Marzo 2010

 

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Era il padre
dei moderni studi economici

D.M.B

 
 
 

 

 

 

È scomparso proprio nel momento in cui il mondo aveva più bisogno di lui. Paul Anthony Samuelson era l’ultimo grande teorico del XX secolo, lo studioso che aveva riconciliato l’economia liberista con quella keynesiana. Se nell’ultimo anno abbiamo potuto evitare il precipizio di una Seconda Grande Depressione, è stato grazie alla sua Sintesi Neoclassica, che ha convinto i governi ad evitare il protezionismo per difendere i propri mercati, ad abbattere i tassi di interesse fino al livello zero, a non accrescere la pressione fiscale e a proteggere l’occupazione. Queste misure, impensabili prima, si sono rivelate indispensabili durante la recessione. Ed è bene che il mondo venga a sapere che chi ha contrastato positivamente una nuova, terribile catastrofe non è stata Wall Street, come non sono stati i presidenti della Federal Reserve, o i Governatori delle Banche centrali occidentali, ma l’ultimo grande, autentico genio della scienza economica, colui che, al modo di Keynes o di Smith, ha trascorso la vita a studiare, ad analizzare e a prevedere i fenomeni economici dal suo osservatorio accademico al Mit.

Ci ha dimostrato che l’economia è soltanto uno strumento a servizio del bene dell’umanità, e che come tale dobbiamo usarla.

È dovuta a lui la scoperta del “Ciclo economico”, successione di eventi che comportano benessere e depressione. E fu proprio l’ineluttabilità della loro alternanza a spingerlo a prestare attenzione all’una e all’altra fase. Sostenne che l’economia, a differenza di quanto affermavano i classici, non può incentrarsi su una costante espansione, perché un’idea del genere è utopica ed estremamente pericolosa. In nome di questa convinzione, negli anni Sessanta del secolo scorso, iniziò a criticare l’amico e collega Milton Friedman. E tra i due prese l’avvio un antagonismo intellettuale che riassumeva il confronto politico che caratterizzava l’America dell’ultimo mezzo secolo. Samuelson era voce liberal tanto quanto Friedman era voce conservatrice. Il primo diventò consigliere di Kennedy e vinse il Nobel nel ’70, il secondo fu osannato da Reagan e ricevette lo stesso Premio nel ’76.
A differenza di Friedman, Samuelson era fermamente convinto che l’economia fosse una scienza sociale a portata di tutti, e non avesse alcuna intenzione di chiudersi in una torre d’avorio. Nel 1948 aveva scritto il testo considerato la Bibbia del settore: “Economics” è il titolo originario del libro, diventato ben presto il più famoso nel mondo. Tradotto in ventisei lingue, venne definito da Newsweek «la lingua franca dell’economia». Non a torto. Ancora oggi negli atenei del villaggio globale se ne vendono non meno di cinquantamila copie all’anno.
Samuelson va rivalutato anche perché appartiene a una generazione di economisti ormai quasi del tutto estinta, anche se ha formato il fior fiore degli economisti (e Premi Nobel) contemporanei, da Stiglitz a Krugman. La sua teoria di fondo, come abbiamo detto, concilia gli insegnamenti dei classici, e quindi la libertà di movimento del mercato, e quelli keynesiani e persino marxisti, dove nei momenti di contrazione economica l’intervento dello Stato e la critica del sistema capitalista vanno a braccetto. Fu una teoria sviluppata proprio durante gli anni più duri della Depressione. Nell’estate del 1935, quando studiava ad Harvard, rifletteva su come venire a capo della disoccupazione dilagante negli States.
E queste riflessioni dolorose rimasero un punto fermo per tutta la sua vita: i governi non possono ignorare questo indicatore – affermava – sia nei momenti di crescita, che nel corso delle grandi contrazioni economiche. Lo Stato è al servizio del cittadino e il lavoro è un diritto.
Insomma, lo si potrebbe definire un “economista umano”, anche se si deve a lui l’introduzione della matematica nell’economia, con la conseguente applicazione delle rigide regole tecniche a questa scienza sociale. Tra i suoi allievi – va ricordato a proposito – c’erano anche Robert Merton e il Nobel Myron Scholes, inventore, insieme a Fisher Black, della celeberrima formula che calcola il rischio dell’opzione, la madre di tutti i derivati.
Aveva insegnato a milioni di studenti, aveva aiutato tutti coloro i quali volevano proseguire nella ricerca, era rimasto splendidamente umile. Lontano dai dogmi ideologici, ci ha dimostrato che da Smith fino agli econometrici e ai modernissimi l’economia è soltanto uno strumento a servizio del bene dell’umanità, e che come tale dobbiamo usarla. Lui sicuramente lo ha fatto.

   
   
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