. Ogni tanto può scoppiare un Bruno, un Campanella; ma per il resto... Qui a Firenze, invece, gli è ancora viva la tradizione degli Orti Oricellari –.
Era vero. Bonsanti se n’era andato, anche Betocchi si congedava dicendo: – I miei reclamano una cena... Bisogna infilarsi la giacchetta –.
Restai solo con Bigongiari, al quale avevo dato il mio libretto di poesie.
L’orchestrina attaccava là fuori all’aperto, allora i poeti se ne vanno, o è solo una mera coincidenza.
La mattina domenicale, ricompaio al Caffè, anche per sentire il giudizio di Bigongiari sul mio libretto, che è positivo. – Così pulito – mi dice, e mi fa piacere.
Sono seduto fuori, a un tavolino, e bevo acqua minerale limonata; sfoglio La religieuse di Diderot, che ho comprato a un chiosco. Compare Luzi come un’ombra, colla sua voce dissepolta mi fa: – Entriamo, mettiamoci dentro –.
Quest’uomo alto, sottile, taciturno, grigio, naturalmente elegante, non cessa di interessarmi. So che Luzi è il poeta che vive “più per mediazione dei suoi simili che in carne ed ossa”. Lo seguo. Arriva anche Macrì e stamattina è fresco, arioso, spumeggiante, tiene banco secondo il suo stile. È l’elemento meridionale, estroverso, dialettico, polemicamente affettuoso, il barocco spogliato di sé per certa intuizione del sublime e dell’universale; un delizioso affabulatore, serio, attentissimo, quegli che colloca la parola al punto giusto per estro e amore.
C’è anche il giovane poeta Ramat, che parla più appartato con Bigongiari.
Macrì detta la conversazione a raggiera d’angelo scaltro; mi domanda se andrò alla Biennale di Venezia, parla con un suo collega di Magistero, ispano-americanista (di cui non rammento il nome); argomento, gli Ejercicios di Ignazio di Loyola.
Il tono è dissacrante, ma innocente.
– Strano modo di salvezza collettiva – ride Macrì –; alla tale ora preghiera, alla tal’altra genuflessione –, e rileva lo spirito militaresco del Santo di Loyola che, pure, sempre conclude i tempi di penitenza e di preghiera con un prolisso Ad maiorem Dei maiestatem.
Macrì si scusa dicendo che lui ha bisogno della battuta, ogni tanto, che non sa farne a meno. – Una notte, Luzi ed io – celia al suo collega ispanista – ti faremo visita con i cappucci frateschi, naturalmente dovrai prenderci per quel che siamo: cioè dei... Santi –.
Anche Luzi stavolta abbozza un sorriso.
Verso sera di lunedì, prima di ripartire, le campane fiorentine si sciolgono tutte insieme, empiono l’aria, mistiche e rissose, e io mi sento già carico di questi ricordi.

   
   
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