Marzo 2010

GLI ANTICHI MALI D’ITALIA NELLA STORIA DI CORSO MARCONI

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E l'Avvocato
gettò la spugna

Romano Gamaleri

 
 
 

Ghidella fu il
primo a intuire che il marchio perdeva prestigio perché
le vetture torinesi
costavano ancora troppo, rispetto
alla qualità esibita.

 

 

«Il capitalismo italiano è finito». A pronunciare queste parole, nel 1976, non fu un sindacalista arrabbiato, né un politico d’assalto pronto a seguire i dettami di Marx, ma il principale protagonista della storia industriale dell’epoca, l’Avvocato per antonomasia, Giovanni Agnelli, che di fabbriche Fiat, simbolo del capitalismo privato, in Italia ne aveva molte.

La storia ha smentito questa profezia, che tuttavia testimonia la sensazione di disfatta che si respirava in una Torino stretta tra la morsa degli scioperi e della dura contrapposizione sociale. Questo pessimismo cosmico l’Avvocato lo confidò al giovane Carlo De Benedetti, allora brillante manager, chiamato nel 1976 per avviare il rilancio della Fiat: un compito arduo, in tempi in cui il boom della prima motorizzazione in Italia era tramontato, e in cui le crisi petrolifere cominciavano a preoccupare seriamente i maniaci della cilindrata.

Ma la sfida fu raccolta.

E De Benedetti portò con sé un altro giovane, Giorgio Garuzzo, desideroso di realizzare le prime esperienze manageriali, ma pronto a seguire il suo capo in caso di cambiamenti in azienda. Ma il destino aveva deciso diversamente. De Benedetti aveva chiesto poteri speciali per la ristrutturazione del Lingotto. Agnelli glieli negò, e il manager lasciò l’azienda dopo solo cento giorni. Garuzzo, invece, rimase per altri vent’anni, fino al 1996, ad impostare nuove strategie e nuovi prodotti, e ad annotare un quaderno di bordo diventato poi volume dal titolo Fiat, i segreti di un’epoca, specchio della storia dell’azienda che per tanti versi si identifica anche con la storia italiana.

Partiamo da De Benedetti: della sua permanenza al timone della Fiat e della sua fulminea destituzione si

disse tutto e il contrario di tutto, anche che il giovane rampante fosse pronto a impadronirsi del gruppo automobilistico, tramando per togliere agli Agnelli il controllo azionario. Garuzzo chiarisce, sbaraccando ogni dietrologia: «De Benedetti lasciò la Fiat soltanto per una crisi psicofisica personale, nonostante i successi ottenuti e la vittoria che si stava delineando». Dunque, nessun complotto.

Il manager, anzi, era sul punto di mettere in piedi nuovi progetti per irrobustire una Fiat infiacchita dalla mancanza di idee. Un esempio fu la “Panda”: l’utilitaria simbolo degli anni Ottanta nacque da un lampo di genio dell’Ingegnere di Ivrea. Ma questo non fu sufficiente. E Garuzzo si trovò solo, confermato nel suo incarico. La Fiat sopravvisse, anzi trovò le forze per ruggire ancora sui mercati internazionali: un rilancio favorito dal lavoro sotterraneo di tecnici d’eccezione, i cui meriti sono stati sempre poco riecheggiati oltre le pareti del Lingotto.

Ed è forse in quei momenti che si trovano i germi della malattia, vale a dire della scarsa competitività che ancora oggi attanaglia l’impresa italiana, frutto di una concentrazione eccessiva sulla finanza e di pochi investimenti sulla ricerca. L’autore individua uno dei principali responsabili di questo filone di pensiero in Enrico Cuccia, patron assoluto di Mediobanca, secondo il quale «il know-how è una merce che si compra come le altre». Concetto pericolosamente sbagliato. L’intelligenza, trent’anni dopo, è l’unica variabile che distingue un Paese avanzato da uno meno sviluppato.

Il dirigente cita l’esempio del “Robogate” di una delle aziende-satellite dell’universo industriale torinese: un sistema di costruzione di automobili completamente automatizzato. Una normalità oggi, ma allora portatore di una vera e propria rivoluzione copernicana nell’organizzazione lavorativa della fabbrica. E questo, nonostante gli assalti ideologici («No alle macchine che sostituiscono l’uomo»), il Robogate è il padre di tutti i moderni sistemi produttivi: un esempio della genialità italica, solo tardivamente riconosciuta.

La sfida del rilancio di Fiat Auto venne raccolta da un altro uomo che avrebbe fatto la storia dell’automobile italiana: Vittorio Ghidella. Il quale fu il primo a intuire come la causa della perdita di prestigio del marchio era dovuta essenzialmente al fatto che le vetture torinesi costavano ancora troppo, rispetto alla qualità esibita. Il controllo dei costi divenne una delle più importanti leve d’azione.

Fu sua l’idea di introdurre aumenti bloccati ai fornitori di componenti secondo la formula 0-5-11. Che significava: nessun aumento nel primo quadrimestre, 5 per cento il secondo, e l’11 per cento, rispetto all’iniziale zero, nel terzo. Una scoppola per le aziende dell’indotto, abituate a scaricare sul Lingotto i costi galoppanti di quegli anni, ma un freno forte alle perdite che alla fine si accumulavano sul bilancio della Fiat. E poi la formidabile spinta all’automazione della produzione. Forse anche eccessiva, se è vero che Paolo Cantarella, anche lui sul ponte di comando del Lingotto, lamentava che la forte standardizzazione delle fiancate della “Tipo” utilizzate in altri modelli originava generosi scricchiolii, non proprio apprezzati dalla clientela.

Eppure, la cura Ghidella funzionò perfettamente. E Torino riprese la sua centralità nel panorama mondiale dell’automobile. Ma anche lui, alla fine, pagò la scelta di far prevalere l’anima finanziaria del Gruppo su quella industriale.

Allora lasciò. E non per sua volontà, ma per ordine di Cesare Romiti, il vero dominatore della Fiat, colui il quale per anni, secondo Garuzzo, fece e disfece l’organigramma della plancia del gruppo torinese. Il ritratto che ne fa l’autore è implacabile. Romiti tronfio e votato solo al potere. Romiti capace solo di ingratitudine, al punto da considerare un nemico Ghidella, che stava realizzando un nuovo ciclo positivo dell’azienda, e pronto a metterlo alla porta proprio nel momento in cui i frutti di quel lavoro stavano maturando.

Poi è la volta dello stesso Garuzzo, anche lui messo in disparte, con continue azioni volte a privarlo di spazi e a togliergli potere. Oggi, si parlerebbe di mobbing. E tutto finalizzato a un disegno che avrebbe dovuto portarlo a rimanere unico erede di un impero, nel momento in cui l’Avvocato stava meditando di passare la mano al fratello Umberto. Ma Romiti non riuscì nell’intento. Garuzzo, intanto, lasciò, ma per togliersi poi molti sassolini dalla scarpa, con un libro per tanti versi rivelatore.

La Fiat in Salento

Cronistoria di una regressione

Le date di partenza: costituzione della Società, 13 giugno 1970; inizio attività produzione, 1 giugno 1972; prima macchina prodotta (un FL14), luglio 1972; denominazione dell’azienda, Fiat Macchine Movimento Terra; zona di insediamento, Area industriale di Lecce, dalle parti di Surbo, distante 8 km. circa dal capoluogo; successiva evoluzione societaria in Fiat Allis Macchine Movimento Terra, stabilimento operativo dal primo gennaio 1974, all’epoca il più grande d’Europa nel settore. I dati di questo “gigante tra gli ulivi”: superficie dello stabilimento, 782mila metri quadrati (152mila coperti, 120mila dei quali per la sola officina); superficie complessiva occupata, 430mila metri quadrati, (284mila dei quali per viabilità interna, parcheggi e depositi); costo dell’iniziativa, 13 miliardi di lire; investimento totale, 40 miliardi di lire. Il sogno salentino della tuta blu e dell’impiego e salario fissi era stato avviato con un organico di 388 unità e con una produzione di 412 macchine. Correva l’anno ’74, quando si raggiunse il numero di macchine più alto (6.174); correva l’anno ’79, quando gli organici registrarono il numero di addetti mai più toccato (2.058).

Alterne le vicende successive: periodi di stabilità alternati a periodi di crisi (di mercato, di settore, della stessa azienda costretta a far ricorso a ripetute ristrutturazioni...), emergenze di varia natura, alti e bassi nelle produzioni, ricorsi alla cassa integrazione, e continui cambiamenti societari, alla ricerca di un definitivo assetto produttivo.

In sintesi, un percorso irto di ostacoli, di volta in volta superati per la tenace volontà di non abbandonare una partita aperta nel nome di una pacifica aggressione del Sud con l’ingresso, e in seguito con la difesa, delle “fabbriche senza ciminiere” e con la creazione di scacchieri industriali (soprattutto metalmeccanici) che sconfiggessero l’arretratezza dell’arcaico mondo contadino del Salento e del Sud, terre sempre più impoverite dalle espulsioni demografiche e dalla forza propulsiva endogena scarsa o addirittura inesistente.

Da tutto questo, la sequenza delle cronache sofferte di una lenta ma inesorabile regressione, visibile al modo di un flash back senza soluzione di continuità: nel giugno 1981, dalle ceneri di Fiat Allis M.M.T. emerse Fiat Allis Europe, che il primo gennaio 1988 si trasformò in Fiat Geotech, diventata a sua volta, il primo gennaio 1993, e soltanto per dodici mesi, FH Construction Equipment. Un’ulteriore mutazione societaria, infatti, si ebbe il primo gennaio 1994, quando nacque Fiat Hitachi Excavators, che operò per poco più di otto anni e mezzo, prima di convertire ancora una volta il nome, il primo luglio 2002, in CNH Movimento Terra, approdata infine, dal primo gennaio 2004, dopo un complessivo rinnovamento tecnologico e ambientale, e dopo un’ulteriore ristrutturazione aziendale, alla ragione sociale CNH Italia (Case New Holland Italia)...

   
   
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