Marzo 2010

TALENTO E INNOVAZIONE

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Le idee forti del capitalismo

Edmund S. Phelps

Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

Innovazione.
Un individuo
che lavora da solo non può
facilmente creare il continuo flusso di nuove sfide. Serve un villaggio! O preferibilmente un’intera società.

 

 

Le questioni che gravitano attorno al capitalismo, oggi, riguardano l’ampio spettro delle conseguenze del suo alto dinamismo. Il maggior beneficio di un’economia innovativa è comunemente considerato essere un più alto livello di produttività – e quindi, in generale, più ore lavorate e una migliore qualità della vita. C’è una grande verità, in questa considerazione, a dispetto di tutti i distinguo che si possono fare.
Una gran parte dell’impressionante crescita della produttività cui il mondo ha assistito dagli anni Venti ad oggi può essere ricondotta ai nuovi prodotti commerciali e alle nuove strategie d’impresa sviluppate e lanciate in economie che, tanto o poco, potevano essere considerate relativamente capitalistiche. Lungo la strada c’è stato da fare anche per gli ingegneri, ma il processo è stato guidato da imprenditori. C’è tuttavia almeno un distinguo al quale bisogna dare risposta. Non è che la produttività sia finalmente arrivata al punto in cui, dopo un secolo e mezzo di rapida crescita, avere ancora un altro anno di crescita sarebbe di valore trascurabile? D.H. Lawrence, scrivendo di Benjamin Franklin, parlava della «missione che non finisce mai» dell’America. Quale che sia la risposta, tuttavia, è importante notare che gli avanzamenti in produttività, che generalmente fanno crescere i salari, danno la possibilità a persone a basso salario di evitare lavori tediosi, usuranti o pericolosi, per svolgere un lavoro più interessante e formativo.
Certamente, i livelli di produttività in Paesi relativamente piccoli dovranno sempre di più alle innovazioni sviluppate altrove che a quelle che è stato possibile sviluppare colà. Di fatto, la maggior parte delle economie continentali, incluse le più grandi, si è accontentata di veleggiare sottovento ad alcune altre economie che invece fanno la parte del leone, nelle innovazioni del mondo. Il rimpianto economista di Harvard, Zvi Griliches, ha commentato con approvazione che, così facendo, gli europei dimostrano di essere «davvero svegli».

Io ho una prospettiva differente. Da una parte, è un buon affare essere una forza innovativa nella “economia globale”. La globalizzazione ha diminuito l’importanza della scala così come della distanza. Nella minuscola Danimarca il mondo è subito a portata di mano: essa può aprire gli occhi sui mercati degli Stati Uniti, dell’Unione europea e ovunque. L’Islanda è entrata nel settore bancario e biogenetico europeo. La Francia fa tutto questo da molto tempo – e potrebbe farlo ancora di più. Gli Stati Uniti sono evidentemente di già nel business dell’innovazione globale.
Voglio anche enfatizzare però quello che tra i benefici del dinamismo mi sembra essere il più importante. Istituzionalizzare un alto livello di dinamismo, così che l’economia sia infiammata dalle nuove idee degli imprenditori, serve anche a trasformare il posto di lavoro nelle imprese che sviluppano innovazione e anche nelle imprese che, per esteso, hanno a che fare con le innovazioni. Le sfide che sorgono dallo sviluppare una nuova idea e nel garantire la sua buona ricezione da parte del mercato danno alla forza-lavoro elevati livelli di stimolazione mentale, la capacità di risolvere problemi e dunque conferiscono al singolo lavoratore un senso d’impegno e crescita personale. Si deve ricordare che un individuo che lavori da solo non può facilmente creare il continuo flusso di nuove sfide. Serve un villaggio! O preferibilmente un’intera società.

L’idea che la gente abbia bisogno di sviluppo intellettuale e capacità di risolvere problemi ebbe origine in Europa: tornano alla mente Aristotele, che scrive dello “sviluppo dei talenti”, quindi il rinascimentale Benvenuto Cellini che si illumina per i traguardi raggiunti, e il grande Cervantes che evoca vitalità e cambiamento. Nel Ventesimo secolo, Alfred Marshall ha osservato che il lavoro è nei pensieri del lavoratore per gran parte del giorno. E Gunnar Myrdal nel 1933 scrisse che presto sarebbe venuto il tempo in cui più soddisfazione sarebbe arrivata dal lavoro che dal consumo.
Questa visione, talvolta chiamata vitalismo, è ora fortemente associata alla scuola del pragmatismo filosofico fondata dall’americano William James, alla quale appartenevano Henri Bergson in Francia e John Dewey negli Stati Uniti. Lo psicologo americano Abraham Maslow ha parlato di realizzazione di sé – così come John Rawls utilizza il termine “autorealizzazione” – per riferirsi all’emergente capacità di dominare un mestiere da parte di una persona, svelando pian piano il proprio obiettivo. L’applicazione americana di questa prospettiva aristotelica è la tesi secondo cui la maggior parte dell’autorealizzazione nelle nostre società, se non tutta, può venire soltanto dalla carriera.

Una spettrale immagine della Centrale di Cerano, in provincia di Brindisi, all'alba.

Donato Antonaci Dell'Abate www.arteinsalento.it

Oggi non possiamo partire alla volta dei mulini a vento, ma possiamo intraprendere le sfide di una carriera. Se una carriera ricca di sfide non è la migliore speranza per l’autorealizzazione, che cosa può esserlo? Persino per essere una buona madre, aiuta il fatto di avere esperienza di un lavoro fuori casa. Quindi, un alto dinamismo tende a portare una prosperità economica pervasiva all’economia, costruendo su aumenti della produttività e su tutto questo processo di autorealizzazione. È vero, si tratta di un processo che può non raggiungere il suo picco ogni mese o anno. Esattamente come l’artista non crea tutto il tempo, ma semmai in alcuni determinati episodi e “stacchi”, così l’economia dinamica ha una volatilità ad alta frequenza e può attraversare ampie turbolenze. Forse però questa volatilità non è solamente normale, ma fa bene anche alla creatività.

   
   
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