Marzo 2010

OMBRE CINESI SUL MONDO

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La posta in gioco

Giorgio S. Frankel

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

Moneta globale.
La crescente
identità di vedute tra Cina, Russia, Brasile e altri
Paesi in merito
al dollaro potrebbe essere il primo
collante di una coalizione globale che in futuro
potrebbe
contrapporsi agli Stati Uniti.

 

 

Due hostess in uno stand fieristico di Hong Kong.

Claudio Cagnazzo

Già verso la fine della Seconda guerra mondiale, il grande economista britannico John Maynard Keynes propose, per il dopo-guerra, un ordine monetario basato su una nuova moneta effettivamente mondiale, il “bancor”. Ma, alla storica conferenza di Bretton Woods (1944) prevalse il modello proposto dagli americani, cioè il “Gold Exchange Standard” fondato sulla convertibilità in oro dei dollari detenuti dalle Banche centrali al di fuori degli Stati Uniti, e l’istituzione di cambi fissi tra le altre monete e il dollaro, che diventava la moneta dominante del nuovo sistema internazionale, sia pure affiancata per alcuni anni dalla sterlina britannica.
Più recentemente, nel 2000, l’ex presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti, Paul A. Volcker, scrisse, in un articolo, che l’economia globale richiedeva ormai una moneta effettivamente globale. Pochi anni dopo, l’economista Robert A. Mundell, Premio Nobel per l’Economia (1999), propose un suo piano per realizzare una moneta globale entro il 2040, passando attraverso la tappa intermedia di una nuova unità di conto denominata “dey”, perché formata dall’unione di dollaro, euro e yen giapponese. Oggi, in seguito alla crisi globale, sono soprattutto la Cina, la Russia e altre potenze economiche emergenti ad auspicare la creazione di una moneta globale.
Negli ultimi tempi, poi, l’indebolimento del dollaro e il precario stato dell’economia americana, oltre naturalmente alla crisi planetaria, hanno sollevato grandi apprensioni nel mondo e crescente scetticismo circa la possibilità che la divisa statunitense sia in grado di svolgere sul lungo termine, in modo soddisfacente, il ruolo di moneta internazionale de facto che le è stato fin qui riconosciuto. In più, c’è un processo storico di fondo cui l’opinione pubblica occidentale non sembra voler prestare la dovuta attenzione, e cioè il fatto che il baricentro dell’economia globale si sposta decisamente verso l’Asia – il che, a sua volta, comporta a livello globale un trasferimento di ricchezza e di potere economico (ma non solo economico) che non ha precedenti nella storia moderna.
Inoltre, da tempo, varie potenze economiche, tra cui la Russia, il Brasile e soprattutto la Cina, chiedono una riforma del sistema monetario internazionale in vista della futura creazione di una moneta mondiale. In particolare, i dirigenti cinesi hanno intensificato nell’ultimo anno, e con toni sempre più affermativi, le loro prese di posizione sull’argomento, anche in occasione di importanti assise internazionali, quali le riunioni del G20 a Londra (2009) e del G8 all’Aquila (luglio 2009).
E proprio nel marzo 2009, in vista del G20, il Governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, pubblicò un importante saggio economico su cosa fare per riformare il sistema monetario internazionale. Le proposte cinesi riscossero favorevoli commenti da parte di esponenti delle Nazioni Unite, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, oltre che dalla Russia e da alcune potenze emergenti, ma nessuna attenzione da parte delle potenze occidentali. Prima del G20 londinese il presidente americano Barack Obama tagliò corto, affermando di non vedere perché mai il dollaro dovesse essere sostituito come moneta internazionale. E il premier britannico Gordon Brown optò per toni decisamente aggressivi verso la Cina, affermando che il summit di Londra aveva «cose ben più importanti e urgenti da discutere, che non la futura sostituzione del dollaro».
Dopo il G8, dove i cinesi avevano riproposto la questione del sistema monetario internazionale, lo stesso Gordon Brown, dimenticando forse di essere a capo di una potenza ormai decaduta, disse ai giornalisti di non ricordare che qualcuno, all’Aquila, avesse parlato di dollaro e di sistema monetario internazionale, e se qualcuno lo aveva fatto, lui, Brown, non se n’era neppure accorto. Il che, forse, può darci la misura del livello qualitativo delle leadership occidentali di oggi.
Henry A. Kissinger, celebre Segretario di Stato americano (tra l’altro fu l’artefice del clamoroso avvio del dialogo tra Usa e Cina nel 1971), ha criticato, in un articolo apparso sul Washington Postnell’agosto 2009, la scarsa attenzione che gli americani hanno prestato ai segnali che vengono dalla Cina: «La proposta del Governatore della Banca centrale cinese di creare in modo graduale una moneta internazionale in alternativa [all’attuale sistema] riappare in così tante occasioni, e la Cina ha una consuetudine così affermata di perseguire con grande pazienza i suoi obiettivi, che sarebbe il caso di considerarla con serietà. Se vogliamo evitare una deriva verso politiche di contrapposizione è necessario aumentare l’influenza della Cina nel processo decisionale relativo all’economia globale».
I problemi di Pechino col dollaro sono numerosi. Sul piano puramente economico, la Cina ha accumulato le più ingenti riserve valutarie del mondo, per un valore complessivo equivalente a circa 2.100 miliardi di dollari. Una cifra davvero astronomica. Il problema è che queste riserve, per un valore di 1.500 miliardi di dollari, sono proprio in dollari, compresi Buoni del Tesoro americani per circa 800 miliardi. Il potere d’acquisto di queste immense ricchezze rischia di assottigliarsi se il dollaro continua il suo declino. D’altra parte, la Cina, se vuole diversificare le sue riserve valutarie, deve procedere con grande prudenza, per non provocare a sua volta ulteriori indebolimenti del dollaro.
In breve, il valore di gran parte delle riserve valutarie cinesi sfugge al controllo di Pechino ed è ostaggio della politica di Washington, che potrebbe presto diventare ostile verso la Cina. Ecco dunque l’interesse della Cina, e di molti altri Paesi che non fanno parte della sfera economica, politica e strategica del potere occidentale, a riformare il sistema monetario internazionale, oggi troppo orientato a favore del mondo occidentale, per realizzarne uno più genuinamente globale anche nella sua gestione.
Su un piano più propriamente politico, la Cina, coi suoi sempre più frequenti appelli a una riforma del sistema, segnala agli Stati Uniti che essa esige di essere tenuta in maggiore considerazione, vuole ristabilire i rapporti bilaterali su una base di maggiore parità, e in caso contrario è anche pronta ad affrontare gli Stati Uniti sul fronte finanziario e monetario. Un altro segnale rivolto alle potenze occidentali è che devono lasciare spazio alle nuove potenze economiche emergenti. Tutto ciò può rafforzare il prestigio e l’influenza della Cina presso queste potenze emergenti in Asia, Africa e America Latina. In questo ambito, i ripetuti appelli alla riforma del sistema monetario internazionale diventano una sorta di “parola d’ordine” con la quale un Paese emergente afferma implicitamente la sua disponibilità a seguire la leadership cinese.
In linea generale, la crescente identità di vedute tra Cina, Russia, Brasile e altri Paesi in merito al dollaro e alla moneta internazionale potrebbe essere il primo collante quasi ideologico di una nuova coalizione globale che in futuro potrebbe contrapporsi agli Stati Uniti.
Per la “svolta epocale” che sancirà i nuovi assetti globali, i tempi in gioco potrebbero essere di 10-20 anni, non includendo per ora la possibile creazione di una moneta effettivamente globale, che potrebbe richiedere tempi più lunghi. Tuttavia, il tramonto del dollaro sembra un processo già decisamente avviato e riconosciuto (anche se non si può ancora dare per certo che esso sia ormai irreversibile) e quindi bisogna pensare che esso condizioni già in vario modo la politica delle potenze mondiali, per cui le cose potrebbero presto procedere più in fretta di quanto si possa oggi prevedere.
La posta in gioco in questo processo sarà, detto in due parole, il potere globale. Si può quindi prevedere che esso comporterà anche gravi contrasti internazionali, pericolose competizioni strategiche, destabilizzazioni di alcuni Paesi e conflitti in alcune regioni, soprattutto in Medio Oriente, ma anche in Africa e in America Latina. In un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, il contrasto di fondo sarà tra Cina e Stati Uniti.

La “svolta” non sarà improvvisa, ma si dipanerà in una sequenza di importanti colpi di scena. Un passaggio chiave, più o meno obbligato, sarà un “aggiornamento” della composizione dei Diritti Speciali di Prelievo (Dsp; in inglese, Special Drawing Rights, N.d.R.), il “paniere” di valute usato come unità di conto dal Fondo monetario internazionale e oggi formato da quattro valute: dollaro (44%), euro (34%), yen (11%), sterlina britannica (11%). Nell’ultimo anno, la Cina ha proposto un maggiore impiego dei Dsp, fino a farne una quasi-moneta internazionale. Gli “aggiornamenti” della composizione dei Dspe dei pesi percentuali delle valute che ne fanno parte sono ogni cinque anni. Il prossimo è in questo 2010, ma forse non ci saranno grandi variazioni. Quello successivo, nel 2015, potrebbe essere clamoroso e tale da preannunciare future novità ancor più drastiche a livello globale: è infatti possibile che, per quella data, la moneta cinese – il renminbi o yuan – abbia le carte in regola per entrare nel “paniere” del FMI. Tuttavia, le vicende dei Dspnon sono tali da colpire l’immaginazione dell’opinione pubblica. In Occidente, gli eventuali cambiamenti nella struttura dei Dsp, con l’introduzione di nuove valute, tra cui il renminbi, saranno forse presentati come semplici “aggiustamenti tecnici”, in modo da non allarmare.
Lo shock verrà quando le potenze petrolifere ed economiche del mondo si accorderanno per fissare i prezzi del petrolio non più in dollari, ma in una nuova apposita unità di conto basata su un “paniere” di monete che meglio rifletta la realtà dei rapporti commerciali, finanziari e altro tra Paesi esportatori e Paesi importatori di greggio. Questa eventualità è uno dei problemi che oggi maggiormente preoccupano gli americani.
In un articolo per l’Indipendent di Londra, Robert Fisk, celebre giornalista e scrittore britannico, esperto di questioni mediorientali, ha parlato di una serie di colloqui segreti tra Cina, Russia, Giappone, Paesi Arabi del Golfo e Francia per concordare una strategia che dovrebbe portare, entro una decina di anni, alla creazione di un “paniere” monetario per i pagamenti petroliferi in sostituzione del dollaro. In un editoriale a commento dell’articolo, l’Indipendent osserva che la proposta di istituire una nuova unità di conto per il petrolio, benché basata su considerazioni finanziarie, «riflette anche un nuovo ordine economico mondiale».

L’economia mondiale del petrolio (e del gas naturale) è denominata in dollari; i prezzi del greggio sono espressi in dollari; le forniture sono fatturate in dollari, e in dollari sono pagate. Così, i Paesi importatori di petrolio acquistano dollari sul mercato mondiale per pagare i Paesi esportatori di petrolio. Perché questa enorme massa di dollari sia disponibile è necessario un ingente deficit delle partite correnti degli Stati Uniti.
In effetti, gli americani importano beni e servizi e in cambio esportano, tra l’altro, anche solo carta (moneta), che non viene poi usata per quello che è – cioè un titolo di credito sull’economia americana – ma come moneta internazionale in una vasta gamma di transazioni tra Paesi terzi, tra cui l’import-export di petrolio, oltre che come valuta di riserva. Infine, alcuni Paesi petroliferi con ingenti riserve valutarie, in primo luogo l’Arabia Saudita, depositano gran parte dei loro “petrodollari” in banche americane. Una significativa quota di quei dollari viene poi investita in Buoni del Tesoro degli Usa. Per l’Arabia Saudita tutto ciò equivale, in parte, al pagamento di un premio per assicurarsi il sostegno politico e strategico degli Stati Uniti.
È il caso di ricordare che, ai tempi dello shock petrolifero del 1973-‘74, uno dei maggiori problemi dei Paesi petroliferi era quello di proteggere il potere d’acquisto dei loro petrodollari a fronte dell’inflazione mondiale e soprattutto del calo di valore del dollaro, già allora in precarie condizioni, (tra l’altro, il 15 agosto 1971 l’Amministrazione Nixon aveva abolito la possibilità, per le Banche centrali di Paesi terzi, di presentare dollari alla Riserva Federale americana e convertirli in oro in base alla parità, fissata a Bretton Woods, di 35 dollari per oncia di oro fino). Già allora si propose di quotare il greggio in Dpso in altre unità di conto. Ma, su pressante richiesta degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita impose il sistema basato sul dollaro.
Oggi il problema di molti esportatori di greggio è che incassano dollari, ma gran parte delle loro importazioni sono fatturate in monete come l’euro e lo yen, che si sono apprezzate nei confronti del dollaro. Per molti versi, il problema odierno è simile a quello dei primi anni Settanta, con la differenza che allora non c’era alternativa al dollaro e gli Stati Uniti dominavano la scena economica mondiale. Oggi non più. Certamente il dollaro non può essere sostituito da oggi all’indomani come petro-monetae tanto meno come moneta internazionale. Ma lo scenario sembra destinato a cambiare radicalmente entro una decina di anni, e anche meno, con lo sviluppo dell’impiego dell’euro come moneta internazionale, la promozione del rublo, la possibile unione monetaria dei Paesi Arabi del Golfo, l’incipiente internazionalizzazione del renminbi e il rafforzamento della cooperazione monetaria in Asia.

   
   
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