Marzo 2010

LEZIONI DALLA CRISI

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Per uscire dalla palude

Joseph E. Stiglitz

Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

 

 


I
costi di una
inflazione blanda sono minuscoli, se paragonati ai costi provocati dalle bolle speculative che le Banche
centrali hanno
lasciato crescere in modo
incontrollato.

 

 

Dario Carrozzini

La cosa migliore che si può dire del 2009 è che avrebbe potuto essere peggiore, che siamo riusciti a tirarci indietro dall’orlo dell’abisso sul quale sembravamo sospesi alla fine del 2008, e che il 2010 sarà quasi con certezza migliore per la più gran parte dei Paesi. Il mondo ha fatto tesoro di alcuni insegnamenti preziosi, anche se a caro prezzo per quel che riguarda la prosperità attuale e futura (inutilmente caro, dal momento che sono cose che avremmo già dovuto apprendere).
Il primo insegnamento da trarre è che il mercato non si corregge da sé. Anzi, senza un’adeguata regolamentazione, è incline all’eccesso. Nel 2009 abbiamo visto ancora una volta per quale motivo la “mano invisibile” di Adam Smith spesso appare invisibile: perché non c’è. Il perseguimento del proprio interesse personale (della propria cupidigia) da parte dei banchieri non ha determinato il benessere della società; non ha giovato neanche ai loro azionisti e ai loro obbligazionisti.
Certamente, non ha fatto gli interessi di chi rischia di perdere la casa, di chi ha perso il lavoro, di chi ha visto svanire i propri fondi pensione o di chi, come contribuente, ha pagato centinaia di miliardi di dollari per salvare le banche. Sotto lo spauracchio del collasso dell’intero sistema, la rete di sicurezza – concepita per aiutare i meno fortunati ad affrontare le necessità della vita – è stata generosamente estesa alle banche commerciali, quindi alle banche d’affari, alle compagnie di assicurazioni, alle aziende automobilistiche, perfino agli autonoleggi. Mai prima d’ora così tante persone avevano trasferito così tanto denaro a così poche persone.

Siamo abituati a pensare che il governo trasferisca denaro dai ricchi ai poveri. In questo caso sono stati i poveri e la classe media a trasferire denaro ai ricchi. I contribuenti, già gravati pesantemente dalle tasse, hanno visto i loro soldi – che sarebbero dovuti servire ad aiutare le banche ad erogare prestiti per favorire la ripresa economica – usati per pagare bonus e dividendi colossali. I dividendi dovrebbero essere in funzione dei profitti; in questo caso erano semplicemente in funzione della munificenza pubblica.
La giustificazione era che soccorrere le banche, per quanto in maniera caotica, avrebbe consentito il rilancio del credito, cosa che non è avvenuta. È successo semplicemente che il contribuente medio ha regalato soldi a quegli stessi istituti che per anni lo hanno defraudato, con prestiti a tassi esorbitanti, tassi di interesse da usura sulle carte di credito e commissioni poco trasparenti.
Il bailout(salvataggio) ha messo in luce la profonda ipocrisia diffusa. Coloro i quali in passato predicavano il rigore dei conti pubblici quando si trattava di finanziare i modesti programmi di assistenza per i meno abbienti, ora chiedevano a gran voce il programma di assistenza più cospicuo del mondo. Coloro i quali decantavano le virtù di “trasparenza” del libero mercato avevano finito per creare sistemi finanziari talmente poco trasparenti, che le banche non riuscivano a raccapezzarsi nemmeno nel proprio bilancio. E poi anche il governo è stato indotto a impegnarsi in forme di salvataggio finanziario sempre meno trasparenti, per nascondere le sue elargizioni alle banche. Coloro i quali esaltavano la “rendi contabilità” e la “responsabilità”, ora chiedevano l’azzeramento del debito per il settore finanziario.
Il secondo importante insegnamento da trarre riguarda il motivo per cui spesso i mercati non funzionano come ci si aspetterebbe. Sono molte le ragioni dei fallimenti del mercato. In questo caso, le società finanziarie “troppo-grandi-per-fallire” avevano incentivi perversi: se le loro scommesse si rivelavano vincenti, si portavano a casa i profitti; se si rivelavano perdenti, pagavano i contribuenti.
Inoltre, quando l’informazione è parziale, spesso il mercato non funziona bene, e nella finanza l’incompletezza delle informazioni gioca un ruolo cruciale. Le esternalità sono dilaganti: il fallimento di una banca ha imposto dei costi alle altre banche, e il fallimento del sistema finanziario ha riversato i propri costi sui contribuenti e sui lavoratori di tutto quanto il mondo.
Il terzo insegnamento da trarre è che le politiche keynesiane funzionano. Quei Paesi, come l’Australia, che hanno implementato per tempo programmi di stimolo all’economia intelligenti e ad ampio raggio sono usciti dalla crisi più in fretta. Altri Paesi hanno ceduto alla vecchia ortodossia strombazzata dagli stregoni della finanza che ci hanno infilato in questo pasticcio.
Ogni volta che un’economia entra in recessione arriva il deficit, perché il gettito fiscale scende più velocemente della spesa. La vecchia ortodossia prevedeva che ridurre il disavanzo – aumentando le tasse o tagliando le spese – fosse necessario per “ripristinare la fiducia”. Ma queste politiche hanno quasi sempre portato a una riduzione della domanda complessiva, spingendo l’economia verso una recessione più profonda e indebolendo ulteriormente la fiducia (l’ultimo esempio risale agli anni Novanta del secolo scorso, quando il Fondo monetario internazionale insistette a portare avanti queste politiche nel Sud-Est asiatico).
Il quarto insegnamento da tenere in considerazione è che la politica monetaria è qualcosa di più della semplice lotta all’inflazione. L’eccessiva attenzione all’inflazione denotava la scarsa conoscenza che alcune Banche centrali avevano dei propri mercati finanziari. I costi di un’inflazione blanda sono minuscoli, se paragonati ai costi provocati dalle bolle speculative che le Banche centrali hanno lasciato crescere in modo incontrollato.
Il quinto e ultimo insegnamento da trarre è che non tutte le innovazioni portano a un’economia più efficiente e produttiva (e tantomeno ad una società migliore). Gli incentivi privati contano, e se non sono in linea con i risultati sociali si può determinare una situazione di eccessiva assunzione di rischio, comportamento decisamente miope e innovazione distorta. Ad esempio, mentre i vantaggi di molte delle innovazioni dell’ingegneria finanziaria degli ultimi anni sono difficilmente dimostrabili, e soprattutto quantificabili, i costi collegati – sia economici che sociali – sono evidenti ed enormi.

In realtà, l’ingegneria finanziaria non ha creato prodotti che possano aiutare il cittadino comune a gestire il semplice rischio della proprietà di una casa, con il risultato che milioni di persone hanno perso la casa, e altri milioni probabilmente faranno la stessa fine. Al contrario, l’innovazione ha mirato a perfezionare lo sfruttamento dei meno istruiti e ad aggirare i parametri di regolamentazione e di contabilità predisposti per rendere il mercato più efficiente e stabile. Di conseguenza, i mercati finanziari, che dovrebbero essere in grado di gestire il rischio e distribuire il capitale in maniera efficiente, hanno creato rischi e distribuito il capitale in maniera disastrosa.
Presto scopriremo se abbiamo imparato le lezioni di questa crisi meglio di quello che avremmo dovuto fare in occasione delle crisi precedenti. Ma se gli Stati Uniti e gli altri Paesi industrializzati avanzati nel 2010 non faranno progressi ben più consistenti sulle riforme del settore finanziario, potremmo avere un’altra occasione per impararle.

   
   
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