Dicembre 2009

rileggendo la storia

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Sorprendenti revisioni

Federico Caporicci

 

 
 

Iconografia.
Il mito era già tanto consolidato, che i teorici delle grandi rivoluzioni dell’Est fecero di Spartaco un’icona della rivolta
contro il potere, un eroe puro che combatte fino alla morte in croce.

 

 

 

 

 

 

 

Tiberio Sempronio Gracco (163-133 avanti Cristo) era un democratico: aveva dato la terra ai contadini, dopo averla tolta ai ricchi. Il notissimo gladiatore Spartaco (109-71 prima di Cristo) fu il primo rivoluzionario della storia, e per primo finì crocifisso. Cesare (100-44 avanti Cristo) morì all’improvviso, sorpreso da un agguato di congiurati. L’Impero Romano cadde perché il Cristianesimo aveva spinto l’esercito a ripudiare la guerra. Tra i ricchi patrizi e i poveri plebei si susseguirono “lotte di classe”. Questo abbiamo studiato a scuola. Questo ci racconta la tradizione. Ma siamo sicuri che le cose siano andate proprio così?

Gli episodi qui sintetizzati sono presenti praticamente in tutti i libri di Storia. Ma pare che abbiano avuto un corso diverso da quello che ci è stato insegnato. Alcuni specialisti, rileggendo i documenti scritti su pietra, incisi su monete e immortalati in affreschi dell’epoca, hanno cominciato a mettere in discussione alcune certezze su come si siano realmente svolte le vicende più note – ad esempio – accadute nella Roma imperiale e repubblicana. Con risultati del tutto sorprendenti.
I Gracchi reazionari. Tiberio Gracco è conosciuto come uomo democratico e popolare, dal momento che privò i latifondisti romani di gran parte del loro ager publicus, il terreno ottenuto grazie alle vittorie dell’esercito. Se però osserviamo quanta terra diede e a quali condizioni, la sua immagine cambia radicalmente. Le fonti, reinterpretate da Giorgio Luraschi, dell’Università dell’Insubria, a Como, affermano che nel 133 avanti Cristo, divenuto tribuno, Tiberio Gracco tornò dalla Spagna e vide le campagne dell’Etruria spopolate. Il latifondismo imperava, anche per colpa di una lex agraria che concedeva ai grandi possidenti 500 iugeri (circa 125 ettari) di ager publicus, più 250 per ogni figlio, fino a un massimo di 1.000: contro questi numeri, chi aveva un piccolo campo non poteva competere. Così, molti contadini decisero di vendere il proprio appezzamento e di spostarsi a Roma per diventare clientes, persone al soldo di uomini ricchi e potenti. Tiberio Gracco, a questo punto, scelse di cambiare la legge e di ridistribuire la terra.

Ma quanta ne diede? Oggi si ritiene che fossero appena 30 iugeri (sette ettari e mezzo). Così, divenuti possidenti, i contadini romani potevano... partire per la guerra! Già, perché fino alla legge sulla leva volontaria di Silla (107 avanti Cristo) non si poteva far parte dell’esercito se si era nullatenenti. In pratica, Tiberio Gracco aveva bisogno soprattutto di soldati, e costrinse i contadini a diventar tali, visto che la terra era poca e spesso insufficiente a sfamare una famiglia. E la sua opera non si fermò qui. Quei 30 iugeri vennero tassati e resi inalienabili: in altre parole, si diede il via a quella che, secoli dopo, si sarebbe trasformata in servitù della gleba. Allora, perché Tiberio Gracco fu ucciso? Non a causa della sua riforma. Oggi si ritiene che il motivo fosse l’affectatio regni, il suo attaccamento al potere: la cosa che i Romani temevano di più.

Busto di Commodo con attributi erculei, ai Musei Capitolini, Roma. Forte e prestante, l’imperatore fu divinizzato dalla folla per il suo coraggio nell’affrontare le bestie feroci nel circo. In realtà, tigri e pantere erano state in precedenza intontite con il sonnifero. - Archivio BPP

Busto di Commodo con attributi erculei, ai Musei Capitolini, Roma. Forte e prestante, l’imperatore fu divinizzato dalla folla per il suo coraggio nell’affrontare le bestie feroci nel circo. In realtà, tigri e pantere erano state in precedenza intontite con il sonnifero. - Archivio BPP

Il caso-Spartaco. Altro personaggio finora visto sotto una luce positiva e perfino amato in ogni epoca, Spartaco, il gladiatore che capeggiò una sanguinosa rivolta contro Roma. In realtà, non è escluso che, più che guidarla, vi si trovò in mezzo suo malgrado. Tra il 73 e il 71 avanti Cristo, gli anni di Spartaco, appunto, la Repubblica accusava il momento di crisi peggiore. Stava nascendo il ceto dei contadini poverissimi, mentre diventava un problema serio la presenza di schiavi. Erano un numero immenso. Perciò si pensò di convogliarli verso i giochi gladiatorii. In quel periodo le scuole gladiatorie avevano un seguito paragonabile a quello di alcune squadre di calcio odierne, e i loro campioni erano idolatrati dalle folle (e dalle matrone romane, disposte a pagare somme importanti per un po’ della loro compagnia). Spartaco apparteneva a una di queste scuole, quella di Capua. Era un atleta eccezionale (combatteva soltanto con elmo e spada), forse molto bello, intelligente, adorato dalle donne, ex soldato romano, poi disertore e poi ancora brigante.
Secondo la versione di Plutarco, una sera si arrabbiò moltissimo «per una iniquità del suo padrone». Così, afferrò alcuni attrezzi da cucina, probabilmente degli spiedi, e insieme a 74 compagni, rissosi quanto lui, fuggì dalla scuola. Nelle campagne iniziarono a unirsi a lui molti contadini poveri, che vedevano in questo manipolo di facinorosi una buona occasione per fare bottini. Il loro numero crebbe, fino a impensierire Roma, che inviò Marco Licinio Crasso (115-53 avanti Cristo) per sconfiggerli. Crasso ci riuscì.
La Storia racconta che Spartaco e i suoi vennero crocifissi lungo la Via Appia. Ma nel 1927 un affresco emerso a Pompei ha rivelato una storia del tutto differente: vi si vede Spartaco ucciso nel modo raccontato dalla storico Appiano, secondo il quale il ribelle fu ferito a una coscia e poi fu finito. Il dipinto è firmato da un certo Felice da Pompei, antenato del padrone di casa. Dunque, niente morte esemplare, degna di un “pericoloso rivoluzionario”. Eppure, il mito era già tanto consolidato, che i teorici delle grandi rivoluzioni dell’Est (da Marx a Engels) fecero di Spartaco un’icona della rivolta contro il potere, un eroe puro che combatte fino alla morte in croce. Non per niente ancora oggi molte squadre di calcio e società sportive si denominano “Spartak”.

Patrizi-plebei. Un grosso equivoco persiste alla base della distinzione di patrizi e plebei in ricchi e poveri. Una corrispondenza (patrizio=ricco, plebeo=povero) data da sempre per certa. I patrizi erano i discendenti dei patres di Roma, non un’etnia, come molte teorie – nazismo compreso – diranno, ma semplicemente quelli che per primi avevano occupato i sette colli. E che, di conseguenza, erano stati i primi titolari delle cariche pubbliche. Ci furono patrizi e plebei di ogni etnia (lo si desume in particolare dai nomi).
Ma chi erano i plebei? Un gruppo di persone con un proprio “centro”, l’Aventino, e con proprie divinità (Diana, Cerere, Libero e Libera). Esattamente le divinità votate alla protezione di commercianti, artigiani e mercanti; di coloro i quali, in poche parole, muovevano il denaro. Insomma, una comunità a fianco di un’altra comunità, alla quale non chiedevano soldi, ma potere politico. L’equivoco storico – sostengono oggi gli studiosi – sta nella richiesta di ager publicus avanzata nel V secolo avanti Cristo. Solo che i plebei chiesero due iugeri, sufficienti esclusivamente per entrare a far parte della vita politica attiva. Perché anche questa, nella Roma dell’epoca, era possibile solo grazie alla proprietà, al pari della possibilità, di cui abbiamo detto, di far parte dell’esercito.

Pompei: Dalla “casa di Pansa”, particolare del ritratto di Paquio Proculo, conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli. Di origini plebee, il “panettiere” divenne duoviro della città e uno dei rappresentanti più
influenti della sua borghesia commerciale. - Archivio BPP

Pompei: Dalla “casa di Pansa”, particolare del ritratto di Paquio Proculo, conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli. Di origini plebee, il “panettiere” divenne duoviro della città e uno dei rappresentanti più
influenti della sua borghesia commerciale. - Archivio BPP

Colpa di Cristo? Sul crollo dell’Impero Romano si è scritto un numero imponente di trattati. C’è perfino chi ha ipotizzato la causa nella progressiva “demenza” diffusasi fra la popolazione che beveva acqua fatta scorrere nelle fistulae, tubazioni in piombo degli acquedotti. Il piombo sarebbe stato la causa del saturnismo, una malattia che può portare a forme di pazzia. Molto accreditata è anche l’ipotesi della decadenza dell’efficacia bellica determinata dall’avvento del Cristianesimo, che, di fatto, avrebbe reso meno agguerriti i soldati romani.
Sembra, tuttavia, che sia accaduto il contrario. Il paganesimo era già in crisi prima che sopraggiungesse il Cristianesimo. C’era, dunque, un vuoto che la religione di Cristo colmò, contagiando anche i militari. Anzi, molti soldati vennero martirizzati: e San Giorgio fu talmente valoroso, da diventare guardia del corpo di Diocleziano. Del resto, nel Vangelo di Luca si legge chiaramente di soldati che chiedono a Gesù: «E noi cosa dobbiamo fare?». La risposta è: «Non vessate né denunziate falsamente nessuno e contentatevi delle vostre paghe». Non vi è esplicitata alcuna richiesta di abbandono delle armi. Basta pensare – ad esempio – all’imperatore cristiano Costantino I (272-337) e al suo In hoc signo vinces. Il Cristianesimo diede invece nuova linfa a un sistema già in crisi, forse consentendogli di crescere ancora.

Cesare, per concludere. In uno studio di Sergio Macchi e Giancarlo Reggi, dell’Università di Lugano, è stato analizzato lo stato di salute di Cesare nel 44 avanti Cristo, anno della sua morte. Sorprendenti i risultati: nell’iconografia romana, Cesare nel 45 è un personaggio florido, sano. Ma studiando alcune monete datate al 44 avanti Cristo, è stato notato che il volto di Cesare somiglia a quello «di una vecchietta», col pomo di Adamo pronunciato, con cinque pesanti rughe marcate sul viso, con un dimagrimento impressionante.
Nell’universo romano, l’iconografia non era celebrativa, come in quello greco: nessuno ritraeva statue di potenti belli e aitanti, ma si considerava già la bravura dell’artista nel ritrarre il personaggio così com’era, realisticamente. E per di più: altre fonti ci parlano di un Cesare che negli ultimi mesi di vita non si alzava più dalla sedia in presenza di dignitari importanti. Con ogni probabilità – è la tesi dei ricercatori – soffriva per la presenza di un tumore all’intestino, che lo aveva reso gravemente incontinente. Insomma, sapeva di dover morire. E non fu certo sorpreso dall’agguato di Bruto e compagnia bella, anche perché aveva già in tasca la lista dei congiurati. Conosceva benissimo la sorte cui andava incontro, nelle idi di marzo del 44. Sarà stupefacente, ma non è da escludere l’ipotesi che si suicidò, ma lasciando che altri compissero il gesto al suo posto.

 

 

   
   
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