Marzo 2010

TERMINI IMERESE E OLTRE

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La Fiat. E il futuro

L. Bod.

 
 
 

 

 

 

La parola d’ordine delle élites è
dimenticare
il Mezzogiorno.
Anche per questo, non solo alla
Sicilia, ma a tutto il Sud serve una scossa, non è
più tempo di
questuare altra inutile spesa
pubblica.

 

 

Nello Wrona

Lasciando chiudere Termini Imerese, Roma creerebbe un’opportunità straordinaria: quella di cambiare, sperabilmente per sempre, le modalità dell’interazione tra Fiat e politica nel nostro Paese. L’impresa torinese non è molto amata da parte del governo, e questo è noto. Le ragioni sono facilmente comprensibili. I ceti sociali che sostengono la maggioranza nel Nord sono in larga misura l’“anti-Fiat” per antonomasia: commercianti, artigiani, professionisti, lavoratori e imprenditori cresciuti senza protezioni politiche, che magari hanno ricevuto loro pure, a vario titolo, qualche “aiutino”; ma a cui, da sempre, sembra innaturale e ingiusto che il ciclope di Torino assorba come una spugna risorse provenienti dai portafogli di tutti i contribuenti.
La storia della Fiat, c’è poco da girarci intorno, è la storia dell’Italia. Ed essendo stata e rimasta l’unica grande azienda privata, per l’oltre mezzo secolo tra Fascismo e Prima Repubblica, in cui la stragrande maggioranza delle grandi imprese finiva direttamente o indirettamente sotto il controllo pubblico, è stata impegnata in modo forsennato in scambi politici con il potere romano. Con le dimensioni viene un cospicuo potere negoziale.
La minaccia di lasciare a casa un gran numero di lavoratori era temuta da chi stava al governo, che riteneva di avere sempre da perdere dal disagio sociale. Il fatto che l’Italia fosse una democrazia bloccata, in cui l’opzione dell’alternanza semplicemente non era disponibile, aveva reso ancora più forte la posizione di Fiat. Lo aveva esplicitato, quasi come una sfida, l’Avvocato Agnelli, quando aveva sostenuto che quel che era bene per la Fiat, era bene per l’Italia.
Per la storia e per la cronaca: nei suoi stabilimenti aveva le radici il sindacato italiano, e nei suoi stabilimenti andava combattuta la battaglia per il contenimento del Pci e, in alcuni momenti, anche del terrorismo.

Insomma, i suoi privilegi vengono da lontano, e si spiegano alla luce della storia politica del nostro Paese. Si spiegano, non si giustificano. Perché, come sempre, la protezione pubblica è stata avvelenata: schermando per anni e anni Fiat dalla concorrenza, ne ha fatto un’impresa anchilosata, incapace di reggere l’urto della globalizzazione.

Il turn around di Torino degli ultimi anni ha del miracoloso, e in parte è dovuto proprio a quel lento sfilacciarsi della relazione privilegiata col Palazzo che si è andata determinando con la Seconda Repubblica. La chiusura di Termini Imerese può essere l’ultimo, o uno degli ultimi atti di quella storia, con la restituzione di Fiat alla normalità del rischio e del mercato, dove è stata riportata dalla sua attuale leadership.

Ora, però, la politica dominante, che ha con Torino anche un rapporto conflittuale, deve giocare una vecchia partita: evitare emorragie di occupazione nel brevissimo periodo in territori difficili (Sicilia, forse anche Campania), significa impegnarsi in una serie di scambi, senza dimenticarsi di rinfacciare a chi di dovere che è tempo di saldare i debiti. È una strategia credibile? Lo Stato non è azionista di Fiat, e non è possibile considerarlo tale a fronte dei sussidi stanziati in passato. L’argomento che Fiat non sarebbe riuscita a tirare avanti senza aiuti pubblici è solo in parte persuasivo: quegli aiuti non ne hanno sostenuto lo sviluppo, le hanno solo consentito di andare avanti per troppi anni senza rimuovere le sacche di inefficienza al suo interno.

Il compromesso di una vendita agevolata dello stabilimento di Termini a qualche altra impresa può essere la quadratura del cerchio. Marchionne dice che Fiat, rifiutando gli incentivi, produrrà 350mila vetture in meno. Vuol dire che in passato l’assenza di altri imprenditori del settore nel nostro Paese è stato il frutto di decenni di protezionismo; ma, specularmente, che fra poco lo spazio per concorrenti ci sarà.

E qui siamo al paradosso. Accettando che Termini muoia di morte annunciata, oppure cercando un compratore straniero, il governo è costretto comunque ad abbandonare l’approccio protezionista. Ma non lo si può fare, senza accettare che Fiat oggi è un’impresa privata che cerca di competere in un mercato difficile, caratterizzato da una crisi da eccesso di capacità produttiva (crisi che investe anche i produttori giapponesi), nel quale tutte le case automobilistiche del mondo dovranno drasticamente ristrutturarsi. Ostacolare questo processo non vorrà dire proteggere l’occupazione, ma indebolirla ancora di più, nel medio periodo.
E a questo punto si innesta il discorso sulla situazione nelle regioni del Sud, abbandonato da molte fabbriche senza ciminiere. È stato scritto che se ci fosse uno spot che descrivesse l’approccio dell’Italia al suo Sud, sarebbe: basta non guardare. Perché oggi la parola d’ordine delle élites è “dimenticare il Mezzogiorno”. Da sette anni consecutivi il Prodotto interno lordo del Meridione cresce meno di quello del Centro-Nord. È la prima volta dal dopoguerra. Anche per questo non solo alla Sicilia, ma a tutto il Sud serve una scossa. Non è più tempo di questuare altra (inutile) spesa pubblica: il futuro del Sud non dipenderà certo dall’esito di qualche battaglia di retroguardia per strappare al governo un finanziamento in più. La via da seguire è tutt’altra: concentrare l’attenzione non sulle risorse pubbliche, ma su quelle private. Con scelte coraggiose, decise, inedite, per attrarre capitali, per promuovere imprenditorialità, per far nascere un circuito sociale virtuoso.
La scossa di cui il Sud ha bisogno è, in realtà, una massiccia iniezione di libertà economica. Possibile – sostanzialmente a costo zero – con alcune misure “traumatiche”, ma salutari. La prima, fondamentale e preliminare a tutte le altre, è l’abolizione degli incentivi pubblici alle imprese: 4 miliardi di euro che ogni anno, in media, sono destinati agli imprenditori che operano a Sud. Soldi buttati. Al loro posto, la creazione di una “No tax area” meridionale avrebbe lo stesso costo per l’erario, ma effetti incredibilmente diversi. La “No tax area”, come è noto, presenta più di un rischio di incompatibilità con le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato: il placetdi Bruxelles è conquistabile solo al prezzo di una battaglia politica dura. Ma i governi italiani (di centro-destra o di centro-sinistra) sono sempre apparsi timidi e impacciati, quasi rinunciatari.

Eppure, oggi non mancano argomenti solidi perché l’Europa riconosca l’eccezione italiana. Il Mezzogiorno è la regione depressa più estesa e più popolosa dell’area euro, e i documenti interni della Commissione europea ascrivono proprio alla condizione del Sud d’Italia il fallimento complessivo delle politiche comunitarie di coesione.
Oltre alla “No tax area”, sono necessarie (e praticabili) altre cinque misure per la rinascita del Sud: la creazione di una “corsia preferenziale nazionale” che salti i veti incrociati delle burocrazie locali e favorisca la realizzazione di grandi progetti d’investimento per far decollare il turismo di qualità nelle aree meridionali; l’abolizione delle tasse universitarie per giovani meridionali che frequentino con profitto facoltà scientifiche; l’applicazione di una maggiore flessibilità normativa nei contratti di lavoro; il commissariamento e l’ineleggibilità automatici per punire gli amministratori locali responsabili di gravi deficit di bilancio; la creazione di task forces di manager pubblici a livello nazionale per il Sud, un po’ sul modello della prima Cassa per il Mezzogiorno.

Abbiamo superato da poco il ventesimo anniversario della riunificazione della Germania. Alla fine del 1989 Helmut Kohl si trovò di fronte alla parte orientale ridotta più o meno come oggi il nostro Sud. E decise di legare la sua storia politica (e i bilanci pubblici del suo Paese) a un compito immane: parificare le condizioni dell’Est a quelle dell’Ovest. Oggi quell’obiettivo è stato in gran parte raggiunto: la Germania ex Orientale ha più che dimezzato il gapdi ricchezza rispetto al resto del Paese. Quale maledizione impedisce che la storia tedesca possa ripetersi in un altro angolo così importante dell’Europa unita?

   
   
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