Marzo 2010

MOSSE A SPARIGLIO E RIFORME FANTASMA

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“Caudillos”
e caroselli tribali

Claudio Alemanno

 
 
 

 

 

 

Si discute
di riforme in
un Paese bloccato, mentre il Signor Qualunque
continua a vivere la sua solitudine arrangiandosi in apnea, vittima
di una nevrosi
politica e
istituzionale
di lungo corso.

 

 

Si sa, accademici e giornalisti seminano parole. Ma quando si accostano alle riforme istituzionali danno la sensazione di essere un esercito allo sbando. Non basta una diplomazia di velluto o una regia di successo per dare lustro a pallide virtù costituenti. Le riforme non si fecero con la Bicamerale, quando un dialogo balbettato faceva intravedere un sodalizio bipartisan curiale. Adesso si replica in un contesto degradato e culturalmente impoverito. Nella lunga odissea s’incontrano riforme approvate (il federalismo fiscale varato nel 2001 con la modifica costituzionale del titolo V), riforme tentate (Giustizia, Camera, Senato, scudo processuale per le quattro cariche più alte dello Stato), riforme accantonate (Statuto di semplificazione per la libertà d’impresa), riforme “non pensate” (partiti, sindacati).
Val la pena dissotterrare un po’ del nostro passato costituente per ragioni di continuità storica, per ripercorrere le garanzie democratiche faticosamente conquistate con un sistema complessivo di pesi e contrappesi, per avere un’idea di disegno globale sempre alla base di un ordine costituzionale o di sue modificazioni. Di solito, queste si rendono necessarie quando le sollecitazioni della modernità vengono coniugate con sentimenti di nuova legalità.
John Marshall, presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti (1801-35) sosteneva che «una norma costituzionale è fatta per durare nel tempo, ma richiede adattamenti in ragione delle varie crisi che affliggono le relazioni umane». Quindi la forza motrice delle riforme è data dai mutamenti che intervengono nel corpo sociale. Cosa diversa dalle esigenze della partitocrazia, da una sensibilità politica non coincidente con mature istanze collettive nel solco delle tradizioni del costituzionalismo liberale.
Tornando all’Italia, registriamo una visione parziale e particolaristica dei problemi, un interesse per casualità contingenti più che per progetti organici ponderati. Se a questa estrema semplificazione si aggiunge un grado elevato di lassismo morale i richiami storici diventano quanto mai opportuni. Abbiamo perciò rispolverato i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente del 1948. Una lettura di qualità e di grande attualità che ci sentiamo di consigliare ai politici impegnati su questo fronte.

Nello Wrona

Una proposta interessante fu formulata, ad esempio, nella Prima Sottocommissione che ne discusse il 20 novembre 1946. Aveva la seguente formulazione: «Il diritto all’organizzazione dei cittadini al fine della partecipazione alla vita politica dello Stato, della presentazione dei candidati per le elezioni alle cariche costituzionali dello Stato, e di quelle altre attività pubbliche che richiedono l’intervento dei partiti e di altri enti è attribuito a quelle associazioni le quali ne richiedano il riconoscimento, rendano pubblici i loro statuti e bilanci, e si sottopongano al controllo di apposito organo costituzionale, diretto ad assicurare l’osservanza di un metodo democratico di organizzazione e di funzionamento nel senso che sarà fissato dalla legge».
Una proposta ancora inevasa. Una legge mai varata, di grande rilevanza costituzionale perché tocca le relazioni tra i partiti e i cittadini, i doveri di trasparenza e gli organi di controllo dell’organizzazione politica.
Criteri di opportunità vorrebbero che anche alle organizzazioni sindacali venisse richiesto, oltre alla registrazione che costituisce condizione per la stipula dei contratti collettivi, un impegno maggiore nei doveri di pubblicità, arricchendo i contenuti del rapporto libertà-organizzazione sindacale oggi particolarmente compromessi con la polverizzazione degli interessi associativi. Anche gli strumenti di lotta sembrano sfuggire di mano alle centrali sindacali, introducendo segnali allarmanti di anarchia nei rapporti tra il sindacato e l’impresa.
Sul fronte parlamentare, rileviamo che le riforme prospettate non introducono correttivi per scoraggiare la “cultura” disgregatrice dell’emendamento così come non prestano alcuna attenzione agli spazi esigui di potere riservati all’opposizione (si era pensato ad uno Statuto dell’opposizione, ora accantonato).
Siamo nel bel mezzo di una savana dove tutto è piatto e stucchevole, dove i caudillos gli assemblatori di newsaccentuano la divaricazione tra dire e fare. In un magma costituito da socialisti scismatici e comunisti eretici, da cattolici non papisti e laici fondamentalisti, è difficile trovare nuove stelle polari. È difficile pensare alle riforme con cielo azzurro e soluzioni ragionevoli, a progetti organici studiati nel contesto naturale di un’Assemblea Costituente.
Scomparsi i partiti di massa e i loro apparati, la circolazione delle idee è diventata monopolio della Rete e dei salotti televisivi, dove passa di tutto, con accenti più estremisti che riformisti. Non essendoci più filtri capaci di mantenere un adeguato tessuto connettivo tra società civile e società politica, tutto si trasforma e si scompone nel propagarsi di cellule-partito, microcosmi di affari e clientele che hanno scarso interesse per l’unità del Paese e per i valori nazionali che qualificano una matrice identitaria.
Deposte le armi ideologiche, i libri sacri e i libretti rossi si battono per conquistare spazi di potere nelle istituzioni. Determinando un crepuscolo strisciante in una società che chiede un arretramento della politica, più virtù istituzionali, più mercato, più legalità, più etica pubblica, più leadership in sintonia con i bisogni della gente. Non è un problema di riforme condivise o maggioritarie, di distinguo tra Costituzione formale e sostanziale, di valenza primaria del voto popolare nella configurazione del premierato. Si tratta di stare sulle cose, di valutare nel merito effetti e proiezioni dei singoli progetti, se producono più unità o più sfascio, se danno al Paese un assetto più centralista o più liberale, se assicurano una gestione politica più snella e semplificata, se assegnano alle istituzioni margini maggiori o minori di autonomia.
Di riforme utili può parlare se riducono la dicotomia pubblico/privato, se restituiscono efficienza complessiva all’organizzazione sociale, se riescono a intercettare e governare le dinamiche collettive, se riescono a coniugare eguaglianza e conoscenza, legalità e solidarietà, merito e bisogno, se ampliano la sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Riforme organiche, dunque, caratterizzate da un grado elevato di legittimazione etica, adottate per evitare che il marasma attuale si trasformi in una deriva plebiscitaria che consegnerebbe il futuro al passato. Un chiaro impegno costituente.

Forse proponiamo un “sentire le cose” che ha gusti rétro. Adesso prevalgono la dialettica nominalistica e la bufera delle emergenze frastagliate. I pochi tentativi giunti a buon fine non offrono segnali incoraggianti. L’ultimo viene dal pianeta Giustizia. L’introduzione nel nostro codice della class action (il pensiero va a Ralph Nader, mitico inventore della class action americana) ha riservato l’ennesima delusione. Pensata (per sei anni) per agevolare consumatori e risparmiatori, offrendo loro la possibilità di utilizzare un’azione collettiva per la tutela di diritti “identici”, propone una casistica ricca di sofismi e distinguo all’italiana. Di fatto, vale solo nei confronti delle imprese private. Non vale per la Pubblica Amministrazione. Se si propone una class action contro un’Amministrazione inefficiente si può chiedere solo che cessi l’inefficienza. Niente sanzioni, niente risarcimento. Se l’Amministrazione non ottempera, si dà comunicazione all’Authority “antifannulloni”. Vale poco per i concessionari di pubblici servizi (Rai, Ferrovie) e per le Aziende di servizio pubblico (gas, luce, acqua, telefoni, trasporti). Viene riconosciuto al danneggiato quanto previsto dalla Carta dei servizi dell’azienda. Come dire, il biglietto dell’autobus. Il Signor Qualunque continua ad esser trattato come un pollo spennato controvento.
Dopo anni di attesa per riforme strutturali, ci è sembrato doveroso fare questi rilievi di contenuto e di clima, in un momento dominato dall’idea che i problemi reali vadano “disossati” e lasciati alla corrosione del tempo, mentre il presente va gestito con il verbo dettato dal “catechismo politichese”. Senza alcuna visione strategica, senza solide garanzie per l’equilibrio dei poteri che per Tocqueville e per noi restano sempre in bilico tra democrazia liberale e dispotismo democratico.
Cosa dobbiamo aspettarci dopo il susseguirsi di scontri istituzionali senza vincitori, dopo il caotico sfilacciamento dell’esperienza bipolare? Nessuno può dirlo, perché sul Paese gravano due grosse incognite: come evolverà la società politica e quale sarà l’esito del conflitto tra i capitalismi che si fronteggiano nelle banche, nell’editoria, nelle telecomunicazioni, nello sbarco TV su Internet, nell’impiego della fibra ottica e della banda superlarga. Tanti macro e micro conflitti che tengono oggettivamente sospesa l’evoluzione del sistema. Molti tendono a scomporre le due questioni. Noi siamo convinti della loro intima connessione, l’evoluzione del capitalismo e quella della democrazia marciano sempre di pari passo.

Si discute di riforme in un Paese bloccato, mentre il Signor Qualunque continua a vivere la sua solitudine arrangiandosi in apnea, vittima e non protagonista di una nevrosi politico-istituzionale di lungo corso. I nostri occhi hanno visto svanire molti sogni, mentre crescono i segnali di un inquietante separatismo, l’amarezza per valori condivisi scaduti o sbiaditi, la forbice immobilismo-precarietà. Siamo tutti esposti alle “polveri sottili” ovunque si posino, istituzioni, famiglie, imprese.
Nella memoria collettiva resta poco del chiasso procurato dalla spettacolarizzazione dei conflitti istituzionali. Lasciano invece il segno le “riforme dell’orto”, quelle portate avanti in silenzio dalle famiglie e dalle imprese che resistono e ristrutturano utilizzando l’antico modello adattivo. Non si può sostare a lungo su marciapiedi di gomma, in attesa di riforme che restano tra parentesi. Il revival che va in scena in questi giorni porterà poco o nulla per la debolezza intrinseca dei negoziatori. Divisi all’interno, diventano protagonisti incerti e poco affidabili. Restano i muri nella testa. Se si usa il martello, bisogna aspettarsi che dall’altra parte ci siano i chiodi.
Più che di dialogo, si tratta di monologhi blindati, di omelie della politica pronunciate con la logica del flirt “fila e fondi”. Su regole di sistema che non possono essere adottate con semplici richiami al patriottismo costituzionale di cui non c’è traccia nel Paese. Su regole di sistema pensate per preservare l’unità nazionale, mentre sul versante del costume si esalta l’uso del dialetto per dare forza ai localismi. In era di globalizzazione, altre lingue risultano ben attrezzate per la comunicazione globale (inglese, spagnolo), mentre noi congeliamo la nostra comunicazione, imbalsamiamo l’italiano e sollecitiamo la ghettizzazione delle parlate locali. Paradossi di un’Italia spaccata che si preferisce non vedere.
Avremmo bisogno di strateghi, mentre ci toccano in sorte manovratori con grandi difficoltà di manovra.
Un senso di identità fortemente degradato e un’obbligata frequentazione di letture e ambienti che hanno smarrito il senso della storia ci riportano alla memoria il mondo di Ulrich, il personaggio centrale dell’Uomo senza qualità, di Robert Musil: uno spaccato splendido della decadente borghesia austriaca degli anni 1913-‘14, assimilabile alla fittissima nebbia che avvolge la nostra quotidianità.
Volendo mettere le cose in fila, le riforme utili restano in sala d’aspetto, mentre il trasversale sentire della gente prova chiari e vibranti sentimenti unitari solo per le undici maglie azzurre e una partita di calcio. Le luci della ribalta illuminano sempre nervi scoperti, normative inadeguate, Superego autarchici, mentre resta sospesa nell’aria una domanda cruciale: potremo mai costruire nel Belpaese un’identità senza colonialismi.

   
   
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