Marzo 2010

FIAT E MEZZOGIORNO

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Spoon River Sud

Aldo Bello

 
 
 

 

 

 

 

La Fiat fu?
Tutte le cose
hanno una fine. Quella dell’auto italiana, però, quando verrà,
sarà molto
dolorosa, perché
è stata una parte non secondaria della nostra storia
e della nostra
economia.

 

 

Intorno alla metà degli anni Sessanta, Raymond Cartier, coltissimo caporedattore del settimanale “Paris Match”, selezionata una mole imponente di dati e di informazioni, pubblicò il volume “Le 19 Europe”, sintesi di un’indagine storico-economica condotta nelle nazioni del Vecchio Continente. E nelle pagine dedicate all’Italia, citando fra i centri vitali la maggiore impresa privata che produceva automobili impiegando decine di migliaia di maestranze, saldate da un orgoglioso spirito di appartenenza, scrisse: «Fiat, dal nome mirabile!». Ne percepiva, evidentemente, la forza creativa e quasi sacrale, riassunta nel logo abbagliante inventato in un bar torinese da tre azionisti-fondatori, in seguito ridotti ad uno solo, personaggio dal cognome consegnato alla storia non soltanto economica del Bel Paese: Agnelli.
Anni fervidi, in quel decennio Sessanta. C’era stato uno snobbato Centenario dell’Unità. Era in corso il boom. Il nostro design trionfava ai Saloni di Parigi e di Ginevra. Il capoluogo piemontese attirava un’immigrazione interna caotica e stracciona, fasci muscolari e materia grigia diretti a Corso Marconi, nella casa-madre storica, e negli immediati dintorni occupati dall’indotto, per tradurre in realtà l’antico miraggio di un salario fisso. La concorrenza del Giappone e della Corea era di là da venire. Sulle coste italiane non sbarcavano clandestini, attraccavano gli yacht di Onassis che avrebbe sposato Jacqueline, vedova Kennedy, e dell’Aga Khan che avrebbe inventato uno scacchiere sardo per miliardari nella Costa Smeralda, di Faruk, provvisorio monarca d’Egitto attratto dalla dolce vita di via Veneto, e del re di Svezia appassionato di archeologia etrusca.
Nelle fabbriche dell’Italia del Nord trionfavano il fordismo delle catene automatiche di produzione, che aveva meravigliato persino il marxista Gramsci, e il fascino della tuta blu. Il costo del lavoro era compresso, e la lira veniva da un glorioso Oscar. Frigo e televisore diventavano beni di consumo di massa. Le rimesse interne e dall’estero sostenevano l’edilizia e l’artigianato, e simultaneamente gonfiavano di case anonime le periferie di paesi e città del Sud. Giulio Natta vinceva il Nobel per la chimica. Spuntavano ovunque aziende rampanti. Popoli di formiche mutavano pelle, trasformando dal basso una società fino ad allora provinciale, terricola e passatista.
La Penisola restava anchilosata, con economia dualistica, ma era comunque “in progress”, sia pure con velocità divaricate. Punte di diamante dell’impresa nel Mezzogiorno, i centri siderurgici, petrolchimici e metalmeccanici, di mano pubblica; nel Nord, la meccanica di precisione, l’elettrotecnica, la gomma, l’auto e quant’altro emerso per mano privata, o spacciata per tale. Al vertice della piramide, superbo vanto del Paese e di una grande famiglia, la Fabbrica Italiana Automobili di Torino: l’onnipotente, “mirabile” Fiat.

Quattro decenni più tardi, anno più anno meno, qualcuno scrisse: la Fiat fu. E furono in molti a chiedersi quali fossero stati i motivi di fondo che avevano determinato la parabola declinante, sfociata in una drammatica crisi. Fra tutti, se ne occupò Valerio Castronovo, autorevole storico della Casa torinese. La cui analisi partì dalla metà del ‘98, quando Cesare Romiti aveva lasciato la guida del Gruppo. All’epoca, era stata portata a termine la ristrutturazione dell’azienda, avviata all’indomani della “marcia dei Quarantamila” e attuata col ridimensionamento delle maestranze e con un’ulteriore automazione degli impianti: era stata “risistemata l’Alfa”, nel senso che si erano attuate le premesse per l’annientamento di un marchio che aveva fatto dire a Henry Ford: «Quando passa un’Alfa Romeo, giù il cappello!»; dal ‘94 aveva cominciato a funzionare la “fabbrica integrata” di Melfi; si suffragava il post-fordismo; si ridefiniva la cultura dell’impresa all’insegna della “qualità totale”.
Nell’88 se n’era andato via Vittorio Ghidella, a giudizio di molti il più idoneo a combinare nel modo migliore il sistema di produzione “alla giapponese” con la valorizzazione del capitale umano in termini di maggiore professionalità e partecipazione. Era stato lui l’artefice di un’auto di gran successo (la “Uno”) e di una serie di vetture che avevano rinnovato la filiera della scuderia; e a lui risaliva la paternità sia di un ottimo motore (il “Fire”) sia del progetto per «un nuovo modo di produrre e di vendere» che garantisse «qualità crescente, volumi costanti e costi decrescenti». Dal ‘79 a capo del settore auto, che aveva assicurato rilevanti profitti alla holding (sganciata persino dai banchieri di Gheddafi), Ghidella avrebbe voluto che si creasse una sorta di “Fiat due”, aggregazione sotto un’unica insegna e con la sua esclusiva direzione di tutte le attività inerenti ai motori e al trasporto su gomma, cioè a qualcosa come l’80 per cento del fatturato del Gruppo. Ciò, per dar vita a una mega-impresa in grado di scavalcare Volkswagen e Renault, colossi europei.
Fatale la rotta di collisione con Romiti. Non a caso a Corso Marconi si intendeva sfruttare gli utili della produzione automobilistica per creare una conglomerata di altre sfere di attività e di partecipazioni (chimica, telecomunicazioni, armamenti, assicurazioni, servizi finanziari e immobiliari, terziario avanzato…). La visione “Gruppo-centrica” romitiana ebbe la meglio su quella “Auto-centrica” dell’antagonista sulla base di un calcolo preciso: accrescere posizioni di forza e ascendente della Fiat, che, grazie alle risorse rastrellate e all’aiuto di Mediobanca, avrebbe potuto comprare tutto quel che voleva nell’ambito di un sistema industriale sottocapitalizzato come quello italiano.
Certamente, fu la crisi abbattutasi nel ‘90 sull’impresa-auto di mezzo mondo a scompaginare i disegni espansionistici di Corso Marconi. Va sottolineato tuttavia che le aziende europee, avendo continuato a concentrarsi sul “core business”, erano riuscite a regger meglio l’impatto della recessione. Per Fiat, invece, i contraccolpi furono così pesanti – come disse Umberto Agnelli, in polemica con Romiti – da provocare «cadute della nostra quota auto che non hanno precedenti», e perciò «un livello di redditività operativa forse il più basso nella storia del Gruppo e un ritmo di assorbimento di liquidità impressionante». A quel punto, l’Avvocato tagliò corto: «La festa è finita».

Per riportare l’azienda in carreggiata non furono sufficienti la cassa integrazione di volta in volta sino alla metà degli operai e dei colletti bianchi, con il consueto rastrellamento ad uso assistenzialista della maggior parte degli ammortizzatori sociali teoricamente destinati a tutte le imprese italiane in crisi, né la considerevole riduzione della produzione, né il soccorso delle banche con ampie aperture di credito. Per ricapitalizzare il Gruppo, nel ‘93 si fece ricorso a Mediobanca: in cambio di un intervento risolutivo, Cuccia impose la rinuncia di Umberto Agnelli alla successione al fratello Giovanni e un patto di sindacato vincolante per la famiglia, suscitando l’impressione che l’ammiraglia del capitalismo italiano, da monarchia ereditaria, una volta o l’altra si sarebbe trasformata in una “public company” sotto l’egida di una potente banca d’affari. In realtà, non si espropriò la sovranità degli Agnelli, ma si rafforzarono le prerogative del top management, che mirava alle innovazioni di processo, alla riduzione dei costi di produzione, all’eliminazione delle residue rigidità sindacali in fatto di organizzazione del lavoro, al taglio dei tempi di lavorazione. Strategia, questa, che però comportava l’impegno di ingenti risorse e una gestazione complessa. Di fatto, dopo l’uscita nel ‘94 di otto modelli (tra Fiat, Alfa e Lancia), la progettazione per le categorie minori e medie subì una flessione. E se nel ‘96 e nel ‘97 i conti chiusero con qualche profitto, in buona misura dipese dalla cessione di una società di fondi d’investimento alle Generali, dal piazzamento di un terzo del capitale della New Holland a Wall Street e dagli incentivi (ancora e sempre assistenziali) per la rottamazione.
Il compito che Fresco e Cantarella ereditarono da Romiti era arduo, poiché si doveva conseguire una “soglia di sicurezza” (vale a dire una produzione annua di almeno tre milioni di auto) con un fatturato da realizzare per un terzo in Italia, un altro terzo nel resto d’Europa e un ultimo terzo fuori dal Vecchio Continente. Ciò, in presenza di una forte aggressività nipponica e sud-coreana e di una forte concorrenza tedesca e francese. In breve, vennero al pettine tutti i nodi irrisolti: dal ‘95 in poi la Fiat aveva investito sull’auto molto meno dei principali concorrenti e non si era adeguatamente attrezzata per ampliare la sua presenza sui mercati maturi, sebbene disponesse di marchi nobili, di ottime risorse umane e tecniche, e di una consistente rete distributiva.
A dare il colpo di grazia sopraggiunsero le delusioni subite nell’Est europeo e in America Latina, nell’Africa del Nord e nel Sud-Est asiatico, oltre alle crisi finanziarie in Russia, in Brasile e fra le “Tigri” nell’Oriente Estremo, e oltre alla concorrenza europea, dispiegata con produzioni di auto di piccola cilindrata, le stesse con le quali un giorno la Casa torinese si era aperta i varchi nei mercati planetari. Si spiega così la necessità di alleanze strategiche cercate negli Stati Uniti. E tuttavia in Corso Marconi si erano accumulati tanti e tali fardelli, dovuti ad errori di valutazione e ad incapacità predittive sul piano delle strategie del management, che solo una complessa operazione di salvataggio messa a punto dalle banche evitò il collasso. E a pagare il conto, come al solito, fu lo Stato, cioè i cittadini, e non certo per ragioni di progettazione industriale.
Ebbe inizio da lì il progetto di liquidazione degli impianti di Termini Imerese, che il presidente della Regione Piemonte avrebbe voluto chiuso senza ulteriori perdite di tempo, con la giustificazione che il Dna della Fiat era tutto, storicamente, torinese; dimenticando tuttavia – come precisò il presidente della Regione Sicilia – che «le dimensioni e il ruolo che la Fiat ha conquistato negli ultimi decenni sono il frutto di un processo sociale e imprenditoriale complesso, nel quale ha inciso in modo determinante la risorsa umana e professionale espressa da tante generazioni di lavoratori meridionali». E non solo di muscoli e cervelli meridionali si trattava, ma anche di quattrini a fondo perduto. Tanti, che Cossiga il sassolino, e meglio ancora il macigno dalla scarpa se lo tolse, sostenendo che la Fiat, privatizzando i guadagni e socializzando – cioè scaricando su tutti i cittadini – le perdite, era stata di fatto un’impresa eternamente assistita, al punto che lo Stato poteva comprarla senza esitazione al prezzo simbolico di un solo euro. Ed era stato proprio questo costante assistenzialismo ad impigrire fino all’anoressia progettuale tante imprese italiane di grandi dimensioni, quasi sempre assenti – come asserì Prodi, allora presidente della Commissione europea – quando a Bruxelles si trattava per la realizzazione di importanti opere infrastrutturali e produttive.
Il mortifero pseudo-solidarismo praticato per decenni nel nome di una concezione statolatrica dell’economia aveva finito col mortificare la cultura d’impresa; aveva condizionato ricerca, sviluppo e innovazione; aveva scaricato i costi di una retorica demagogica e balorda sui giovani del Sud, disoccupati strutturali in un territorio in disfacimento sociale che – come si scrisse – si combinava alla perfezione con il potere immarcescibile dei cartelli del crimine.

Nell’agglomerato industriale di Termini la Fiat aveva un peso del 70 per cento. I dipendenti diretti (1.100), più quelli dell’indotto (900), erano la spina dorsale dell’economia di un intero territorio che va da Bagheria alle Madonie e che abbraccia una trentina di Comuni. Tra i 28mila abitanti di Termini, 900 famiglie vivevano di Fiat.
Quando nacque, nel 1970, l’impianto si chiamava Sicilfiat e aveva cominciato con l’assemblaggio dell’ultimo modello della “Cinquecento”. Poi fu la volta della “126” e della “Panda”. Nel momento di massima espansione, gli occupati erano arrivati a 3.500, distribuiti in tre turni. Finita la stagione della Panda, si cominciò con la produzione della “Punto”, durata fino al 2001. Subito dopo, i primi scricchiolii, e nel 2002 la sottoscrizione di un accordo di programma tra Presidenza del Consiglio e Corso Marconi per la riconferma della missione produttiva per Cassino, Mirafiori e Termini. Nel 2005, nuovo accordo, con l’entrata in scena della “Lancia Y”, per una linea di produzione di 350 vetture al giorno.
Nel 2007, un accordo speciale, che riguardava le infrastrutture, finanziate però – per gli antichi vizi della lentocrazia italiana – solo a fine 2009. Nel 2008, varo di un Piano industriale (Piano B), che prevedeva per Termini Imerese la messa in campo – previo cospicuo finanziamento – di 100mila pezzi l’anno, con 250 nuove assunzioni. Ma ad agosto tutto si bloccò, in attesa della disponibilità dei soldi.
Intanto, la politica industriale avviata dall’amministratore delegato Marchionne con l’acquisizione della Chrysler si intrecciava con le criticità dell’impianto isolano. Di lì, nuove polemiche: da una parte, irritazione per le vischiosità burocratiche, dall’altra accuse di sprechi (soprattutto l’acquisto della Bertone) come concausa della mancata riconversione di Termini. I fans del manager italo-canadese sostenevano che un’auto prodotta nell’isola costava 1.000 euro in più rispetto alla stessa vettura sfornata da un altro stabilimento italiano (per le difficoltà dei collegamenti, per la scarsità di indotto…). I ministri dello Sviluppo Economico, del Welfare e dei Trasporti e Infrastrutture ribattevano che lo stabilimento Fiat in Sicilia era strategico, che per questa ragione era stato oggetto di investimenti pubblici significativi, che, infine, era ora che la Fiat per il rilancio di Termini restituisse almeno una piccola parte degli enormi capitali con cui lo Stato italiano l’aveva costantemente foraggiata.
A fronte delle diatribe mediatiche, il progetto del capo del Lingotto prevedeva una serie di piattaforme concrete: Melfi avrebbe prodotto la nuova “Punto” anche per la “sorella” di Detroit; a partire dal 2012 l’ex Bertone – alle porte di Torino – avrebbe tirato fuori le ammiraglie concepite sulle rive del Lago Michigan; a fine 2011 Termini avrebbe chiuso la sua avventura con l’auto. Così la capacità produttiva dei sei conglomerati Fiat presenti in Italia era destinata a scendere del 15 per cento, (da 2,1 a 1,7 milioni di pezzi), livello «non ancora sufficiente, ma gestibile». Incentivi diretti (improbabili) e incentivi alla rottamazione avrebbero potuto forse allontanare questo destino di qualche anno; ma, una volta cantato, il cupo requiem avrebbe investito con conseguenze devastanti gli impianti del Sud.

Arriverà il momento in cui dovremo ribadire: «La Fiat fu?». È vero, tutte le cose hanno una fine. Quella dell’auto italiana, però, quando verrà, sarà particolarmente dolorosa. Perché è stata una parte non secondaria della nostra storia e della nostra economia. E perché è stata preceduta da uno Spoon River nel quale sono culminate altre morti annunciate, anche se in buona parte passate sotto silenzio, o considerate con ingrata indifferenza. Al modo di quella dell’Alfa, di cui abbiamo detto più su. E la cui vicenda è cronaca di un malinconico tramonto.

Il gran cancello, conosciuto dalle fotografie pubblicate in tutto il mondo, è sempre lì, ed è sempre sormontato dal logo “Alfa Romeo”, proprio così, in corsivo. Si fa incontro quasi a sorpresa, nella campagna intorno a Milano, portale abbandonato al nulla da una civiltà estinta. Dentro, le “Giulia” e le “Gtv” una volta pronte a partire per gli autosaloni di mezzo mondo hanno lasciato il posto a distese di asfalto sbrindellato intorno ai vecchi capannoni delle presse, della verniciatura, dell’“abbigliamento e montaggio vetture”. In tutto, una ventina di edifici, tra grandi e mastodontici: ad Arese gli spazi erano immensi, ariosi, e proprio questo accresce il senso di solitudine e di desolazione. Anche se i campi intorno brillano per la serena luce del sole.
Qui, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta lavoravano circa 20mila persone, su un’area che sfiorava i due milioni di metri quadrati. Vi si costruivano circa 500 auto al giorno. Cinque linee di fabbricazione realizzavano da zero l’intera vettura: progettazione, fusioni, assemblaggi, verniciatura e collaudi. In altre parole: da una parte entravano l’alluminio e gli altri materiali, dall’altra venivano fuori 200 “Giulia”, 120 “Gtv” e un’ottantina di “Duetto”... Quotidianamente.
L’Alfa (Anonima lombarda fabbrica automobili), che in realtà era anche “Romeo”, dal cognome dell’ingegnere napoletano trasferitosi a Milano per inventare la vettura allora più bella del mondo, fu creata nel giugno del 1910, dopo che venne rilevata una sfortunata impresa del francese Alexandre Darracq. Il capoluogo lombardo era presente due volte nel marchio: con la croce rossa su fondo bianco, stemma della città; e col biscione visconteo che inghiotte il bambino. La sede originaria era al Portello, periferia urbana occidentale. Oggi, dopo che nel 1986 lo stabilimento chiuse i battenti, non ne rimane quasi nulla. Prima delle ruspe, nel 1977, Gabriele Salvatores riuscì a salvare almeno qualche fotogramma dell’antico conglomerato: la sua opera cyberpunk, “Nirvana”, fu girata proprio in quei capannoni ormai spettrali.
Nel 2009 la casa del Biscione ha venduto meno di 110 mila vetture. Una tristezza. Tant’è che al Salone di Detroit Sergio Marchionne ha alzato la voce: «Basta con le storie gloriose e le cavolate come i richiami a Tazio Nuvolari…». Tanto improvviso scetticismo su questo marchio colpisce. All’indomani dell’annuncio dell’operazione Chrysler, era stato proprio l’amministratore delegato Fiat a presentarlo come l’alfiere della penetrazione italiana negli Usa. Nei momenti più bui, Umberto Agnelli aveva pensato di salvare il salvabile, d’intesa con Vincenzo Maranghi, ancora “dominus” di Mediobanca, mettendo insieme Alfa, Maserati e Ferrari, e lasciando Fiat e Lancia alla General Motors. Come mai, poi, l’Alfa doveva essere ridotta ai minimi termini? E più esplicitamente: come mai neanche la Fiat di Marchionne sapeva dare una prospettiva all’Alfa?

Vale la pena di chiedersi, allora, se la Fiat abbia mai messo in campo un progetto serio per la casa del Portello dove si formò Enzo Ferrari (e non parliamo di Nuvolari…). E la risposta è no. Nel 1986, quando l’Iri la mise in vendita, l’Alfa perdeva molto, ma vendeva ancora 168mila vetture e aveva in serbo il gran progetto della “164”. All’epoca, la Fiat aveva i soldi, ma non la convinzione per farne una “Bmw” italiana: l’aveva comprata solo per evitare che andasse alla Ford. Così, per un quarto di secolo, l’Alfa ha tirato a campare, fino all’esternazione di Detroit.
Marchionne ha dichiarato ufficialmente che i cinque siti produttivi del gruppo Fiat Auto in Italia, compresa cioè Torino, producono 650mila vetture con 22mila addetti, mentre lo stabilimento polacco di Tichy ne fa altrettante, ma con meno di un terzo dei dipendenti, e in Brasile Belo Horizonte – 9.400 persone – ne produce 730mila. Brasile e Polonia utilizzano gli impianti a pieno regime; lavorano su tre turni giornalieri sei giorni su sette. Da noi i turni sono due, niente notturno, e i sabati sono contrattati. A Tichy, inoltre, si produce anche per la Ford. I siti italiani hanno molti problemi logistici e d’altra natura. Ma quel che Marchionne sa e non dice è che il grado di utilizzazione dei nostri impianti è molto inferiore a quello degli impianti esteri, ed è questo che influisce di più sui costi. Per utilizzarli a fondo non serve solo la disponibilità dei sindacati; occorre soprattutto sapere che cosa produrre, in un Paese con costi occidentali, sia pure inferiori a quelli tedeschi. Scopriamo inoltre che i produttori francesi e tedeschi, che sono fra l’altro più globali, hanno una percentuale di dipendenti operativa in patria assai più alta di quella Fiat. Fabbricando modelli a maggior valore aggiunto, se lo possono permettere.
Questo accadeva già prima della pioggia di aiuti di Stato anti-recessione. Che la Fiat non può bollare come negativi in Francia, perché rafforzano le concorrenti Renault e Psa con la bella cifra di 8,5 miliardi di euro, e accettare come ovvii in Usa, perché le consentono di entrare in Chrysler a costo zero. Allora, la Fiat deve aumentare il valore implicito nei suoi modelli. Il trasferimento della produzione della nuova “Panda” da Tichy a Pomigliano d’Arco sembra un primo passo, ma il capo della Fiat lo presenta come un gesto di generosità temeraria. È lo stabilimento campano a preoccupare, oppure la consistenza economica del modello da produrre? Forse, col ritorno in patria, l’Alfa può dare un contributo non inferiore al marchio Fiat. La storia può fare miracoli, se le mani sono adatte. La malandata “Lamborghini”, con Volkswagen, è diventata una macchina da soldi. La “Mini” è tornata grande con Bmw.
È possibile, comunque, che la Fiat pensi di impiegare diversamente le sue risorse. E sarebbe legittimo che facesse perfino dell’arbitraggio sugli aiuti pubblici: Obama ha staccato un assegno di 15 miliardi di dollari per Chrysler; dallo Stato italiano – ha sostenuto Marchionne – sono pervenuti solo 600 milioni di euro di contributi alla ricerca in cinque anni e 800 milioni nel 2009 per le rottamazioni e altro, mentre il bilancio della cassa integrazione tra il 1999 e il 2009 presenta ancora un avanzo per l’Inps di 200 milioni.
Certo, l’amministratore delegato dovrebbe ricordare che i dollari della Casa Bianca hanno fronteggiato un fallimento, mentre Fiat Auto ha avuto l’appoggio delle banche, della stessa Fiat SpA, della famiglia Agnelli e del mercato in misura, alla fine, non inferiore. Per non parlare dei cospicui aiuti pubblici degli anni Novanta. Ma per Marchionne sembra che l’acqua passata proprio non macini più. Bene. Se le cose stanno così come sembra, la Fiat non tenga l’Alfa nel limbo, al mero scopo di evitare concorrenti in casa. Non ripeta l’errore del 1986. La venda.
Arese è più giovane. Nacque nel 1963 perché il Portello non riusciva più a saziare la fame di Alfa Romeo. Erano gli anni d’oro per l’azienda del biscione, che esportava negli Stati Uniti, in Australia, persino nella Germania della “Mercedes” e della “Bmw”. Erano il simbolo degli anni del boom, quei modelli leggendari: icone emblematiche dello stile italiano. E la consacrazione giunse nel 1967 con la spider “Duetto”. Nel film “Il laureato”, Dustin Hoffman la utilizzò a tutto spiano. E le vendite esplosero in tutto il mondo occidentale.
Negli anni Ottanta, il declino. Ristrette le linee di produzione, modelli spostati a Pomigliano d’Arco, dove prima si produceva soltanto l’ “Alfasud”, che l’intera quota di imbecilli fatalmente destinata dal Creatore alle plaghe padane rifiutò di acquistare, per la presenza nel logo del termine “sud”. Gli operai meridionali si videro restringere la fabbrica addosso, e al fenomeno diedero il nome di “arroccamento”: quel che si produceva in due capannoni fu concentrato in uno solo; l’altro fu spento. Un cono d’ombra cominciò a cancellare i profili delle ultime tute blu.
Ad Arese, dei due milioni di metri quadrati, ne sopravvissero legati all’Alfa soltanto 300mila. Ospitavano il Centro Stile, cuore pulsante del design che avrebbe sfornato un gioiello come la “MiTo”, più un piccolo Museo in sei saloni. Fioche anche le loro luci, sebbene i puristi sostengano ancora oggi che in realtà si era fatto buio nel 2003, quando, dopo un lungo crepuscolo, «in un silenzio orribile» venne fermata l’ultima catena di montaggio, in una fabbrica che dal lontano 2000 non assemblava più un’Alfa Romeo.
Viene da lontano, dunque, la storia di Termini Imerese. Viene da un’altra delle manifestazioni vistose di un “male oscuro”, cioè di una sopravvenuta incapacità della classe dirigente di dare agli antichi vertici industriali del “Triangolo” nuovi obiettivi e sfide moderne, e soprattutto di realizzarli.
Non sappiamo che cosa si farà di Termini (e poi di Pomigliano d’Arco? E poi ancora di Melfi? E infine di Cassino?). Sappiamo che per oltre un decennio si sono susseguite ipotesi sempre più velleitarie, sempre meno in grado di misurarsi con credibili progetti industriali. È stata la storia di un naufragio, di un fallimento tanto più grave verificatosi in un’area che è a due passi da FieraMilano City, di fronte alla nuova Fiera di Massimiliano Fuksas, a fianco della futura Expo, a ridosso dell’autostrada e a venti minuti da Malpensa.

Allora nessuno venga a sproloquiare ipocritamente di maggiori costi di un’auto a Termini “per carenza di infrastrutture”. L’Alfa di Arese godeva di una collocazione aurea, che non è servita a salvarla. E oggi si tenta di sfruttarne il marchio con un “Piano Alfa Romeo 2015”, titolo non saprei dire se più tragico o più comico, che contrariamente alle apparenze non accenna neanche minimamente alla produzione di auto.
I sindaci di Garbagnate, di Arese, di Rho e di Lainate parlano di centri commerciali e di villette, ideali per il vicino Golf Club. Il Governatore della Lombardia vorrebbe fare dell’area «un polo della mobilità sostenibile», una cittadella dell’innovazione che coniughi trasporti e ambiente: idea suggestiva, ma senza alcun interlocutore concretamente interessato. Altri hanno proposto un polo logistico, oppure un terminal del porto di Genova. Altri ancora continuano ad illustrare progetti sempre più eterogenei e occasionali…
Intanto, col montare delle polemiche per il numero eccessivo di grossisti cinesi che intasano le strade tra le vie Canonica e Paolo Sarpi, il Comune meneghino aveva pensato di suggerire il trasferimento dei commercianti asiatici là dove era nata la “Gtv6” di James Bond. Ma non se ne è fatto nulla. Infine, l’anno scorso, dopo lo spostamento di migliaia di musulmani dai marciapiedi di fronte al discusso centro islamico di Viale Jenner, si era pensato alla destinazione alternativa di Arese. Come dire, poche idee, ma confuse.
Con la morte annunciata di Arese, la grande storia dell’automobile nel capoluogo lombardo si conclude con gli epicedi di uno Spoon River tecnologico. Nel 1993 scomparve l’“Innocenti”, e gli stabilimenti di via Rubattino per qualche anno vennero utilizzati per la selezione dei rifiuti urbani. Poco più tardi, nel 1995, si ebbe l’epilogo di un’altra epopea, quella dell’“Autobianchi” di Desio.

Per il centenario, si è pensato a una vettura che aveva debuttato al Salone di Torino del 1955 e che nello spazio di un mattino era divenuta celeberrima, la berlina sportiva della borghesia medio-alta, di chi ce l’aveva fatta: la prima “Alfa Romeo popolare”, che brillava per comfort, prestazioni e tecnologia. Si chiamava “Giulietta”, i 53 Cv del suo motore con distribuzione a doppio albero in testa garantivano 136 chilometri l’ora e il cambio a leva sul volante (poi sostituito con quello a cloche), e regalava spazio abitabile fra le poltroncine anteriori, oltre a un gusto particolare nella guida. In serie diverse, era durata fino al 1964, costruita in 132mila esemplari nello storico stabilimento milanese del Portello.
Quella che è venuta fuori ufficialmente dal Salone di Ginevra per le celebrazioni del Centenario dovrebbe essere l’erede della “147”: un tributo ad un gioiello che ha fatto sognare intere generazioni. Avrebbero voluto chiamarla “Milano”, poiché era stato deciso che si tornasse a lavorare fra le mura restaurate che avevano visto nascere la creatura dell’ingegnere Romeo. Poi ha avuto la meglio l’antica denominazione. Perché possono morire e rinascere le fabbriche, fiorire e appassire le tecnologie sempre più sofisticate, prender piede e sfumare design di volta in volta più eleganti e dinamici. Ma sopravvivono comunque i miti e i loro intriganti significati, premesse indispensabili perché si abbia memoria di una magnifica civiltà del lavoro.
È ripensamento, oppure accanimento terapeutico strumentale, vale a dire finalizzato a modi diversi di fare ricorso all’antico (e fallimentare) assistenzialismo di Stato? È del tutto improprio ricordare che per ogni vettura venduta nel nostro Paese il contribuente italiano ci ha rimesso i famosi mille euro, cioè più dell’aggravio di costo per produrre a Termini Imerese? La Fiat, ovviamente, controbatte che l’obiezione è sbagliata, visto che lo Stato poi si rifà con l’Iva, con le tasse di immatricolazione e di circolazione, dimenticando che tutte le altre imprese private italiane non ricevono aiuti comparabili e aspettano non qualche mese, ma fino a tre anni per il pagamento dei crediti vantati verso uno Stato assai meno generoso con loro. Allora, se la Fiat è in credito, perché si deve continuare con gli incentivi pubblici? Non sarebbe meglio restituire ciascuno al proprio mestiere, e a quel punto Viale Marconi sarebbe ancora più libero di produrre dove gli costa meno e dove meglio gli aggrada, concentrato come sarà nei prossimi anni molto di più sul fronte americano della Chrysler da rilanciare, che sui problemi domestici, e peggio ancora, dei siti produttivi meridionali? No, replica Torino. Gli incentivi li adotterà di nuovo mezza Europa, dunque l’Italia sarebbe semplicemente autolesionista se non si comportasse allo stesso modo.
Le cose stanno davvero così? Da quel che il mondo politico fa capire, il governo non farà mancare gli incentivi confermati. A quel punto, il dilemma si ripresenterà: perché francesi e tedeschi gli aiuti li hanno dati, ma hanno nello stesso tempo difeso la produzione nazionale. E come se l’hanno difesa! E i grandi gruppi transalpini dell’auto hanno condiviso la strategia dei governi in fatto di occupazione nazionale. E come se l’hanno condivisa! E non è che produrre in Francia o in Germania costi meno che produrre in Polonia.
Marchionne merita l’ammirazione e il sostegno perché vinca la sfida americana e raggiunga in tre anni i quattro milioni di unità vendute. Ma l’idea di chiedere incentivi pubblici italiani per sostenere produzioni e occupazione statunitensi, senza che si tutelino prioritariamente il lavoro e l’occupazione domestici, chiudendo addirittura le fabbriche del Mezzogiorno, è quantomeno bizzarra. Una volta tanto, valga il detto tribale: prima tu dare cammelli... con quel che segue. Altrimenti, ciascuno cammini con le proprie gambe e tiri dritto per la propria strada.

FIAT SMEMORATA

Anno Euro
1997 120,0
1999 60,4
2000 5,5
2001 40,0
2002 121,0
2003 12,2
2004 12,2
2005 12,2
2006 12,2
2007 23,8
2009 16,0
Totale 435,5

Il presidente del gruppo torinese, Luca Cordero di Montezemolo, ha affermato che dal 2004, cioè da quando è alla guida della Fiat, Corso Marconi non ha ricevuto aiuti pubblici. In realtà gli aiuti, che devono essere autorizzati dall’Unione europea, sono stati elargiti anche dopo quella data. Ecco i fondi che hanno ottenuto l’autorizzazione europea, in milioni di euro, a favore del gruppo dal 1997 al 2009:

A 436 mila ammonta il numero di autovetture vendute in più in Italia nel 2009, grazie alla campagna incentivi. Per l’80 per cento queste auto sono state concentrate nei segmenti A e B, quelli dove è più forte la Fiat.

120 sono stati i milioni di euro che nel 1997 il governo progettò di erogare alla Fiat, a favore di sei stabilimenti: Mirafiori Carrozzeria, Mirafiori Meccanica, Pomigliano, Cassino, Termoli e Rivalta. Non tutti vennero autorizzati dall’Ue.

Aiuti statali erogati per singoli stabilimenti dal 1999 ad oggi

Fiat Auto Torino - 62 milioni. Nel 2004 la capogruppo ha ottenuto gli aiuti statali per la formazione del personale per gli anni 2003-2005.
Comau Torino - 10,6 milioni. Il 13 agosto 2004 la società controllata dalla Fiat ottenne il via libera ai fondi, finalizzandoli alla formazione professionale.
Cassino - 12,1 milioni. L’8 luglio 1999 la Ue chiude la procedura d’infrazione e autorizza l’aiuto allo stabilimento della Fiat Auto.
Termini Imerese - 46 milioni. Il 29 aprile 2009 lo stabilimento siciliano ottiene questa somma per aiuti statali finalizzati alla produzione di un nuovo modello Lancia.
Termoli - 27,9 milioni. Il 29 settembre 1999 la Ue autorizza gli aiuti allo stabilimento nel quale vengono prodotti motori “Fire 16V”. Salvati 500 posti di lavoro.
Foggia - 121 milioni. Il 21 ottobre 2001 l’Iveco riceve gli aiuti che sono destinati alla produzione di una nuova gamma di furgoni leggeri.
Melfi - 40 milioni. Il 28 febbraio 2001 sono autorizzati gli aiuti finalizzati ad adattare la fabbrica alla produzione della Punto.
Pomigliano d’Arco - 20,4 milioni. Per il Progetto Alfa 156 e per un non meglio specificato “modello 937” lo Stato italiano aveva stanziato 30,5 milioni, ma l’Unione europea il 28 luglio 1999 ne ha autorizzato soltanto 20,4.
Un miliardo è costata allo Stato la campagna incentivi 2009. Si tratta della differenza tra i 2 miliardi 28 milioni erogati e 1 miliardo 65 milioni incassato dall’Iva su tutte le vetture vendute.

   
   
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