Dicembre 2009

 

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“Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre”, Congedo, Galatina, 2009,  pp. 236.  

Canone novecentesco

Modernità del Salento

Vasta e articolata raccolta di recenti scritti critici, editi e inediti, sul Salento letterario e artistico contemporaneo, caratterizzati da modernità nazionale ed europea (canone del libro prefigurato nell’Avvertenza). Sono raggruppati in tre Parti: Attraverso il Novecento, Tra letteratura e arte, Critica, narrativa e poesia. Si dà qui un’informazione per frammenti essenziali di tale caratterizzazione, come invito alla lettura, o alla consultazione, di questo importante libro di Antonio Lucio Giannone, noto studioso contemporaneista.

Parte prima

1. L’ultimo De Dominicis: “Spudhiculture”
Riscoperta e rivalutazione dell’ultimo libro poetico in dialetto leccese di Giuseppe De Dominicis (Briciole), Lecce 1903, nel segno di un decadentismo esistenziale, obliterata la dialettale tradizione comico-realistica.
2. Mimì Frassaniti e le origini del futurismo a Lecce
Mimì (Domenico) Frassaniti fu divulgatore del futurismo nella stampa leccese già dal 1909, e fu autore, nel 1910, di un notevole studio su questa avanguardia (il primo, quasi certamente, in Italia), rimasto inedito.
3. Il “ritorno” di Michele Saponaro
Dall’iniziale primonovecentesca narrativa veristico-regionalistica di ambiente salentino, patrocinata dal Capuana, a quella di intrattenimento, o di consumo, borghese e piccolo-borghese, alle biografie di personaggi-miti (Foscolo, Leopardi, Carducci...), alle redazioni di note riviste, come “La Tavola Rotonda” di Napoli, 1906-1909, e “La Rivista d’Italia” di Milano, 1918-1920.
4. Nel “sud del Sud”: il Salento di Vittorio Bodini e Carmelo Bene
Alla ricerca di un’identità salentina attraverso affinità tematico-mentali tra i due maggiori scrittori salentini del Novecento, Vittorio Bodini e Carmelo Bene. Per entrambi fu costante oggetto di riflessione critico-creativa il barocco con le sue potenzialità novecentesche.
5. Scheda su “L’esperienza poetica”
La nota rivista di Bodini (1954-1956), oltre l’ermetismo e il neorealismo marxista.
6. Vittorio Pagano: l’intellettuale e il poeta
È recensito il volume di Nicola Carducci, Vittorio Pagano: l’intellettuale e il poeta (con quattro poemetti inediti), Lecce 2004. Si osserva che l’ermetismo di Pagano fu esperienza in evoluzione, come risulta da questi inediti. Di civile impegno i Reportages su città («Pagano fu eccezionale e lungimirante “maestro” in un Centro di rieducazione»). Straordinaria la sua attività di traduttore.
7. Profilo di Salvatore Paolo
Salvatore Paolo fu autore di sette romanzi, scritti tra il 1959 e il 1975; alcuni editi postumi, tranne uno. D’intensa modernità I Fibbia (Kafka, Pirandello, Svevo), L’attesa (problematicismo di Beckett e Ionesco), L’età del ferro, romanzo di una crisi epocale.
8. L’attività letteraria nel Salento attraverso le riviste (1970-2005)
Tra le riviste più note: “L’Albero”, fondata e diretta da Girolamo Comi dal 1949 al 1956, «fedele alla linea ontologica della poesia italiana del Novecento», ripresa e diretta da Oreste Macrì e Donato Valli dal 1970 al 1985, le sperimentali “Gramma” (1971), “Ghen” (1977), “Caffè Greco” (1977-1984), “Pensionante de’ Saraceni” (1982-1986), “l’incantiere”, giornale di poesia trimestrale del Laboratorio di poesia dell’Università di Lecce (1987-2002). Dal 1984 “l’immaginazione” informa sulla letteratura contemporanea.
9. Oreste Macrì e “L’Albero”
Scritti di Macrì si leggono in ogni numero dell’“Albero” (cfr. il n. 8). Il suo magistero di comparatista è valso a universalizzare questa rivista salentina. Decisiva, ad ampia e varia partecipazione di collaboratori, la promozione del nesso Lecce-Firenze (Macrì trascorse a Firenze la sua vita di studioso e di docente universitario).
10. Due riviste sperimentali degli anni Settanta: “Gramma” e “Ghen”
“Gramma”, rivista leccese di poesia visiva, del 1971, utilizza «qualsiasi forma di “scrittura” e quindi di comunicazione a fini estetici», derivata dalla fiorentina “Tèchne” (1969-1976) di Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Vi collaborano poeti visivi italiani e stranieri, con vari apporti sperimentali, anticonvenzionali e antiborghesi. A “Gramma” succede “Ghen” (1977-1979) con processo diffusivo inverso: da Lecce a Genova (“Ghen res extensa Ligu”, 1981-1985), con implicazioni genetiche del linguaggio verbo-visivo, e con varia destinazione sociale.
11. Enzo Miglietta dalla poesia verbale alla “scrittura” e oltre
Scrive versi già diciassettenne, dal 1945 al 1970, anno in cui fonda il Laboratorio di poesia di Novoli. Diventa noto in Italia e all’estero per un’intensa sperimentazione della «poesia concreta, visiva, multimediale e della “scrittura”». Privilegiati i video-libri, i libri-oggetto, la mail art, l’“arte della spazzatura”, o recycling art. È inutile, ormai, la comunicazione verbale.

Archivio BPP

Archivio BPP

12. L’editoria letteraria nel Salento: le edizioni delle riviste
Negli anni Cinquanta si affermano in Italia collane ed edizioni nate da riviste letterarie. Accade anche nel Salento con quattro riviste: “L’Albero” (testi di A. Onofri, G. Necco, G. Comi…); “Il Critone” (diciotto volumetti dal 1958 al 1967…); il “Pensionante de’ Saraceni” (S. Toma, A. Verri, C.A. Augieri…); “l’incantiere” (W. Vergallo, A. Colombo, G. Bernardini, S. Caliolo). Ultimi “Quaderni dell’Albero”: nel 2001 gli Atti di un seminario di studi su Fabrizio Colamussi, e nel 2002 gli Atti del convegno internazionale su Girolamo Comi; cessata dal 1985 (ma contata 1987), la prima e più famosa rivista salentina del Novecento.
13. Francesco Politi germanista e traduttore
Presentazione del libro Francesco Politi, In memoria, Taurisano 1907-2007, Editrice Salentina, Galatina, 2007. Poliedrica figura di letterato, attivo in Italia e all’estero. Fra numerose testimonianze, il notevole profilo biografico tracciato da G. Montonato, direttore di “Presenza Taurisanese”, cui Politi collaborò. Donato Valli rileva i meriti dello studioso della poesia dialettale salentina; Mario Marti, del traduttore di Orazio.
14. Gli studi novecenteschi di Gino Rizzo
Sono fondamentali gli studi su Beppe Fenoglio, che Gino Rizzo coltivò con straordinaria passione ed eccellente competenza filologica (suo maestro Mario Marti). Non secondari quelli sulla narrativa del Novecento e sul barocco di Vittorio Bodini.

Parte seconda

1. La Scuola d’Arte e la vita letteraria nel Salento nella prima metà del Novecento
Modernità futurista di M. Frassaniti (cfr. Parte prima, n. 2), e del pittore Antonio Serrano (questi anche divisionista, postimpressionista e cubista). Innovatrice lezione del pittore Geremia Re nella Scuola Artistica di Lecce, originalmente assimilata, a partire dagli anni Trenta, da prestigiosi artisti come Nino Della Notte, Mino Delle Site, Lino Suppressa, Luigi Gabrieli… Protagonisti di rinnovamento le mostre, i giornali, le riviste.
2. Luigi Gabrieli e la cultura salentina del Novecento
Ricostruzione della biografia artistica di questo pittore, vista, fra l’altro, nell’ambito di una koiné di poeti e pittori salentini, straordinariamente attiva a Lecce. Rivelatore di esperienze neoimpressionistiche, specialmente nei paesaggi, le mostre leccesi del 1946 e del 1954, e quella barese del 1956. Da scoprire la sua ultima pittura, astratta e informale.
3a. Itinerario di Mino Delle Site
Tra i maggiori rappresentanti dell’aeropittura futurista. Ripercorsa la storia artistica di questo pittore, prediletto da Giannone. Inizi con Geremia Re alla Scuola statale d’arte di Lecce. Di suo dominio tutto ciò che trasfigurato pertiene al volo e alle macchine volanti. Dimora a Roma, si afferma in Italia e all’estero. Dall’astrattismo all’oggetto reale, senza nulla rinnegare del passato (anni Cinquanta). La cartellonistica turistica. Ritorno all’aeropittura (anni Settanta-Ottanta).
3b. La tematica sacra nell’arte di Delle Site
Compenetrazione di misticismo futurista e di iconografia cristiana. Rassegna critica di opere che ne derivano.

Serena Colazzo

Serena Colazzo


4. Cosimo Sponziello tra Salento e Milano
Dalla Scuola d’arte di Lecce all’incontro con Vincenzo Ciardo: la scoperta degli incanti del Salento. I rapporti con Lino Suppressa e le riflessioni sull’esperienza impressionistica. La dimora milanese. Il postimpressionismo e il tonalismo lombardo si fondono con il cromatismo meridionale. Mostre al Nord, con temi pittorici del suo Sud.
5. La ricostruzione “ludica” dell’universo di Sandro Greco
Il “gioco” come libertà e creatività dell’arte (si veda la mostra antologica Il gioco e l’arte a Lecce nel 1999). Passione per il mondo del circo. Greco, laureato in farmacia, fa dialogare arte e scienza, entrambe forme della fantasia. «Mirò e Klee, i suoi ideali maestri». Si esercita nel mosaico, nella ceramica, nell’oreficeria.
6. Una mostra di Pietro Liaci e Giovanni Valletta
Entrambi artisti sperimentali. Dalla materia fisica alla sua configurazione formale. Valletta e la reinvenzione della struttura materiale della pietra leccese.

Parte terza

1. “Da Dante a Croce” di Mario Marti
(Congedo, Galatina, 2005). Testimonianza della vastità e dell’originalità degli studi di questo Maestro salentino di italianistica.
2. Una disputa settecentesca tra scienza, gioco e dialetto
(Università degli Studi di Lecce, 2006). Un testo insospettato e raro di disputa enologica in versi nel Salento del primo Settecento, magistralmente studiato da D. Valli.
3. Un’edizione commentata della “Luna dei Borboni (1952)” di Vittorio Bodini
(Besa, Nardò, 2006). Riguarda il commento, favorevolmente accolto, di questo primo libro poetico di Bodini a cura di chi scrive.
4. “Le ali di Hermes” di Emilio Filieri
(Congedo, Galatina, 2007). Riscoperta di testi di autori salentini del Settecento (Ignazio Falconieri, Francesco Bernardini Cicala...); il poeta Francesco Morelli; studi di didattica della letteratura.
5. “Giocattoli rotti” di Giuseppe Minonne
(Severa, Roma, 2000). Romanzo «di tipo intimistico, introspettivo, esistenziale in un piccolo paese del Sud, in un periodo segnato ancora da gravi problemi sociali». Didatticheggiante, anche.
6. “Beccacivetta” di Maddalena Castegnaro Guidorizzi
(Manni, Lecce, 2002). Storie di donne, «di un genere letterario a metà strada tra la prosa e la poesia», frequente in Italia sin dal primo Novecento.
7. “Il sangue degli Orsini” di Emilia Bernardini
(Piemme, Casale Monferrato, 2003). Romanzo storico, secondo il classico canone di fantastica reinvenzione di personaggi ed eventi reali.
8. “Le figlie di Federico. Cronache e racconti dal Medioevo” di Enzo Quarto
(Besa, Nardò, 2004). Cronache e racconti «tra fiction e documentario storico». Personaggio di costante riferimento l’imperatore Federico II in Puglia.
9. Nelle “viscere del Seicento”: “L’Oratorio della Peste. Il segreto di Lecce” di Raffaele Gorgoni
(Besa, Nardò, 2005). Romanzo storico. Lecce nel Seicento del vescovo Pappacoda. L’oratorio punto di riferimento dell’aristocrazia leccese. Grande affresco di personaggi e di avvenimenti locali ed europei.
10. “Scommesse e altri racconti” di Giuseppe Cassieri  
(Manni, Lecce, 2006). Temi di attualità: la «sindrome di pensionismo» e la necessità di rimanere attivi anche da vecchi, la scommessa, l’«affidarsi al caso».
11. “Altri giorni, altri racconti” di Giovanni Bernardini
(Argo, Lecce, 2008). Quasi un cinquantennio di narrativa rappresentato da questa raccolta: «dalla stagione neorealistica fino all’approdo a un moderato sperimentalismo e alla scrittura umoristica degli ultimi tempi». Costante l’attenzione al Sud.
12. “Dissimiglianze, un ritorno” di Carlo Alberto Augieri
(Manni, Lecce, 2004). Critico e teorico della letteratura, poeta sperimentale e anticonvenzionale, alla ricerca «di una forma “altra” che riesca ad esprimere quel grumo oscuro che ha dentro di sé e che non riesce a manifestare in maniera diversa».

antonio mangione

Sono folle della vostra anima così bella, così vicina alla mia, così immensa in tutte
le sue creazioni.
Sono folle di questo
luogo che mi parla di voi, solo di voi.

 

 

 

 

 

 

 

D’ Annunzio e la Comarella

Tra saggio e narrativa

D’Annunzio e la Comarella (Pescara, Ianieri, 2008) è l’ultimo libro (per ora) di Lina Iannuzzi, già docente di Letteratura italiana prima nella Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Bari e poi in quella di Magistero dell’Università di Lecce. Nelle sue numerose pubblicazioni si è occupata della cultura lombarda dell’800 attraverso gli studi sul “Crepuscolo” e sul carteggio Tenca-Maffei; della cultura letteraria in Piemonte, sempre del secolo diciannovesimo, attraverso il saggio su Eugenio Camerini; e poi ancora di Verga, D’Annunzio e di altri scrittori del ‘900, tra i quali figura anche il salentino Fabrizio Colamussi. Negli ultimi tempi poi ha scoperto una vena narrativa pubblicando un romanzo, Una storia del Novecento (2002), e una raccolta di racconti, Sulle tracce di Pitagora (2005).
Ora, a quale genere appartiene questo libro? A quello critico o a quello narrativo? Si tratta cioè di un saggio, di uno studio o di un racconto? Ebbene, mi sembra che D’Annunzio e la Comarella si ponga a mezza strada tra un saggio critico e un testo di narrativa, coinvolga cioè i due aspetti dell’attività letteraria di Lina Iannuzzi, e questa è la sua prima caratteristica. Un’altra caratteristica, come vedremo meglio in seguito, è la componente autobiografica che emerge dalle prime pagine dell’opera.
Ma vediamo più da vicino di che si tratta. Il libro è innanzitutto la ricostruzione della vita o, per meglio dire, di una parte della vita di una donna, Antonietta Pesenti, sposata con Guido Treves, nipote di Emilio Treves, il più importante editore degli ultimi decenni dell’800 e dei primi del ‘900, l’editore di Verga, D’Annunzio, Pirandello, Deledda, De Amicis e di tanti altri scrittori italiani di quel periodo, tra i quali mi piace ricordare anche il nostro Michele Saponaro. Ma D’Annunzio e la Comarella è anche la rievocazione, sia pure per rapidi cenni, dell’ambiente culturale milanese dai primi decenni del Novecento fino agli anni Sessanta, e soprattutto di un rapporto umano e intellettuale tra il più noto letterato italiano di quegli anni, Gabriele D’Annunzio, e la protagonista di questa storia, Antonietta. Un rapporto che viene ricostruito da Lina Iannuzzi con grande sensibilità e delicatezza tutta femminile attraverso le lettere dei due, evitando ipotesi basate sul gossip, sui pettegolezzi, sempre possibili trattandosi di una personalità come quella del Vate abruzzese, come d’altra parte è stato fatto da altri biografi dannunziani.
Ma, come dicevo poco fa, questo libro è in parte anche una storia autobiografica in quanto l’autrice entra a far parte della vicenda negli ultimi tredici anni di vita di Antonietta Pesenti Treves, a partire dal primo incontro avvenuto nel 1966, come lei stessa racconta, con doti autentiche di narratrice, nel seguente brano:

Un giorno, alla Civica, mi colpì una signora anziana, dall’abbigliamento démodé, con un berrettino da ciclista a scacchi bianchi e blu, uno stiffelius grigio scuro fino alle caviglie, calzature di velluto a piccole coste. Nel volto, solcato da rughe sottili, due occhietti miopi. La studiosa, accompagnata da un gentiluomo fin de siècle, consultava documenti rari, volumi annosi, giornali impolverati, prendeva appunti. Più che ottuagenaria, a prima vista, pareva una dama decaduta costretta a guadagnarsi da vivere. Poi, un bel giorno, d’improvviso, mostrò di avere il mio stesso interesse per il “Crepuscolo”, il periodico redatto da Carlo Tenca nel decennio 1850-1859. Da allora incominciammo a impegnarci a chi arrivava prima in biblioteca per consultare quell’opera e ci guardavamo in tralice. Ma una mattina di febbraio, particolarmente rigida, io, che ero sul punto di tornare nella mia Puglia solatia anche in pieno inverno, invitai la signora “innominata” a prendere un tè al Caffè Alemagna in via Manzoni. E lì, reciprocamente incuriosite e divertite, cominciammo a conversare amabilmente. Ma tentai invano di pagare il conto. L’altra vantò un diritto di priorità. Era tanto più anziana di me. E sorrise, battendo le ciglia con un’espressione enigmatica. Intuimmo che quell’incontro non sarebbe stato l’ultimo. Iniziò infatti un sodalizio, destinato a durare nel tempo. Lei, però, da principio pareva poco propensa a parlare di sé (p. 14).
Ecco, da questo primo incontro nasce un’amicizia destinata a durare fino alla morte di Antonietta e che ora Lina Iannuzzi ha sentito il bisogno di rievocare insieme alla ricostruzione della biografia di questa donna, che è rimasta a lungo una figura poco nota. Infatti solo di recente è stato possibile saperne di più grazie alla pubblicazione del carteggio intercorso tra lei e Gabriele D’Annunzio, pubblicato dalla Casa editrice Ianieri nel 2005 a cura di Franco Di Tizio e di quello tra il poeta e i Treves curato da Gianni Oliva.

L’autrice del libro si serve dunque abbondantemente di questi carteggi ma anche di lettere inviate alla donna da altri personaggi, nonché di quelle della Treves spedite a lei stessa, oltre che di altri documenti, articoli, ecc.

Vediamo allora di ripercorrere anche noi le tappe principali della sua vita seguendo la ricostruzione che ne fa l’autrice. Antonietta Pesenti nasce a Milano il 12 febbraio 1882, figlia primogenita di un colonnello e di una contessa. Ha tre fratelli, uno dei quali diventerà podestà di Milano, e una sorella che muore in giovane età. Ma Lina Iannuzzi non si sofferma sul primo periodo della sua vita. Il suo racconto parte dal matrimonio della donna con Guido Treves avvenuto il primo luglio 1909. Testimone delle nozze per parte dello sposo fu D’Annunzio. Da qui il soprannome di “Comarella” datole dallo scrittore che nelle lettere la chiamava anche con altri nomignoli da lui inventati come Suor Dolcina, Antho, Nietta.
Di ritorno dal viaggio di nozze, gli sposi danno vita a un salotto letterario nella loro bella casa milanese di via San Damiano, del quale fanno parte scrittori, musicisti, artisti, giornalisti, attori e attrici famosi. Nel dicembre 1924 i due si trasferiscono in una casa nuova, sita in via Leopardi 24. Intanto continua il rapporto di amicizia con D’Annunzio, il quale nelle sue lettere si rivolge a lei per alcune commissioni (profumi, stoffe), ma anche per informarla della sua attività letteraria. In particolare, ci troviamo di fronte qui all’ultimo periodo della carriera dannunziana e infatti le opere più frequentemente citate nelle lettere sono: Il Notturno, Le faville del maglio, La contemplazione della morte, Il venturiero senza ventura, Il compagno dagli occhi senza ciglio, Il libro segreto e altre ancora.
Nelle missive che i due si scambiano emergono però anche aspetti privati dei corrispondenti, come un sentimento di vera e propria venerazione e di forte attrazione da parte della donna, di cui l’autrice del libro riporta questa eloquente lettera che risale al 9 dicembre 1922:
Caro Compagno,
se sapeste quanta gioia avrei avuto di venirvi a dare il mio saluto di Mussulmana fedele – non rifedele! Dall’ultima volta che vi ho lasciato conservo un desiderio insistente di passare con voi solo qualche ora e dirvi così tante cose nate e vissute nella mia anima, come una fiamma viva che non si estingue mai!
Tante volte rimpiango, anzi soffro di non avervi rivelato il mio segreto. Ma lo avrete perché forse siete l’unico che ha capito tutto il mio bene ed il mio male. Sento che verrò prestissimo da voi e che sarete guarito dalle mie mani forse troppo sincere nel groviglio di questa vita così strana, così terribile quando si deve tacere e fingere delle banalità. Ho avuto e avrò sempre un affetto unico per voi che considero come un mio piccolo Dio segreto. Vi ho per questo inviato l’incenso e gli aromi come dimostrazione quasi sovrumana. Sono folle della vostra anima così bella, così vicina alla mia, così immensa in tutte le sue creazioni. Sono folle di questo luogo che mi parla di voi, solo di voi.
Distruggete (p. 35).

Tra il 1921 e il ‘25 si colloca pure la problematica vicenda della pubblicazione dell’Opera Omnia con la Casa editrice Treves, con cui D’Annunzio concluse un contratto che viene rescisso nel 1925. L’Opera Omnia venne poi pubblicata, com’è noto, da Mondadori e anche di questo ci sono riferimenti nelle lettere.
Intanto il 13 maggio 1932 Guido Treves, che era in precarie condizioni di salute, muore e lo scrittore invia ad Antonietta una lunga lettera di condoglianze in cui – scrive Iannuzzi – «fece quasi una sorta di confessione venata di tristezza e carica di rimpianto» (p. 52). Con la morte di Guido termina un periodo della vita della donna, che quello stesso anno si trasferisce in una piccola abitazione in piazza Cinque Giornate 4, dove rimase fino a quando in età avanzata si ritirò a Brivio sull’Adda nella casa avita dei parenti materni, i conti di Marsciano.
Anche questo però è un periodo intenso della vita di Antonietta che ricostruisce la Casa editrice Treves, diventata Treves-Treccani-Tumminelli, e nel 1933 dona la preziosa biblioteca del marito e un suo ritratto al Comune di Milano. Continua anche il rapporto epistolare con D’Annunzio, caratterizzato sempre da un profondo affetto reciproco e quasi complicità. La donna cerca infatti con le sue parole e la sua presenza di confortare il vecchio scrittore spesso preda della depressione. Nel 1936 gli fa conoscere una bella signora, Evelina Morasso Scapinelli, che diventa – scrive l’autrice – «gioia e tormento dell’ultimo D’Annunzio» (p. 81). Le lettere tra i due continuano fino al 1937, cioè fino quasi agli ultimi mesi di vita dello scrittore, che si spense il 1° marzo 1938.
Qui si conclude il secondo periodo della vita di Antonietta. A questo punto la storia riprende sostanzialmente dal 1966, l’anno in cui la conosce l’autrice del libro. La quale, dopo essere entrata in contatto con lei a Milano, presso la Biblioteca civica, va a trovarla a Brivio, dove è intenta a raccogliere materiale sull’attività editoriale di Emilio Treves ma anche ad aiutare Giovanni Titta Rosa a scrivere un libro su D’Annunzio a Milano. Di questo informa nelle sue lettere Lina Iannuzzi, che in tal modo si rende conto della sua grande generosità evidente anche nell’aiuto offerto disinteressatamente a studenti e giovani studiosi, ai quali regalava libri, lettere e forniva informazioni e materiale utili per le loro ricerche. E la stessa Iannuzzi confessa di essere stata aiutata da lei nei suoi studi sul carteggio Tenca-Maffei e sul periodo milanese di Verga.
Spesso poi il frutto delle sue ricerche va a finire nelle mani di altri come in quelle di Piero Chiara, che dopo la morte di Titta Rosa riesce ad avere il materiale su D’Annunzio di cui si serve per stendere la nota biografia. Per quanto riguarda la monografia su Treves, invece, Antonietta trova l’estensore attraverso la mediazione di Marino Moretti, in un giovane scrittore, Massimo Grillandi e la casa editrice nella UTET. Grillandi all’inizio si dimostra riconoscente ad Antonietta e gliene dà atto nelle lettere. Poi i rapporti si incrinano perché lo scrittore tarda nella stesura dell’opera che, prevista per il 1971, esce soltanto nel 1977.

Ma ormai siamo all’epilogo del libro di Lina Iannuzzi e della vita di Antonietta. La corrispondenza epistolare si dirada, anche se fino all’ultimo la donna continua a dedicarsi a ricerche bibliografiche per amici e sconosciuti. Negli ultimi anni regalò o vendette i libri residui della sua biblioteca e una parte di essi andò anche all’Università di Bari. Antonietta Treves muore «senza clamore. Secondo il suo desiderio» (p. 148), come scrive Lina Iannuzzi, il 2 ottobre 1978, alla bella età di 96 anni.

antonio lucio giannone

 

   

Dilatando emozioni

Fiori della lirica tedesca

Sessanta liriche di vari poeti, tradotte in forma isometrica per l’Editrice Sovera, nella collana “Il pensiero creativo”, diretta da Salvatore Merra, ci propongono un Claudio Angelini interprete a tutto tondo di un’idea di poesia che emerge da tre componenti di fondo: quella filosofica, «che privilegia il discorso sul legame fra l’uomo e il mondo»; quella religiosa, intesa come «ricerca del significato della vita umana in una dimensione trascendente, o mistica»; e quella artistica, «da individuare nel valore specifico della poesia come espressione, e nella sua valenza a combinarsi con altre forme d’arte, come musica e pittura».
Traduzioni che denunciano un denominatore comune con “tradimento”, per dirla al modo di Ettore Paratore? Oppure quasi-sinonimo delle “trafitture”, intuite da Guido Ceronetti e scoccate con leggerezza su una traiettoria lunga quanto la storia del mondo? Vale a dire trafitture, sì, ma nel senso di autonome interpretazioni: messe a segno con un’acuminata esattezza da chi ha trascorso la propria esistenza a limar parole (come poeta-e-narratore, come saggista-e-traduttore), da scagliare dopo averle bene affilate.
Angelini e Ceronetti, non sembri una contraddizione: due che per tutta la vita si sono esercitati nella macerante arte del tradurre, in vista del verso da conquistare definitivamente, nel nome del loro concetto di poesia come res cogitans della vita stessa.
Di qui, la domanda: che cosa vuol dire tradurre poesia in altra poesia? Come è stato recentemente sottolineato, significa dilatare al di là dei confini di una lingua, vivente o morta, l’emozione che potenzialmente un testo contiene: «Il poeta tradotto va, attraverso l’alambicco di passione del traduttore, in cerca di altri cuori da conquistare, da far rabbrividire d’amore». Questo è il filo. Del resto, chi dice poesia dice canto, sonorità, cadenza, mimesi. Cantare, ci rivela Rilke, è lo stesso che esistere.

Poesia e vita. Con la loro forza cosmica che resiste ed esiste nello spazio fisico e interiore. Con le contraddizioni orchestrate all’origine dal poeta, e poi reintepretate dal traduttore: poesia è singolarità – ha scritto Alfonso Berardinelli – evidenza, precisione. Poesia è flusso ritmico. È amore del mondo fisico. Dà corpo a pure idee. Poesia è verità, è gioco, allucinazione, puro suono. Traduce sogni, guarisce dai sogni. È invenzione di forme. O riprende forme tramandate da decenni e da secoli. È condensazione di significati. È rarefazione del significato. È associazione fonica. È densità semantica. Sospende la comunicazione, rende più efficace la comunicazione. Spezza le convenzioni, preserva le convinzioni. Innova e sorprende. Echeggia e ripete…

In questo magma si muove il traduttore. Questa materia prima rimodella l’interprete. Raccolta dai poeti-filosofi, come Nietzsche
(«Sopra il ponte, poco fa,
stavo, nella bruna notte,
da lontano udivo un canto,
gocce d’oro pullulavano
sulla trepida laguna,
luminarie, suoni, gondole,
tutto ebbro fluttuava nel crepuscolo…

La mia anima, qual arpa
tocca da mano invisibile,
sussurrava un’aria, tremula
di svariante beatitudine.
Ma qualcuno l’ascoltava?»
- da “Venezia”); come Hesse
(«La vita è come un albero,
perde foglia su foglia;
o tu, mondo frenetico,
come spegni ogni voglia,

come sazi ed estenui,
lasci ognuno stordito,
ciò che oggi è ancora splendido
fra non molto è svanito…» -
da “Caducità”); o come Dietrich Bonhöffer
(«… Sono io davvero quello che gli altri dicono di me?
O sono soltanto ciò che io stesso so di me?
Inquieto, accorato, malato come un uccello in gabbia,
anelante a un vivo respiro
come se qualcuno mi strozzasse la gola,
affamato di colori,
di fiori, di voci d’uccelli,
assetato di parole buone, di contatto umano,
tremante di rabbia innanzi all’arbitrio
e alla più piccola offesa,
logorato dall’attesa di cose grandi,
affranto e sgomento per l’amico a distanza enorme,
stanco e vuoto per pregare, per pensare, per creare,
spossato e pronto a prendere congedo da tutto?...
- da “Chi sono io?”).

Prevalentemente, la poesia si afferma nella modernità occidentale come una forma di ricerca essenziale, assoluta, del senso ultimo e primo di tutto. Una ricerca particolare. Le sue strazianti domande e le sue traboccanti scoperte – scrive Roberto Mussapi – si esprimono per immagini, dunque emozionalmente: la poesia in sé non è “emozioni” ma rivelazione, vale a dire conoscenza che passa attraverso l’emozione. Non a caso la lezione di Angelini trascorre dal classico Martin Luther
(«Da cupa angoscia invoco te,
Signore ascolta il grido mio;
benigno volgi a me il tuo orecchio,
aprilo alla mia preghiera.
Perché se tu vorrai guardare
tutti i peccati che ho commesso,
Signore, chi potrà resisterti?...»
- dal Salmo “De Profundis”) all’introspettivo Angelus Silesius
(«Fermati, dove corri? Il cielo è dentro te.
Se
cerchi altrove Dio, non lo trovi, non c’è…» - da “Il pellegrino cherubico”), ad Andreas Gryphius, a Friedrich Klopstock
Ci spaventa la nostra salvatrice,
la morte. Dolcemente viene lei,
leggera nelle nuvole del sonno.
Ma terribile resta, e noi guardiamo
giù, solo nella tomba, benché lei
ci conduca dal velo della notte
lassù, nel regno della perfezione,
là, nella terra della conoscenza
» da “La morte”).

Terza schiera, quella dei poeti «più attenti ai valori estetici», a cominciare da quello spirito innovatore che fu Friedrich Hölderlin
(«…Ma dove sono gli amici?
…Più d’uno
ha timore d’andare alla fonte,
ma certo comincia sul mare
la ricchezza. E come pittori,
essi radunano insieme
il bello del mondo, e non sprezzano
la guerra alata, e abitare
da soli, per anni, sotto
un albero privo di chiome
dove di notte non giunge bagliore
di feste dalla città
né accordo né danza nativa…»
- da “Ricordo”; e altrove:
«Siede tranquillo all’ombra del capanno
il villico, e pacatamente fuma
il focolare; s’ode, nella sera,
blando, il rintocco d’una squilla amica
che invita il pellegrino a riposare
nella pace del borgo. I naviganti
tornano al porto, e di lontano sfuma
lieto, in città, il clamore dei mercati.
…Sboccia lassù in cielo, a sera,
tutta una primavera, innumerevoli
rose s’accendono e sereno appare
l’aureo mondo; oh, lassù con voi prendetemi
purpuree nubi! Oh, se mai là potessero
sciogliersi amore e pena in aria e luce!...»
- da “Fantasia serale”);
proseguendo con i versi non più del tutto corposi e densi, ma intrisi di atmosfere e climi più rarefatti di Joseph Karl von Eichendorff
(«…Sui campi le brezze passavano,
le spighe ondeggiavano appena,
i boschi sommessi fremevano,
la notte era dolce e serena.

Allora spiegò la mia anima
le ali, da gioia pervasa,
su placidi campi librandosi
credeva tornar verso casa»
- da “Notte di luna”) e dell’incantevole Heinrich Heine
(«…Il sole affondava, e gettava
rosse strisce a sommo dell’acque,
e le ondate larghe e bianche
dal flusso risospinte
più prossime schiumavano, ed urlavano…
era uno strano strepito,
un frusciare ed un fischiare
di risa e mormorii,
di sospiri e sussurrii
cui, segreto, si mescolava un canto
di ninnananna. E mi sembrava udire
vecchie fiabe scomparse,
deliziosi racconti…»
- da “Crepuscolo della sera”).
 
Fu Goethe, per quel che riguarda la produzione poetica italiana, il geniale trait-d’union tra la poesia tedesca e la nostra, che si erano storicamente separate nell’evo rinascimentale. Assai più erano stati attratti dai modelli della Penisola gli inglesi, sin dai tempi medioevali. Goethe saldò la frattura che neanche Schiller – ancorato alla lezione dell’arte classica greca – aveva superato
(«…Forte speranza mi spingeva
ed una fede misteriosa:
“La strada è aperta, va” diceva
“là verso oriente, senza posa.

Giungerai a una porta d’oro
tu entra per essa: laggiù
tutto ciò che in terra è tesoro
passa in cielo, e non muore più…”»
- da “Il pellegrino”).

Con i suoi versi sontuosi, sarà Goethe – sostiene Angelini – a indicare il rapporto nuovo, rivelando all’Europa d’allora che «solo l’Italia offre a un artista la gamma completa d’ogni stile e d’ogni espressione»
(«Sopra ogni vetta,
pace;
per gli alti vertici, in su,
tu senti
soltanto un alito fioco.
Nel bosco il canto degli uccelli tace.
Posa; fra poco
sarai nella pace anche tu» -
dal “Canto notturno del viandante”; e ancora: «…Salute agli esseri
ignoti ed alti
che in noi sentiamo!
Li uguagli, l’uomo!
Valga il suo esempio
per creder loro.

Poiché insensibile
è la natura:
il sole illumina
buoni e malvagi
e sul reo splendono
come sull’integro
la luna e gli astri…»
- da “Il divino”). Qui si colgono echi leopardiani, (ma anche proiezioni di ritmi metastasiani), che trasmutano in ondulari aure pascoliane nel Rilke
(«Le foglie cadono, cadono come
vengano di lontano, da giardini
che avvizziscono in cielo, per remoti
spazi; cadendo sembra che s’annullino.
E nelle notti, grave, anche la terra
cade dagli astri, nelle solitudini…»
- da “Autunno”); in Herman Hesse
(«Aperta è la finestra, e il lume ho spento,
ed ecco, dolce entra la notte, a onde;
un solo abbraccio su di me, fratello
ed amico, diffonde.

Ci prende entrambi nostalgia, ed in ogni
nostro sogno è un presagio che s’alterna;
bisbigliando, ci tornano i ricordi
della casa paterna»
- da “Notte”); in Paul Celan
(«…Dà anche senso al tuo parere: dagli ombra.

Dagli ombra abbastanza
dagliene quanta
sai attorno a te divisa fra
mezzanotte, mezzogiorno e mezzanotte…»
- da “Parla anche tu”).
Un piglio brechtiano, infine, ci introduce nella contemporaneità con Hans Magnus Enzensberger
(«Ma chi dà loro baci e mele?
E chi li sveglia, chi dona ad essi
i semprevivi, chi spala via dal loro petto
quelle montagne di fumo, chi li scarta
dai giornali, chi mette sotto sale e coraggio quelle bocche
che inghiottono, o pettina via la cenere dai loro capelli,

chi lava la paura dai loro occhi sbiaditi,
chi dona, scioglie, affascina, unge e risveglia
i falsi morti dai morti,
e chi li assolve?...»
- da “I falsi morti”).

Due notazioni finali. La prima: si tratta di una silloge, dunque di una serie necessariamente limitata di testi elettivamente estrapolati dal contesto di gran lunga più vasto e complesso di una produzione poetica che solo nel suo insieme può identificare il genius tedesco, la sua visione del mondo, e la sua posizione nel mondo.
La seconda: il problema della “traslazione” linguistica, che Angelini risolve – come sottolinea nella prefazione Camilla Miglio – traducendo «in rima e ritmi senza rompere l’aura di queste liriche». Soluzione tutt’altro che facile, viste le scale timbriche, le sottili e preziose nuances, le significanze profonde, non di rado intraducibili, presenti nella lingua – e nella lingua poetica in particolare – tedesca.
Cesello fino, intuizioni folgoranti, lavoro di stile, quelli di Angelini, già manifestati nelle precedenti traduzioni dalle lingue classiche. Solo che qui ha dovuto affrontare una sfida più radicale, alle prese – com’è stato – con una poesia che custodisce il sogno dell’oltretempo, ma nel brivido del tempo, perché è espressione umana che attinge a fonti misteriose, generatrici per magnetismi cosmici di un destino finale che conduce altrove ed eternamente, che dà spazio al sogno, e del sogno scrive, (traducendo, interpretando, creando), per dargli forma e soffio vitale, e per farlo presente, storico, quasi tattile: qui e ora, qui e per sempre.

aldo bello

Vien fuori uno spaccato
del profondo Nord,
dove il tragico gioco
delle parti in conflitto
avviene spesso all’insegna
di invidie e piccole
vendette personali.
 

Oltre il muro

Storie minime di partigiani e repubblichini

Circola un forte senso di rinnovata curiosità verso l’Italia peggiore, quella del periodo 1943-‘45. Peggiore per i drammi prodotti dal crollo improvviso di istituzioni e valori, per le vicende caratterizzate da sopraffazioni e violenze, per l’epilogo tragico e insanguinato che il tramonto del regime fascista ha consegnato all’Italia repubblicana. Vicende consumate nel segno di una normalizzazione purificatrice, giunte sino a noi con le stimmate di antiche e nuove divisioni. Il fiorire di riflessioni saggistiche su questo periodo funesto sta fornendo stimoli fecondi per ridisegnare minute realtà sepolte o affidate solo alla memoria dei vincitori e all’esercizio di nuove militanze ossessive. C’è sete di obiettività impietosa verso un periodo oscuro che può fornire sostanziali contributi alla ricerca storica e alla pacificazione reale. Molte tragedie personali, familiari e collettive attendono chiarificazioni e messe a punto necessarie. Ha fatto da apripista Il sangue dei vinti, di Gianpaolo Pansa. In questo filone di ricerca s’inserisce il saggio di Elvira Graziani sullo zio Alberto Graziani, ultimo prefetto e federale della RSI a Piacenza (Luigi Pellegrini Editore, Cosenza).
Vien fuori uno spaccato del profondo Nord, dove il tragico gioco delle parti in conflitto avviene spesso all’insegna di invidie e piccole vendette personali, di impulsi e moti dell’anima più che di ragionamenti politici, prima d’imboccare contromano, con decisione, i tratti nuovi della storia italiana. Alberto Graziani, nato a Corigliano Calabro nel 1903, svolse con grande passione umana la sua carriera di pubblico funzionario, continuando con coerenza il suo mandato anche nella Repubblica Sociale Italiana. Fu ucciso a Piacenza nel 1945.

Un reparto della X Mas sfila per le strade di Milano, nell’ottobre 1944. - Archivio BPP

Un reparto della X Mas sfila per le strade di Milano, nell’ottobre 1944. - Archivio BPP

Dov’è la vittoria lo sanno tutti, ma i costi sociali e i sacrifici umani del modello persecutorio che realizzò la “grande trasformazione” vanno ricostruiti e rivissuti per rielaborare sentimenti di solidarietà in un Paese dove le forze della contrapposizione continuano a fabbricare divisioni.

Elvira Graziani ha fatto un’operazione ardita. Con aria scanzonata di candida intervistatrice ha ricostruito inediti e significativi spezzoni di umanità. È riuscita a togliere la polvere dagli archivi di soffitta (quando non sono andati bruciati o dispersi) e a sdoganare testimonianze longeve che danno spessore analitico e umano alla figura vitalissima dello zio e suo tramite al contesto sociale e culturale in cui si andava consumando una terribile parabola storica. È riuscita a provare che con determinazione e pazienza si può sfuggire alla lettura monocorde di quegli eventi elaborata dai circoli custodi dell’interpretazione ufficiale.
Tutto ciò è possibile, oggi. Perché una parte del mondo allora trionfante è andata in frantumi, mentre un’altra parte è sgusciata via lasciandosi inglobare nelle vicende trasformistiche che hanno prodotto non poche verginità generazionali. Sono caduti veli e veti, aprendo spazi insperati per nuove riflessioni su un periodo burrascoso della nostra storia.

Nostalgie. Un manifesto dell’Unione combattenti commemora a distanza di anni il cinquantenario della RSI. - Archivio BPP

Nostalgie. Un manifesto dell’Unione combattenti commemora a distanza di anni il cinquantenario della RSI. - Archivio BPP

Lavori come quello della Graziani aiutano a capire come eravamo e spiegano le ragioni recondite delle divisioni che ancora dominano la scena del Paese. Attraverso la vita dello zio ci racconta emozioni personali e familiari e note d’ambiente e di costume che danno alle vicende sfaccettature di nuovo conio, spiegando con chiarezza un teorema capovolto in cui vittima e carnefici vengono accomunati nelle sofferenze di quei giorni tragici e nel recupero del reciproco rispetto.
Portare il pendolo al centro e abbandonare i cortocircuiti intellettuali che fanno vivere sempre sopra le righe è il tacito messaggio dell’Autrice.
Un’operazione difficile da confezionare, per l’inveterata abitudine alle crociate, ai bollettini di guerra, agli antri oscuri, ai silenzi eccellenti. A tutti i fattori di divisione che qualcuno cerca ancora di usare per nuove secessioni che, viste al microscopio, diventano affollate solitudini.

claudio alemanno

   
   
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