Dicembre 2009

Tradizioni scomparse

Indietro

Ma nelle nostre chiese
nessuno canta più

Sergio Bello

 

 
 

Era uno
dei canti popolari più eseguiti, in tempi passati,
e ancora adesso,
in alcune aree
del Sud d’Italia,
incontra il favore dei fedeli per
la sua semplicità
e la sua melodia.

 

 

 

 

 

 

Le voci corali irrompevano fra le strade e le case nelle sere festive salentine e meridionali: «O Santa Madre, / nel duro agone / fammi vincere / il rio dragone». Era una strofa della canzone religiosa popolare Mira il tuo popolo (Mira il tuo popolo / bella Signora / che pien di giubilo / oggi t’onora…). Per arrivarci, era necessario averne cantate altre tredici, dunque era necessaria perlomeno una processione abbastanza lunga, di quelle alle quali partecipavano – soprattutto nella ricorrenza del Santo Patrono – tutte le congregazioni e le pie associazioni del luogo. Le vocali del testo andavano strascicate, potevano tenere da due a tre, e a volte anche a quattro note. Il linguaggio oggi può sembrarci desueto, ma tant’è, le parole venivano pronunciate senza sottilizzare sul loro significato. Per chiarire: il duro agone è il difficile combattimento che la vita impone contro il male. Il rio dragone è il diavolo. Era uno dei canti popolari più eseguiti, in tempi passati ma non remoti, e che ancora adesso, in alcune aree del Sud d’Italia, incontra il favore dei fedeli per la sua semplicità noncurante, per la melodia facilmente orecchiabile, per i sentimenti di genuina religiosità che suscita.

In sintesi, nulla di più, nulla di meno di un’espressione elementare di musica che definire “sacra” sarebbe improprio. Soprattutto perché è cospicuamente diversa da quella, nobilmente aristocratica, che ha caratterizzato le manifestazioni canore e le esecuzioni strumentali più eminentemente identitarie ascoltate nei luoghi di culto cristiano. Per secoli, infatti, la Chiesa ha tenuto in gran conto la musica liturgica. Alle origini ha presto sviluppato quel miracolo che è il canto gregoriano, dove le parole si susseguono quasi senza priorità, tutte insieme come una sola voce, in una concorde contemplazione, come se per pronunciare quei testi si dovesse fare eco alla divina pace dei cieli.
Poi, con il canto a più voci, l’armonia della fede ha consacrato melodie d’ogni tipo, innalzandole a un significato di cui era pegno la bellezza: e canzoni persino carsicamente libertine davano spunto a queste trasfigurazioni. E si è profilata la doppia tendenza: affidare la musica a chi poteva conferire più bellezza, con la massa dei fedeli in ascolto, oppure far partecipare tutti con il canto.

Ai nostri giorni, cioè in tempi di edonismo materialistico ampiamente dispiegato, siamo giunti al punto critico. Nei Paesi di lingua tedesca (nazionalità germaniche e austriache, per intenderci; con presenze della stessa radice etnico-linguistica poco oltre gli immediati confini dei due paesi), dove si conosce molto bene la musica, nella messa si risolve affidando parti complesse e interludi organistici acclarati come belli o di genere nobile agli specialisti, mentre corali tradizionali di stampo luterano anche a quattro voci sono lasciati ai fedeli che trovano sul banco la partitura vocale e la leggono tranquillamente, scegliendo una delle parti. Ma da noi?

Massimo Fioretti

Massimo Fioretti


Non esiste una memoria liturgica del passato che tutti sentano come propria, sicché si delegano moralmente gli artisti ad eseguire questo tipo di canto e di musica. E quanto a cercare un repertorio adatto per cantare, ogni gruppo, oppure ogni generazione, o infine ogni ambiente ha il proprio linguaggio. Quando alcuni si scandalizzano perché a volte i giovani a messa cantano inni e canzoni con le chitarre, non è perché così non esprimano la loro partecipazione, è perché quel linguaggio non ha il crisma storico della bellezza, e sembra alla maggior parte dei fedeli fastidioso, se non proprio indegno.

Che cosa si dovrebbe fare, in concreto? Soprattutto aiutare la gente ad apprezzare la grande musica del passato. Ma nello stesso tempo sarebbe necessario far creare – a chi è in grado di farlo – un linguaggio d’oggi che sia naturale, ma che nel contempo esprima lo sforzo visibile di elevarsi, o il segno di una testimonianza il più possibile alta. Avviene tutto questo? Figurarsi.
Nel Medioevo, quando si costruivano stupende chiese e cattedrali, ogni arte, ogni mestiere era chiamato a dare il meglio. Adesso tutto è molto approssimato, a volte senz’anima, spesso quasi del tutto anonimo. Detto francamente: accade che qualche pio fedele accreditato presso le gerarchie ecclesiastiche locali scriva composizioni che alla resa dei conti si rivelano del tutto futili, da intonicchiare in cori improvvisati; canzoncine bonarie che una parte dei fedeli canta – come dire – un poco alla carlona, mentre gli altri, quelli che non sono stati in alcun modo allevati alla naturalezza del cantare insieme e si vergognano di far sentire la propria voce, restano muti. Tanto che quasi viene da simpatizzare per il vecchio e buon dragone, da affrontare e vincere nel duro agone, e per le melodie sia pure di basso profilo che ascoltavamo una volta nelle sere di festa, e che, soppiantate dai complessi o dai solisti della rumorosa canzonettistica contemporanea, riecheggiano sempre più raramente nelle superstiti processioni paesane che si snodano per le strade del vecchio Sud


 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009