Marzo 2010

IL CORSIVO

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Memorie
dal nostro sottosuolo

Aldo Bello

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le foto di questo contributo provengono dai fondi documentali del Museo Etnografico “Arte In” di Tricase (Lecce).

Si ringrazia il direttore del Museo, Donato Antonaci Dell’Abate, per il prezioso aiuto fornito nella selezione del materiale fotografico.

 

 

 

 

 

 

 

«La pronipote dell’eroe dei due mondi, Ana Maria de Jesus, figlia di Ricciotti Garibaldi e di Costanza, sostiene che in famiglia la spiegavano così: “Il bisnonno a Teano non ci è andato proprio, nemmeno a dormire. Aveva passato la notte alla taverna Catena, di Vairano, si era alzato presto e, invece di partire, aveva deciso di aspettare Vittorio Emanuele. Quando arrivò, il bisnonno non scese da cavallo e gli disse: – Maestà, vi porto l’Italia –. Per la verità lo disse in francese perché lui era di Nizza e nel regno sabaudo l’italiano era poco comune...”.
Secondo alcuni, Vittorio Emanuele non andò oltre uno striminzito: – Grazie –. Dopo qualche centinaio di metri, racconta Alberto Mario, piemontesi e garibaldini, che si erano mescolati, si separarono (…). Garibaldi chiese al re l’onore di partecipare con i suoi uomini all’assalto delle ultime postazioni borboniche, ma Vittorio Emanuele rifiutò asciuttamente (…). Non si dissero altro. Il re invitò Garibaldi a colazione e questi rispose, mentendo, che aveva già mangiato e si congedò (…). Quattro chilometri più in là, si fermò davanti alla chiesetta di un villaggio, chiese del pane e lo masticò seduto su uno scalino con gli altri suoi luogotenenti intorno (…). Verso sera il Generalissimo si lasciò andare a un commento sconsolato…: – Ci hanno messo alla coda –. Adesso che non servivano più, i volontari erano in liquidazione».

Da Maledetti Savoia, di Lorenzo Del Boca


«Lunedì aprirà il cantiere di Quarto, sul litorale di Genova, da dove partirono i Mille il 5 maggio 1860. Con uno stanziamento di 600 mila euro, lo storico scoglio smetterà di essere circondato da un mega-parcheggio, verrà interamente pavimentato e diventerà lo sfondo di un memoriale con i nomi dei mille protagonisti incisi. E quindi partiranno gli altri interventi sui 300 “luoghi della memoria” che costituiranno l’intelaiatura del progetto».

Paolo Conti, Corriere della Sera, 2 febbraio 2010


«Esempio di lotta al brigantaggio dell’esercito dei Savoia. Catanzaro, 13 luglio 1869. Il Comandante la zona militare annuncia con telegramma l’uccisione del “brigante” Domenico Palma: “Ill.mo Generale Sacchi, la testa di Palma mi giunse ieri al giorno verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito, e chieggio a Lei se vuole che la porti così per farla imbalsamare, non essendo capace nessuno di fare tale operazione. Nel caso affermativo me lo faccia prontamente sapere. Si sono fatte delle fotografie della testa e se riescono bene gliene spedirò un certo numero. Colonnello Milon”. Ho riportato questo scritto solo per confermare un vecchio luogo comune: non esistono “santi liberatori” in questa terra».

Alberto Savio, La Stampa, 4 novembre 2001


«Ma [ad opera dei rivoltosi di Bronte, n.d.r.] il peggio venne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto dalla folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di trascinarsi a finire nel mondezzaio gridandogli: – Neddu! Neddu! –. Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono, si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e gliel’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia con le mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre... – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia...».

Da Libertà, di Giovanni Verga

 

«Si sono condannati a morte colla fucilazione anche alle spalle (il che è contro la legge) individui volontariamente presentati. Si sono condannati a morte i minori arrestati non nell’atto dell’azione, non in conflagrazione; si sono passati per le armi individui non punibili per brigantaggio, ma semplicemente colpevoli di reati comuni, usurpando il potere alla magistratura ordinaria. Senza che il Guardasigilli se ne prendesse pensiero... si sono condannate per manutengole di briganti con complicità di primo grado le mogli dei briganti ai ferri a vita e le figlie minori dei dodici anni a 10 o 15 anni di pena...».

Da Atti ufficiali della Camera, numero 734

«Sono un emigrante calabrese e non sarò mai italiano perché (...) un Paese unito deve dare pari opportunità ai suoi cittadini, quindi non può far pagare l’università al nordista 1.300 euro e al meridionale 300, ma non può neanche costruire scuole elementari con palestre e sale computer al Nord e mettere gli alunni al Sud nei magazzini. Non sarò mai un italiano perché sono stufo delle fesserie che raccontano i politici di questo Paese, bisogna separarsi, ritornare a prima del 1861. Il Sud ne guadagnerà sicuramente, non so il Nord... Basta con l’assistenzialismo che ci ha tolto la voglia di fare, anche perché i soldi dell’assistenzialismo tornano di conseguenza al Nord, i piemontesi lo hanno inventato per questo. Tra tutte le cose che vorrei dire mi limito ad un suggerimento: leggo che per i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità hanno stanziato un po’ di milioni per Torino, sarebbe più giusto utilizzarli per risarcire i cittadini di Pontelandolfo e di Casalduni».

Antonio De Luca, Libero, 26 luglio 2009


«In una lettera (...) il signor Carlisi di Udine, commentando i fatti inerenti ai diplomi falsi dispensati da alcuni istituti meridionali, si chiede, maliziosamente, se agli insegnanti che si prestavano a questo gioco verrà tolto il punteggio illecitamente acquisito, col quale poi “migliorare la propria posizione in graduatoria e chiedere anche l’inserimento nelle graduatorie del Nord”. Non credo sia necessario avere le mani in pasta per sapere che chi agisce in tal modo, lo fa proprio perché non vuole fare la pur giusta gavetta, né reputo un segno di partigianeria campanilistica far notare che lo scempio dell’Italia di Dante e di Pirandello non è stato compiuto da meridionali, ma da una classe dirigente che ha rapinato le nostre ricchezze a man bassa: l’ultima trovata, lo scudo fiscale, in barba ad ogni dottrina di giustizia sociale, laica o cattolica. Dal Sud arriva la disponibilità mia e della generazione cresciuta con l’esempio dei don Puglisi, dei Falcone e dei Borsellino a far dell’Italia un Paese più giusto».

Antonio Giovanni Pesce, Avvenire, 27 ottobre 2009


«L’Italia settentrionale è fatta, non vi sono né Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli, noi siamo tutti Italiani; ma ci sono ancora i Napoletani. Ah, c’è molta corruzione laggiù. Non è colpa loro, povera gente, sono stati così mal governati (...). Bisogna moralizzare il paese, educare l’infanzia e la gioventù, fondare asili, aprire collegi militari. Ma non si pensi che insultando i Napoletani riusciremo a modificarli. Domandano impieghi, onorificenze, promozioni. Lavorino, siano onesti e darò loro impieghi, onorificenze, promozioni, ma soprattutto non lasciargliene passar nessuna: l’impiegato non deve essere sfiorato da nessun sospetto. Niente stato d’assedio, nessun sistema da governo assoluto. Tutti sanno governare con lo stato d’assedio. Io governerò colla libertà, e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le province più ricche d’Italia...».

Ultime parole di Cavour morente, riferite da un parente, G. De La Rive, e citate in un vecchio testo sul Risorgimento di Francesco Traniello e Gianni Sofri

«Le monete circolanti negli antichi Stati al momento dell’annessione ammontavano a 668 milioni, così ripartiti:

Regno delle Due Sicilie milioni 443,2
Lombardia 8,1
Ducato di Modena 0,4
Parma e Piacenza 1,2
Roma 35,3
Romagna, Marche e Umbria 55,3
Sardegna 27,0
Toscana 85,2
Venezia 12,7
  668,4

Donato Antonaci Dell'Abate - www.arteinsalento.it

Il Regno delle Due Sicilie aveva due volte più monete di tutti gli altri Stati della Penisola uniti assieme».

Da Scienza delle finanze, di Francesco Saverio Nitti

 

«Il suo [di Garibaldi, n.d.r.] talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua e il male immenso che è stato commesso a Napoli, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie e ne ha eseguito i cattivi consigli».

Da una lettera di Cavour a Vittorio Emanuele II

 

«Si permise, fra l’altro, all’eroe dei due mondi di “alleggerire” il Banco di Sicilia della rilevantissima somma di 5 milioni di ducati “per le spese di guerra”, somma della quale, nonostante le proteste dell’istituto di credito dopo l’unità, non si seppe più nulla».

Da Controstoria dell’unità d’Italia. Da Carlo di Borbone al brigantaggio,
di Carlo Coppola


«Il Piemonte ha compiuto un capolavoro: uno Stato con due nazioni».

Da I Savoia e il massacro del Sud, di Antonio Ciano


«Sono biografo di Mazzini e Cattaneo e non rinnego nulla di quella tradizione repubblicana e federalista alla quale appartengo per tradizione di famiglia. (Sono originario del Granducato di Toscana, la cui legge penale era all’avanguardia in Europa e molto più moderna e liberale di quella del Piemonte). Ricordo che la Toscana dei Lorena fu il primo Stato in Europa ad abolire la pena di morte, mentre nel regno d’Italia vennero rimessi in vigore la deportazione e il domicilio coatto e i tribunali militari fucilavano che era una bellezza. Criticare l’uso distorto che poi si fece degli ideali che ispirarono il Risorgimento è solo un dovere dello storico indipendente. Vi sono pagine esemplari sull’argomento scritte da Salvemini (pugliese) e da Gobetti (piemontese). Ciò non significa riabilitare il regno dei Borboni che, è vero, costruì per primo la ferrovia Napoli-Portici, di 33 chilometri, nel 1839, ma nel 1861, a fronte dei quasi 2.000 chilometri di ferrovie tutte al Centro-Nord, nel Mezzogiorno le ferrovie, tutte concentrate nel Napoletano, si fermavano a Vietri. In Sicilia non c’erano strade né un chilometro di ferrovia, come non ce n’erano nel resto del regno continentale. La ricchezza e i progressi di Napoli sono una pura leggenda ripetuta oggi dai neoborbonici... Nel libro che sto preparando sul divario storico fra Nord e Sud, cito una lettera di Ludovico Bianchini, ministro di Re Ferdinando II di Napoli, il quale spiega quali fossero le vere condizioni sociali ed economiche dell’Italia meridionale: – Essa viveva di una economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione del lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo. Si lavorava più spesso per il proprio sostentamento anziché produrre valori di scambio e procurarsi, con la vendita dei prodotti, quello di cui si aveva bisogno. In moltissimi comuni più della metà della popolazione non mangiava mai pane di grano, e i contadini vivevano lavorando come bruti, poiché il sostentamento di ognuno di loro costava meno del sostentamento di un asino –. Quando l’Italia unita (unita solo di nome) pretese di annettere il Mezzogiorno, i meridionali ingaggiarono una lunga sanguinosa “guerra di secessione” che solo Massimo D’Azeglio per primo ebbe il coraggio di denunciare come insensata e indegna di un Paese civile. Scrisse: – Se i meridionali non ci vogliono peggio per loro. Vuol dire che non ci porteremo dietro questa grossa e sdrucita barca dell’Italia meridionale –. Aveva ragione, ma nessuno lo ascoltò».

Romano Bracalini, Il Giornale, 1 novembre 2009


«Per quanto avviene nelle province meridionali, ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ritenere che essi alieneranno tutti gli onesti dalla causa italiana. I Borboni non si sono mai macchiati di simili infamie».

Da una lettera di Napoleone III al generale Fleury


«Un Paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l’estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il Paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d’industrie, le quali erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d’altra parte, tutta l’industria italiana del tempo… Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all’occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell’economia nazionale».

Da L’unità d’Italia, nascita di una colonia, di Nicola Zitara


«Ferdinando II volle strade, volle porti, volle bonifiche, ospizi e banche; poco sopportava una borghesia saccente e rapace (...) quella delle professioni e degli studi, “pennaruli e pagliette” (...) legati a filo doppio allo straniero per sole ragioni ideologiche che il Re, come re, non capiva; e l’avida schiera dei proprietari terrieri».

Da La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, di Carlo Alianello


«In breve dal ‘52 al ‘56, che sono solo quattro anni, furono costruite 76 strade nuove, di conto regio, provinciale e comunale. Moltissimi i ponti, e fra tutti il ponte sul Garigliano, sospeso a catene di ferro, che fu il primo di questa foggia in Italia, e tra i primissimi in Europa. Eppoi le bonifiche, l’inalveazione del fiume Pelino, la colmata dei pantani del lago di Salpi, la bonifica delle paludi campane (...). In 30 anni, la marina a vela raddoppiata, la marina a vapore creata dal nulla (...). E le scuole, i collegi nautici, le industrie (...)».

F. Durelli

 

«Lei ha usato l’espressione “guerra del brigantaggio”... Ma non sarebbe ormai ora di abolire il termine... sostituendolo con “imponente sollevazione contadina”?... I 100.000 morti (almeno) che quella guerra provocò (oltre metà sicuramente tra la popolazione civile) meritano, a mio avviso, la cancellazione definitiva del termine “brigantaggio” e delle bugie ad esso collegate».

Fulvio Capezzuoli


Caro Capezzuoli, la parola “brigantaggio”, con cui il governo italiano definì il conflitto che sconvolse alcune province del Sud, soprattutto fra il 1861 e il 1865, fu certamente partigiana. Rifletteva la sorpresa, la rabbia e l’indignazione dei piemontesi di fronte a una società arcaica, permeata da costumi e tradizioni che apparivano primitivi e incomprensibili. Vi fu ferocia da ambo le parti e vi fu soprattutto una pressoché totale incomunicabilità. Un più attento esame del fenomeno avrebbe forse permesso ai “torinesi” di capire che i “briganti’” erano troppi per essere soltanto pericolosi fuorilegge. Ma lo Stato appena costituito era considerato con diffidenza, se non peggio, da alcuni Paesi europei, e il governo aveva fretta di terminare la conquista del Sud... Il giudizio cominciò a cambiare dopo la seconda guerra mondiale, quando alcuni studiosi di sinistra vollero vedere in quel fenomeno (nello spirito delle teorie di Hobsbawm) una anticipazione “primitiva” delle lotte popolari del XX secolo. Sopraggiunse poi, con le nostalgie borboniche degli ultimi decenni, il mito del Sud prospero, felice, ben governato e progredito di cui i piemontesi si sarebbero brutalmente impadroniti. E alla fine di questo percorso revisionista la ”guerra del brigantaggio” divenne l’equivalente italiano di un altro conflitto che si combatteva negli stessi anni al di là dell’Atlantico: la guerra civile americana. In realtà si trattò soprattutto di una grande “jacquerie”...».

Sergio Romano, Corriere della Sera, 7 giugno 2009


«Il Regno delle Due Sicilie fu tragicamente conquistato, non essendoci colà alcuna voglia di unirsi ai piemontesi (...). Si lascia intendere una presunta arretratezza del Regno (...) dimenticando che: in Sicilia ci fu il primo telegrafo ad asta d’Italia, il primo telegrafo sottomarino d’Europa fu quello tra Reggio e Messina, meridionali furono il primo telegrafo elettrico, la prima linea regolare di diligenze, la prima nave a vapore, la prima convenzione postale marittima d’Italia...».

Pietro Fucile


«Caro Fucile, (…) vedo che anche lei commette l’errore di rappresentare il Regno delle Due Sicilie come uno Stato moderno e progredito, rozzamente conquistato dalla soldataglia piemontese e dalle teste calde di Garibaldi. È certamente vero che le descrizioni del Regno borbonico furono per molto tempo, prima e dopo il suo collasso, parziali e tendenziose. Rispecchiavano la filosofia politica dei vincitori, i pregiudizi dei liberali inglesi e i sentimenti dei molti esuli meridionali che erano stati costretti ad abbandonare il loro Paese durante il regno di Ferdinando II. Ma vi sono stati da allora studi importanti che hanno esaminato attentamente lo stato delle finanze del regno meridionale...
Uno dei migliori è probabilmente quello di Ruggero Moscati su La fine del Regno di Napoli, apparso nel 1960. Moscati era napoletano..., era certamente risorgimentale e unitario, nello spirito di altri intellettuali meridionali, da Benedetto Croce a Giustino Fortunato. Ma riconobbe che Ferdinando II, dopo il 1848, lanciò un programma di modernizzazione del Paese e fece “notevolissimi sforzi in vasti settori, soprattutto in quelli della bonifica, della viabilità, dei lavori pubblici, del riattamento dei porti, della introduzione del telegrafo”. Nacquero così due zone industriali concentrate intorno a Napoli e a Salerno.
Moscati constatò altresì che la pressione fiscale del Regno era lieve. Ma il sistema industriale borbonico presentava alcuni inconvenienti. Era protetto da un’alta barriera tariffaria, ridotto, soprattutto nel settore dei tessili, a produzioni di modesta qualità. Aveva costi di produzione elevati. Era sostenuto da capitali stranieri piuttosto che nazionali. Sopravviveva soprattutto grazie alle commesse dello Stato. Non aveva alle spalle una buona rete stradale e porti collegati con i centri di produzione. Alle origini di queste carenze vi era l’incubo del 1799, vale a dire il timore di una nuova rivoluzione. Prigioniero della sua paura, Ferdinando scoraggiò la nascita di una borghesia meridionale, soppresse la libertà di stampa e di opinione, sottopose il Regno a un regime poliziesco e finì per perdere i giovani più intelligenti e ambiziosi. Qualcosa di nuovo, per la verità, fu tentato alla vigilia del 1860, ma era troppo tardi. Il Regno delle Due Sicilie non fu “conquistato”, crollò su se stesso».

Sergio Romano, Corriere della Sera, 31 gennaio 2010


«Gli alunni delle classi terze formulano delle domande e chiedono chiarimenti sul Risorgimento italiano. Classe Terza A: qualche professore, parlando di Cavour, dubita che costui sia stato un buon patriota, perché non avrebbe voluto l’Italia una e indipendente. Non conosceva affatto l’Italia e neppure Milano. Era più francese che italiano. Al contrario, altri dicono che il conte di Cavour mirava a liberare l’Italia del Nord dal potere dell’Austria, per prenderne il comando. Classe Terza B: abbiamo saputo che Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, non fu un vero re, ma un uomo rozzo, maleodorante di sigaro, un soldato che passava la vita privata in caserma. Altri scrittori di storia, invece, evidenziano soltanto le virtù patriottiche del re, che riuscì a formare l’Unità d’Italia. Classe Terza C: ci ha colpito che il preside della nostra scuola parli di Carlo Alberto dandone un ritratto ambiguo. Avrebbe avuto un carattere scostante e non avrebbe agito da vero italiano. Vittorio Emanuele II non sarebbe suo figlio perché scambiato alla nascita con altro neonato. Classe Terza D: ci siamo soffermati sulla spedizione di Carlo Pisacane e i 300 patrioti di Sapri, che ebbero la ingloriosa fine. Ci è sorto questo dubbio. Carlo Pisacane aveva “trecento giovani e forti”, come canta il Mercantini?... Perché furono uccisi? Il dubbio sorge dal fatto che appena tre anni dopo fu Garibaldi a conquistare l’isola di Sapri...».

Eustachio Mancone, Dirigente scolastico, Corriere della Sera, 18 gennaio 2009


«Carlo Pisacane è stato riammesso nella scuola romana da cui era stato allontanato. La scuola era intitolata al suo nome, ma la preside aveva deciso di sostituirlo con quello di un pedagogista giapponese, Tsunesaburo Makiguchi, ritenuto più adatto a un istituto di istruzione materna ed elementare che conta il 90% di alunni stranieri. Sommersa dalle polemiche, l’insegnante si è tirata indietro, giustificandosi tuttavia col fatto che la scelta era stata fatta “democraticamente” dagli organi collegiali. Come se questo assolvesse dall’inopportunità e dalla scioccaggine di un provvedimento.
Singolare destino, quello del mazziniano e socialista Pisacane, quasi un Che Guevara del Risorgimento italiano, massacrato con i suoi seguaci dai contadini che voleva indurre alla ribellione. E oggi la sua memoria è stata “tradita” da una consultazione “democratica”. Eppure, chi la sapesse, poteva raccontare gradevolmente la sua storia a dei bambini, partendo dalla filastrocca della Spigolatrice di Sapri (“Eran trecento, eran giovani e forti, / e sono morti”). Non discuto i meriti di quel tal Makiguchi, non capisco però come il suo nome possa diventare più familiare e rappresentativo per gli alunni della “Pisacane” che appartengono a 24 etnie diverse. Perché non un bengalese o un cinese, al posto del giapponese? Ma non sta qui il punto. Il piccolo ma emblematico episodio fa inciampare ancora una volta nel malinteso che stravolge con frequenza i concetti di integrazione extracomunitaria e di società multietnica. Dovremmo preoccuparci di onorare gli stranieri accasati in Italia facendoli a pieno titolo cittadini attraverso la conoscenza della nostra storia, lingua, cultura. Un compito per il quale la scuola riveste una funzione primaria. E invece si indulge, non solo inavvertitamente ma programmaticamente, a un multiculturalismo d’accatto, a un semplicismo ecumenico. Correndo il rischio di rafforzare le barriere esistenti, di creare nuovi ghetti, per noi e per gli altri. Teniamoci caro Pisacane, con Garibaldi e D’Azeglio e Cavour... E lasciamo che i nuovi italiani, quando saranno cresciuti, li discutano e respingano semmai a ragion veduta. Sempreché restino “vecchi” italiani ancora capaci di farli conoscere».

Lorenzo Mondo, La Stampa, 24 maggio 2009


La statua di Garibaldi, a Bologna, in via Indipendenza. Quasi tutte le statue dell’Eroe dei due Mondi hanno una caratteristica comune: Garibaldi guarda sempre verso Roma, città che non riuscì mai a conquistare.

Donato Antonaci Dell'Abate - www.arteinsalento.it

«Ennesimo vizio di questa Italietta sempre uguale: la perpetrazione degli errori politici nei confronti del Sud, di quel Sud “chiagne e fotti” che non vuole maturare una coscienza civica, ma soprattutto non vuole accettare la responsabilità individuale (colpa anche del cattolicesimo) che dovrebbe spingere gli amministrati a cacciare a pedate nel sedere quegli ignobili amministratori che li hanno presi per i fondelli in questi ultimi 30 anni. In assenza di questa presa di coscienza, lo stato (minuscola intenzionale) continuerà a profondere risorse regolarmente inghiottite da quel pozzo nero che è la loro pubblica amministrazione. Tra l’altro, il fatto che questa idea della banca del Sud abbia trovato unanime consenso in un Paese che non riesce a mettersi d’accordo su nulla suscita in me enorme sospetto».

Ettore Ulivelli, Il Giornale, 1 novembre 2009


«Per salvare la fabbrica Fiat di Termini Imerese e i suoi 1.500 dipendenti sembra che il governo sia disponibile a mettere sul piatto della bilancia insieme alla Regione Sicilia 760 milioni di euro. Tanto quanto servirebbe a tagliare l’Irap per tutte le microimprese. Nel nome della crisi si può anche rinunciare per ora ai tagli fiscali, perché non si sa dove andare a reperire le risorse. Ma una buona idea sarebbe quella di scrivere nella pietra che quattrini pubblici per sostenere fabbriche dei sogni non ce ne sono più...».

Nicola Porro, Il Giornale, 2 febbraio 2010


«Davanti al Parlamento libico, Berlusconi si è messo la mano sul cuore e ha domandato perdono per le violenze commesse dal colonialismo italiano. È stato un gesto forte e coraggioso, unico nel panorama dei rapporti internazionali (...). E il Presidente potrebbe ripetere il bel gesto in Etiopia e in Slovenia (...). L’episodio di Tripoli serve anche a squarciare una stratificazione di omissioni e di menzogne che è stata stesa sulla nostra storia più recente e a rendere giustizia a tutti i coraggiosi che si sono battuti per fare emergere la verità, anche a costo di intaccare certezze mal riposte e sconquassare miti artefatti. In questo caso specifico non si può non essere grati ad Angelo Del Boca, che da decenni si sforza di sollevare dolorosi coperchi e raccontare verità che non possono che essere liberatorie per la coscienza collettiva.
Berlusconi però non può... fermarsi alla Libia, e neppure agli altri Paesi citati. Deve trovare il modo di presentare le scuse dello Stato italiano anche a tutti quegli italiani che hanno sofferto per la sua unificazione, non solo quelli che sono morti “per” (cui la gratitudine nazionale è stata abbondantemente espressa) ma anche quelli che hanno sofferto “a causa” dell’unità. Sarebbe un gesto di straordinaria civiltà con cui celebrare degnamente il 150° anniversario del Risorgimento...».

Gilberto Oneto


«Dalla sua adesione al mea culpa berlusconiano Oneto prende spunto per suggerire all’Italia, dopo tante “omissioni e menzogne”, un atto di contrizione nei confronti di coloro che l’Unità la soffrirono. Ossia i vinti: i borbonici, i preti, i briganti su cui si avventò la furia piemontese.
Ciascuno ha diritto alle proprie idee (...), ma voglio sommessamente ricordargli che da gran tempo a questa parte – e soprattutto in vista dei 150 anni dall’Unità – l’attacco al Risorgimento è diventato una moda... Potrei citare decine di saggi che già nei titoli hanno voluto smentire le glorie del Risorgimento, riducendone i protagonisti al rango di pagliacci o di malfattori; e al contrario esaltando il Regno delle Due Sicilie come un modello di amministrazione, e il Sillabo come documento progressista... Chiunque si sia occupato del Risorgimento sa delle molte ombre che lo offuscarono. Gravi... Il fiume della Storia è raramente limpido. Meno che mai lo è durante rivolgimenti che sconvolgono l’ordine costituito. Ma avere rispetto per gli sconfitti non significa volerli indicare come esempio di buongoverno. Furono il contrario. Soprattutto furono l’espressione di una società e di una concezione dei rapporti sociali obsolete. Si è tanto discusso per il mancato inserimento nel progetto di Costituzione europea d’un riferimento alle radici cristiane. Mi associo alle critiche. Quelle radici sono profonde. Ma anche in assenza delle sue radici liberali l’Europa di oggi è inconcepibile. Una rivalutazione dell’ancien régime è anche una sconfessione del presente democratico. Nei modi e con le espressioni utilizzate per questo revisionismo duro, è preso a calci il momento più alto del nostro passato nazionale...».

Mario Cervi, Il Giornale, 2 settembre 2009

 

Gli uomini di Stato del Piemonte e i partigiani loro hanno corrotto nel Regno di Napoli quanto vi rimaneva di morale.
Hanno spogliato il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore...

Deputato piemontese Brofferio: «La vostra odiata politica nelle Due Sicilie vi costringe a mantenere una parte dell’esercito per frenarvi le popolazioni turbolente, e quelle armi... voi dovete impugnarle contro quei popoli anch’essi italiani... Noi per verità avremmo dovuto andar più cauti nel portare altrove le nostre leggi subalpine. Non vogliamo dimenticare che... nel 1814 il Piemonte divenne uno dei più infelici Paesi dell’Italia; mentre tutte le altre nazioni si erano inoltrate, noi retrocedemmo spaventosamente».

Deputato calabrese Greco: «Tutto compruova quale dilapidazione siasi fatta de’ tanti milioni in numerario, dotazione de’ pubblici banchi, accumulata con sapiente economia ne’ 29 anni di regno di Re Ferdinando II, che resero le Finanze napoletane le più floride d’Europa e il corso di quella rendita il più elevato di tutte le altre nelle borse di cambio del mondo intero».

Deputato pugliese Valenti: «Sotto i Borboni pagavamo meno pesi, che paghiamo adesso. I Borboni mantenevano un’armata di 120 mila uomini... ponevano fondi in tutti i banchi all’estero... e tuttavia il tesoro era fiorente».

Deputato Amari: «Chiedo al Presidente de’ ministri che si faccia dar conto in Napoli dall’ex generale Lanza de’ 600 mila ducati in moneta sonante, che prese dal tesoro in Sicilia, asserendo doverli versare al tesoro di Napoli...».

Deputato lucano Petruccelli: «La politica del governo vive di spedienti, di perfidie, di violenze, di violazioni...».

Deputato Ricciardi: «Vorrei chiamare l’attenzione del ministro su la penuria estrema dell’ex reame di Napoli... Vi è una diminuzione considerevole su gl’introiti delle dogane... in questo momento si dazia a Genova, e non a Napoli... Si prevede per l’anno venturo la tassa fondiaria, la tassa mobiliare, la tassa delle patenti da cui finora fummo esenti... Circa 1.500 ufficiali borbonici, dopo la caduta di Capua e di Gaeta, questi disgraziati furono crudelmente umiliati... Ma vi pare che senza il lavoro segreto di questi uffiziali, senza il nostro lavoro, avrebbe potuto mai entrare Garibaldi in Napoli, città di mezzo milione di abitanti, con quattro castelli gremiti di truppe, ed un presidio di 80.000 soldati? Egli entrò solo in Napoli, perché noi liberali, con buon numero di uffiziali, glie ne aprimmo le porte...».

Deputato San Donato: «Sono nove mesi che la guardia nazionale sta facendo solo continuamente fucilare...».

Deputato Polsinelli: «Sapete voi qual è l’effetto pratico della riduzione della tariffa daziaria? Le nostre manifatture, che gareggiavano con quelle dell’estero, ora si trovano in cattive condizioni... Ora la mia fabbrica è ridotta ad andare in rovina, perché vennero aperte le frontiere a tutti i forestieri, ed i paesani nostri non trovano più lavoro... moltissime famiglie gemono nella miseria... Io citerò... le grandiose fabbriche di filatura di cotone, tessitura, stamperia, stabilite ne’ contorni di Salerno, che occuparono migliaia e migliaia di persone. Poi quelle di tessuti di lana, anche stabilite in Salerno. La magnifica filatura di lino a Sarno, la tessitura di Scafati, i numerosi lanifici del distretto di Sora, di Abruzzo e di altri luoghi; finalmente gl’innumerevoli telari di seta, di cotone e lino stabiliti ne’ sobborghi di Napoli... Ciò a prescindere dalle cartiere, concerie ed altre, oltre alle manifatture di Sicilia...».

Deputato napoletano Duca San Donato: «Pregherei l’onorevole ministro di volersi ricordare dei cantieri di Napoli e di Castellammare, che mi dicono ora abbandonati...».

Deputato Ferrari: «L’incertezza del vostro regnare aumenta per la regola costante da voi adottata di non mai informarci della situazione dello Stato, nascondendo le fucilazioni, l’incarceramento di migliaia di sospetti e le dilaganti sommosse popolari nelle Due Sicilie».

Deputato Ricciardi: «Si permette a’ concessionari d’introdurre ed immettere in franchigia di dazio i materiali, gl’istrumenti, i metalli, le locomotive, i tenders, i vagoni e tutto ciò che è necessario alla costruzione e manutenzione delle ferrovie... A Napoli questa industria è fiorentissima... Non veggo perché non si debba fare per l’ex Regno di Napoli ciò che si è fatto pel Piemonte, dove si fabbrica tutto ciò che è necessario per le ferrovie. Perché non si può fare lo stesso a Napoli, dove fra gli altri, abbiamo il magnifico stabilimento di Pietrarsa?...».

Deputato siciliano D’Ondes Reggio: «Cinque cittadini sono stati fucilati senza essere stati sottoposti a processo regolare...». In appoggio, il deputato Crispi: «Voi siete deboli e perciò crudeli: la legalità fu quasi sempre manomessa...».

Deputato di Casoria, Duca di Maddaloni Marzio Francesco Proto: «Gli uomini di Stato del Piemonte e i partigiani loro hanno corrotto nel Regno di Napoli quanto vi rimaneva di morale. Hanno spogliato il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore... Hanno dato l’unità al Paese, ma lo hanno reso servo, misero, cortigiano, vile. Contro questo stato di cose il paese ha reagito. Ma terribile ed inumana è stata la reazione di chi voleva far credere di avervi portato la libertà... Pensavano di poter vincere con il terrorismo l’insurrezione, ma con il terrorismo crebbe l’insurrezione e la guerra civile spinge ad incrudelire e ad abbandonarsi a saccheggi e ad opere di vendetta... Questa è invasione, non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo del Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortes ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala!».

I testi delle interpellanze, mozioni, proposte e raccomandazioni sono tratti da Controstoria dell’Unità d’Italia. Da Carlo di Borbone al brigantaggio, di Carlo Coppola

Un saggio su I lager dei Savoia, di Fulvio Izzo ci informa sui campi di concentramento messi su, e sulle deportazioni progettate per i meridionali. Scrisse la Civiltà Cattolica, nel 1861: «In Italia, o meglio negli Stati sardi, esiste proprio la tratta dei napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano a Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere a uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti, e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in via Assarotti, dove è un deposito di questi sventurati. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle: un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di San Maurizio».
E scrisse nel suo diario monsignor Bartolomeo Pacca, cardinale di Pio VII, che in quei lager fu rinchiuso per tre anni: «Giace la fortezza di Fenestrelle sopra un’alpe, di quelle che formano una catena di montagne che separa il Piemonte dal Delfinato... Fenestrelle è un piccolo villaggio di 800 abitanti circa... Per più mesi all’anno vi regna un rigidissimo inverno, ed in alcuni luoghi de’ circostanti monti la neve non si scioglie giammai intieramente... Penose ivi riescono le notti d’inverno per la loro lunghezza... ed il tristo silenzio che regna in quella vasta solitudine non è interrotto che da fischi de’ venti impetuosi, o talvolta, dallo scroscio spaventevole cagionato dalla caduta di grandi massi di neve detti “avalanches” e dagli urli di animali feroci che, spinti dalla fame, si accostano alle mura del forte».

Marisa Ingrosso ha riportato i nomi di alcuni dei soldati borbonici morti (a migliaia) in questa Buchenwald ante litteram:
«Anno 1860: Conte Francesco, di Isernia, anni 24; Leonardo Valente, di Carpinosa, anni 23; Palatucci Salvatore, di Napoli, anni 26; Suchese (?) Francesco, di Napoli.
Anno 1861: Scopettino Matteo, di Chieti, anni 22; Miggo Salvatore, di Galatina, anni 24.
Anno 1862: Visconti Domenico, di Cosenza, anni 28; Mulinazzi Francesco, di Benevento, anni 24; Vettori Antonio, di Amantea, anni 26.
Anno 1863: Giampietro Giovanni, di Moliterno, anni 28; Spadari Ruggero, di Barletta, anni 24; Gorace Domenico, di Palma, anni 32.
Anno 1864: Masareca Giuseppe, di Basilicata, anni 22; Morino Santo, di Mussano (Lecce), anni 26; Palermo Giovanni, di Atripalda, anni 32; Cirillo Salvatore, di Boscotrecase (Napoli), anni 32; Mossetti Antonio, di Montalbano Jonico, anni 22; Di Giacomo Pasquale, di Sessa Aurunca, anni 23; Giannetto Antonio, di Zarca, anni 30; Davarone Francesco, di Avellino, anni 26.
Anno 1865: Catania Angelo, di Ischitella, anni 22; Pessina Luigi, di Gragnano, anni 27; Mossuto Giuseppe, di Moriale, anni 25; Guaimaro Mariano, di Sala Consilina, anni 30».
«Due dati, inconfutabili, ci sono», scrive Ingrosso. «Il primo è che su quelle mura... campeggia la tetra scritta “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”. Una suggestione nera, che colpisce come un pugno e che – con i debiti, evidentissimi, distinguo – porta a galla il ricordo di un altro posto da incubo: il campo di sterminio di Auschwitz e quell’Arbeit macht frei, cioè Il lavoro rende liberi, monito per l’umanità a ricordare, a non dimenticare. Il secondo dato inconfutabile è che questo “lager” di italiani meridionali è stato completamente rimosso dalla storia nazionale».
Avevano provato, i piemontesi, ad ottenere dal Portogallo la cessione di isole del Pacifico o delle coste africane occidentali, o una delle isole dirimpetto alla Somalia, o dall’Argentina una plaga della Patagonia, o ancora dalla Tunisia una qualche enclave, o addirittura territori del Borneo, da utilizzare come un’italica Cayenna, una gigantesca Alcatraz che accogliesse i “refrattari”, capi e “manutengoli” del Sud.
Ancora poco più di un decennio dopo l’Unità, il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, incontrando il suo omologo britannico, affermava che per i “briganti” meridionali a quella di morte bisognava «aggiungere un’altra pena, quella della deportazione» in terre lontane, che atterriva di più.

Lettera scritta nel 1849 da Ascanio Del Tufo al cappellano e amministratore dei suoi beni. Il percorso postale della lettera era sulla tratta Benevento, Napoli, Gallipoli, Matino. Dolce è una famiglia leccese imparentata con l’onorevole Giuseppe Pellegrino.

A Sua Signoria Illustrissima
Il Signor Diego Marzo Cappellano del Marchese di Matino
Napoli Gallipoli per Matino

lì 5 Luglio da Benevento

Caro D. Diego,
Non fu nulla ch’io non sia esatto a rispondere alle vostre lettere: io fo questo per risparmiarvi spesa di posta, ma voi scrivete sempre, ve l’ò detto mille volte, ve lo torno a dire, e spero che non occorresse di dirvelo più, ma amo che siate esatto. A noi! Vi dissi che mi sarei contentato quest’anno per 100 salme d’olio su miei fondi di Matino: mi auguro che la provvidenza esaudisca i miei voti. Dall’ultima vostra scritta a Mario mi avete spaventato, ma da ciò che al medesimo con data posteriore scrive Dolce mi sono rassicurato, per cui spero nelle 100 salme. Sento che il ricolto de’ cereali vada bene, e che non andiamo male coll’esazione della decima.
Direte a Dolce che rispondesse alla mia scrittagli un mese fa, so ch’è stato poco bene, ma credo non al caso di non poter rispondere!
Roma cadde come si prevedeva. La montagna a Parigi sprofondò per grazia di Dio. La Demagogia! Questo mostro sociale è fottuto. Sembra che la provvidenza vi abbia messo le mani, poiché veggiamo che da pertutto gli eserciti fanno una guerra a morte a questa nuova razza di canaglia!!! A Parigi la truppa di linea e guardia nazionale han tagliato le barbe ai socialisti. Voi che sicuramente tenete la barba in c... tagliatela pure, onde vivere più tranquillo: non mancate di dirlo ai vostri colleghi.
Eugenia vi saluta tutti.

Il vostro aff.mo
S. Demetrio

D(opo) S(critta)

A proposito! Sul nostro giornale ufficiale leggerete che Garibaldi bramava acchiapparsi un traino carico di argenti a Roma! Che amor di patria! Faccia di c.... Mariuoli!


MEMORIE DAL NOSTRO SOTTOSUOLO

Donato Antonaci Dell'Abate - www.arteinsalento.it

Nel 1961 Torino volle celebrare i cent’anni dell’Unità d’Italia con una serie di padiglioni che accolsero mostre, conferenze, tavole rotonde e altre manifestazioni largamente disertate dagli italiani del Nord, del Centro e del Sud, unificati, sì, ma pressoché estranei gli uni agli altri.
Erano i giorni in cui – boom o non boom – dal Meridione massicciamente si emigrava verso le regioni industriali, a Milano di frequente, ma più volentieri nel capoluogo piemontese dove c’era l’onnivora Fiat, ma dove nessuno voleva affittare ai sudisti perché coltivavano il basilico nelle vasche da bagno e perché poi avrebbero senz’altro richiamato rumorose famiglie “extra-large” da accampare in una stanza gremita di letti a castello e impregnata dei forti odori della cucina mediterranea. Insomma, i “napoli”, malgrado i buoni propositi cavouriani, non erano stati ancora “lavati”, dunque lavorassero pure per quattro lire metalmeccaniche, ma si tenessero alla larga dalla gente linda, pettinata, ben vestita, che tollerava malvolentieri i ghetti della periferia, dai quali la domenica e nelle feste comandate muovevano verso il centro della metropoli torme di individui torvi e violenti, rozzi e analfabeti.
Questo era il clima. Appena – ma pochissimo – stemperato vent’anni dopo, quando la “colonna torinese delle brigate rosse” (tutti criminali politicizzati del Piemonte e del Nord, tranne un unico meridionale, emigrato da Casarano), dopo un ennesimo delitto, richiamò lassù gli inviati dei giornali italiani. E una volta capitò che in cinque decidemmo di cenare dalle parti del Valentino, durante il giorno avevamo fatto un buon lavoro, era il caso di ingannare la stanchezza trascorrendo la sera in un luogo fuorimano. Il problema era raggiungere il ristorante. Per questo il collega alla guida della sua automobile ad un certo punto accostò e si rivolse a un passante, chiedendo informazioni. Era vestito di blu, il giornalista del “Mattino”, il quotidiano di Napoli nato e cresciuto con firme celebri: aveva un papillon a striscia, annodato su una camicia di seta candida, come riteneva si convenisse al discendente di una famiglia nobile di una città che nel Settecento era stata una capitale europea. Abbassò dunque il vetro dello sportello e in perfetto italiano, con garbo, chiese delucidazioni sulle strade da percorrere. Fu allora che l’interlocutore cominciò a indicare l’itinerario, muovendo di qua e di là, per la destra e la sinistra, le braccia e i palmi delle mani aperte, ma esprimendosi in un enigmatico (per noi) dialetto torinese. Non era un matto. Vestiva anch’egli con una certa ricercatezza, aveva al guinzaglio uno splendido pointer. «Io le ho chiesto solo la strada per raggiungere il ristorante», ribadì olimpicamente il collega partenopeo.
E ancora una volta l’uomo sul marciapiede sciorinò la giaculatoria vernacolare, lieto quant’altri mai del nostro imbarazzo. Dal quale ci tolse l’inviato del quotidiano napoletano, uno spirito intimamente filoborbonico, che, dapprima girando gli occhi verso di noi, e infine piantando sguardo, dito e disprezzo in direzione del malcapitato, esclamò: «Neh, e nel 1860 ‘sto str... mi ha conquistato!».
Racconto questa vicenda emblematica di un atteggiamento abbastanza diffuso nell’Italia solcata dal Po e dai suoi affluenti, ed essa stessa offesa dagli echi dei ringhi leghisti, perché ancora una volta siamo stati sorpresi da una notizia, che precede il 150° anniversario dell’Unità: è tornato di moda Lombroso, insieme con i suoi reperti di antropologia criminale, raccolti in undici sale museali uniche al mondo. In quel di Torino, ovviamente. E sta lì, lugubre anfitrione, il supercilioso docente veronese scarnificato, in piedi, dentro una teca trasparente: il suo scheletro vigila sui 400 crani di briganti e di “cretini”, sulle cere che fedelmente raffigurano ladri e prostitute, assassini e grassatori, sugli orci carcerari pieni di graffiti, sui corpi di reato, sui disegni e tatuaggi, persino sulle piante carnivore, con una collezione frenologica di calchi in gesso che ci rimandano i tratti di geni e di stupratori (come la “iena di San Giorgio”, che tre ragazze letteralmente trasformò in salsicce). Tutto voluto dall’Università per celebrare il centenario della morte di questo positivista, che fu uno degli italiani più noti nell’Ottocento, secondo solo a Garibaldi. Famoso, e controverso anche per gli slogan che spacciò per “scientifici”. La donna? Un uomo arrestato nel suo sviluppo. Il delinquente-tipo? Facile da riconoscere: fronte sfuggente, zigomi pronunciati, sopracciglia folte e ravvicinate. In una parola, «il fratello dell’uomo di Neandertal». E via dilagando, con paragoni fra donne oneste e prostitute gibbose, fra camalli e cammelli, con disquisizioni su «perché i preti si vestono da donna», e con altri illuminanti saggi sul rapporto fra la “ruga del cretino” e l’anomalia del cuoio capelluto, ma soprattutto con un’attenzione lenticolare nel far emergere i nessi tra genio, follia, criminalità. Al punto da definire «cretino e degenerato» Lev Tolstoj, dopo un frettoloso incontro a Yasnaya Polyana, venendo a propria volta elegantemente liquidato dall’autore di “Guerra e pace” come «un vecchietto limitato e ingenuo».
Fu Cesare (in realtà Marco Ezechia) Lombroso vittima di un eccesso di immaginazione mescolata ad orgoglio scientista, un confuso anticipatore del racconto dell’incubo, in cui in seguito eccelse Freud, e il primo teorico dell’«inferiorità della razza meridionale» che, in nome dell’«atavismo criminale», sarebbe stata portata geneticamente alla delinquenza. Già contro di lui e i suoi allievi e seguaci – dal Ferri al Sergi, al Niceforo – si era scagliato un furibondo Antonio Gramsci. Oggi, poi, sostiene senza mezzi termini un gruppo nato su Facebook: «Lombroso costruì le sue teorie sulla base di misurazioni di centinaia di resti e di crani prelevati al seguito delle truppe piemontesi che invasero le Due Sicilie e massacrarono migliaia di meridionali che si erano ribellati a quell’invasione, cancellandoli dalla storia come briganti».

Basta così? Nient’affatto. Simultaneamente, è scoppiata la guerra del QI. È l’idea secondo cui, alla base degli importanti divari regionali che caratterizzano l’Italia, ci siano differenze nel Quoziente d’Intelligenza degli abitanti dei diversi territori. Idea riapparsa in un articolo pubblicato sulla rivista accademica internazionale “Intelligence”, firmato dal professor Richard Lynn, Emerito di Psicologia presso l’Università dell’Ulster, intitolato “In Italia, le differenze del QI fra Nord e Sud predicono le differenze nel reddito, nel livello d’istruzione, nella mortalità infantile e nell’analfabetismo”.
La tesi è basata sull’incrocio di dati sui diversi tipi di apprendimento da parte di studenti quindicenni, incrociati con quelli sul reddito. Per Lynn, la spiegazione del più basso quoziente intellettuale nel Meridione è da attribuire alla mescolanza delle persone del Sud con popolazioni del Vicino Oriente e del Nordafrica, caratterizzate da un quoziente addirittura infimo! Vane le proteste del Rettore della Bocconi, che rivendica agli studenti meridionali il più alto quoziente d’intelligenza e di profitto nella sua Università. Ma è noto: la mamma dei cretini (quelli autentici) è sempre incinta.

Alba del Terzo Millennio. I nomi di Carlo Pisacane e dell’“isola” di Sapri, dei Fratelli Bandiera, di Guglielmo Pepe, di Ugo Bassi, di Aurelio Saffi, di Carlo Cattaneo, di Luigi Settembrini, di Vincenzo Gioberti, di Pasquale Villari, per citarne alcuni, e delle Cinque Giornate, dell’Aspromonte, e figuriamoci di Calatafimi e di Caiazzo e del Volturno, non raccontano più nulla. La scuola imposta dalle ideologie in ritardo dei partiti di massa ha generato un obnubilamento, una smemoratezza e un’estraneità come sconfitta della cultura del nostro Paese. È stato scritto che ogni popolo ha bisogno di una Storia per sé, di un racconto per condividerne il riflesso attraverso le generazioni e le epoche: una Storia grande, e meglio ancora, grandiosa; un Romanzo Unico, che di un popolo esprima non la nuda cronaca, ma la somma di omeriche leggende che si fanno Memoria Epica in continuo movimento, dapprima di tradizione orale, astratta, poi fatta “vera” dalla polifonia delle scritture, delle immagini, della poesia, della musica; dai motivi fondanti che elaborano senza soluzione di continuità una miracolosa – e credibile – epopea.
I più fieri e sconvolgenti capitoli di una Storia siffatta sono proprio quelli che narrano la nascita di una nazione. Che può avvenire soltanto dopo una tragedia, un conflitto armato, un’invasione, una strage memorabile, una guerra civile, che, se rivelatesi vicende ricorrenti e molto sanguinose, determinate da intrighi torbidi, da diplomazie perfide, da turpitudini e tradimenti e sconfitte e quant’altro ancora, non farebbero sopravvivere alcuno Stato o Nazione, se tutto non venisse elaborato in un corale canto subliminale. Sterminarono i pellerossa in vent’anni di conquista del West, i cinici razzisti Wasp affamati di miniere e di pascoli, e si sterminarono reciprocamente nella Guerra di Secessione, i nordisti e i sudisti degli States: ma gli eroi dell’una e dell’altra storia si sono considerati tutti sconfitti, tutti combattenti dalla parte sbagliata, diventando personaggi di una leggenda fondante, che ha contribuito ad esorcizzare le divisioni, forse anche più laceranti delle nostre: oggi non vi è più alcuna vergogna a riconoscere ragioni e torti degli uni e degli altri, a confrontarsi lealmente sugli avvenimenti anche più dolorosi e sui fatti anche più ignobili. Contano pure le immagini: non ci sono soltanto i volti di Mount Rushmore; in aggiunta, un ciglione del South Dakota è stato trasformato nel profilo di Cavallo Pazzo, mentre i profili dei capi sudisti Jefferson Davis, Robert Lee e “Stonewall” Jackson emergono da un grande costone roccioso in Georgia. È un po’ quel che si è fatto nella Valle dei Caduti nella Spagna del dopoguerra civile, dove riposano repubblicani e franchisti, quelli che nel nome di Lenin fucilavano i Crocefissi nelle chiese, insieme con quelli che fucilarono Lorca senza una ragione e senza un rimorso. Finalmente in pace. Fra di loro e col mondo.
Che rammentiamo noi delle rivoluzioni del ‘18, del ‘21, del ‘32, del ‘48? Soltanto ciò che si ostina a raccontarci un manipolo di intellettuali disadattati? Oltre Atlantico ricordano le avventure del fuorilegge Jesse James, soldato confederale sbandato. Perché noi non dovremmo ricordare quelle di Giuseppe Nicola Somma, detto Ninco Nanco, reduce anche lui, e “brigante” lucano; di Carmine Donatelli, detto Crocco, il più grande guerrigliero delle insorgenze sudiste; o che so, del Sergente Romano, altro “fuorbandito”, nato a Gioia del Colle, già militare di carriera borbonico, che con 700 uomini a piedi e 300 a cavallo tenne in scacco i bersaglieri piemontesi, al modo dei capi grandi e piccoli delle altre quattrocento “bande” e “consorterie”, “congregazioni” e “masnade” che ebbero ufficialmente trentamila morti, ma di fatto da moltiplicare per lo meno per tre?
Solo la Speranza eleva l’uomo alla dignità di brigante, ha scritto Adolfo Morganti: perché il brigante è nella sua essenza una figura eroica, semidivina, che si eleva potentemente al di là della storia; una figura atemporale, archetipica, che vive nella realtà più piena dell’uomo e della storia. La sua età dell’oro, infatti, è quella della fine di un mondo, di un qualsiasi mondo, il cui palcoscenico dev’essere liberato per l’attesa del nuovo mondo. Il vuoto attrae il brigante, lo chiama nella sua foresta sorella e amica, gli concede l’onore del rifugio e dell’agguato, e il diritto solitario di ergersi a unico difensore di tutti gli esseri anonimi e oppressi della terra. Solo chi non ha avuto nulla può dare tutto, senza nulla chiedere. L’ebbrezza solare dell’assoluto sacrificio ripaga chi non ha niente da reclamare in cambio. Perché, «ringhiando contro l’entropia del cuore», ha sperato testardamente che un colpo di archibugio o un fendente di arma bianca potesse tagliare i nodi gordiani dei compromessi, delle servitù, delle vigliaccherie. Della illibertà.
Risorgimento è parola bella. E non tutto il Risorgimento è da buttar via. Ma “Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento” è il titolo dell’ultimo libro di Lucio Villari, che ha un incipit originale: «Non una voce stanca e nostalgica, ma quella di un giovane, allegro e lievemente incantato, dovrebbe raccontare le avventure e gli avvenimenti che hanno portato al risorgimento dell’Italia. La favola bella di un tempo non lontano, quando i protagonisti erano quasi tutti giovani… Una voce incantata che ricrei l’atmosfera di quegli anni dell’Ottocento dove pare che il risorgimento dell’Italia sia avvolto nel pieno sole delle armi, delle barricate, delle rivolte, dei gesti eroici, mentre ha avuto anche i suoi notturni, le pieghe nascoste, i segreti dei sentimenti politici, le penombre e i misteri delle idee e dei pensieri irriverenti e rivoluzionari. Questa voce narrante dovrebbe dire che il Risorgimento, come lo fu la rivoluzione francese, è stata l’opera di giovani e che a loro si deve se l’Italia, dopo secoli di servitù, di speranze inutili, di indifferenza e di disillusioni, ha cominciato a non aver paura della libertà».
Sia chiaro: senza nostalgia non ci sarebbe coscienza dell’identità. E che quello del Villari sia un libro nostalgico lo mette a nudo il titolo, che riprende un verso del coro del “Nabucco”. Lo testimonia lo stile della scrittura. Ma soprattutto lo rivela l’illustrazione in copertina, “La Meditazione” di Hayez, una tela del 1850 che raffigura una giovane donna che tiene nella mano destra un libro sulla storia d’Italia. È un periodo magmatico della vicenda politica della Penisola, quello: nel ‘48 Carlo Alberto era stato sconfitto a Custoza, nel ‘49 a Novara; gli austriaci rientravano a Venezia e a Milano; cadde la Repubblica Romana. Nel ‘50 Pio IX tornava a Roma. Ogni speranza sembrava perduta. Ma nel ‘59 cambiò musica. E nel ‘70 finì il potere temporale dei papi. I “notturni” e i “misteri”, che avevano preceduto le strategie intriganti del Cavour, sarebbero tornati con il “secolo breve”, il Novecento dei due sterminii mondiali, della fine del colonialismo politico, del rafforzamento di quello economico.

Donato Antonaci Dell'Abate - www.arteinsalento.it

Ma sarebbe tutto più onorevole se si fossero riconosciuti per tempo il valore e i sacrifici dei vinti, dei soldati borbonici vittoriosi a Calatafimi, a Capua, sul Volturno, dove furono traditi dai loro capi; di quelli che resistettero a Gaeta, a Messina, a Civitella sul Tronto; degli insorgenti massacrati in nome di una fratellanza imposta con le baionette; come dei lombardi e dei veneti che indossarono fino all’ultimo l’uniforme del loro imperatore absburgico, degli esuli per coerenza, dei cannoneggiati da Bava Beccaris a Milano, da La Marmora a Genova, da Cialdini ad Ancona; delle rapine a mano armata compiute a danno delle imprese meridionali (esemplare il caso dell’Ansaldo di Genova, diventata un colosso della metallurgia grazie ai macchinari smontati e trasferiti dalla grande fonderia borbonica di Pietrarsa, svuotata come una crisalide e mai più risorta), o dell’abbandono premeditato del Sud (in occasione di alcuni terremoti che avevano devastato numerosi centri abitati meridionali, il Parlamento con atto vergognoso deliberò di non intervenire nelle opere di ricostruzione).
Anche senza scolpire un Cattaneo di cento metri sulle rocce delle Prealpi o elevare su una vetta appenninica un colossale gruppo marmoreo agli aristocratici legittimisti europei che scesero nel Reame per difenderlo dai Savoia, (dal barone prussiano Teodoro Klitsche de La Grange al conte Henri de Chathelineau discendente dell’eroe della Vandea, dal conte sassone Edwin Kalckreuth (fucilato nel 1862) al marchese belga Alfred Trazégnies de Namour (fucilato nel 1861), dal conte Emile-Théodule de Christen ai catalani José Borjes, definito l’anti-Garibaldi, e Rafael Tristany...), un modo civile di onorare la ricorrenza sarebbe stato, e sarebbe ancora oggi, proprio quello di affrontare la storia senza censure, senza tristi (e pericolose) divisioni manichee: tutti i buoni da una parte, tutti i cattivi dall’altra. Raccontando davvero il Risorgimento, senza indulgenze retoriche. Riconoscendo che il miracolo dell’unità italiana fu reso possibile da tre vittorie, tutte straniere: a Solferino, nella Seconda Guerra d’Indipendenza, (giugno 1859), nella battaglia più sanguinosa del Risorgimento, con i francesi opposti agli austriaci; a Sadowa, nella Terza Guerra d’Indipendenza, (1866), con i prussiani opposti agli austriaci; a Sedan (1870-‘71), nella guerra franco-prussiana, (al termine della quale fu fatto prigioniero Napoleone III), quando i francesi furono costretti a richiamare dall’Italia le truppe che proteggevano il Papa, consentendo ai Savoia la presa di Roma.
Colpa degli intellettuali italiani se l’epos del Risorgimento fu “Da Quarto al Volturno”, “noterelle” – pallidissime – di Giulio Cesare Abba, oppure “I Mille”, memorie dei garibaldini scritte da Giuseppe Bandi? Se, invece, i “napoletani” ebbero il più sontuoso “L’alfiere”, di Carlo Alianello? Maurizio Maggiani sostiene che fu il melodramma in genere, e Verdi in particolare, a darci il vero romanzo epico del Risorgimento. Tuttavia, contesta Lorenzo Mondo, non si possono trascurare “Le confessioni di un italiano”, il cui titolo già proclama la rappresentatività di una narrazione che sembra trarre dall’infelice sorte di Ippolito Nievo un valore aggiunto, di giovanile entusiasmo e intrepidezza: «Sono molti peraltro gli scrittori che hanno reso la loro onesta testimonianza… in specie quelli appartenenti all’area garibaldina, “rivoluzionaria”... Ma come dimenticare, sul versante polemico, Roberto Sacchetti che denuncia in “Entusiasmi” l’abbandono degli insorti milanesi da parte di Carlo Alberto? O il Tarchetti di una “Nobile follia” che contesta, con le atrocità della Cernaia, il “capolavoro” diplomatico di Cavour?». Come dire: né la restaurazione conservatrice né la melassa sabauda sono colpevoli della morte in fasce del romanzo epico italiano.
D’Azeglio (con l’“Ettore Fieramosca” e col “Niccolò de’ Lapi”) era tornato alle disfide nel Mezzogiorno feudale e a quelle fiorentine tra guelfi e ghibellini, ma in qualche modo contribuì a tener vivi lo spirito eroico e la tradizione cattolica degli italiani; Manzoni stesso risalì al Seicento, e non affrontò la storia contemporanea, ma interpretò «a suo genio, secondo istanze civili e unitarie, lo spirito del Risorgimento», dando agli italiani «una lingua duttile e moderna». Che altro? Qualche pagina di Federico De Roberto, di Antonio Fogazzaro, del Verga.
E dal punto di vista del Sud? Intanto, va precisato: con le elezioni del 27 gennaio 1861 torinesi, milanesi, fiorentini, napoletani e palermitani tornarono a vivere insieme. Non accadeva dalla caduta dell’Impero romano. Ma a deciderlo era stata un’esigua minoranza. Il primo Parlamento nazionale (convocato in un padiglione messo su in un cortile di Palazzo Carignano) fu votato dall’uno per cento della popolazione: 240 mila elettori, tutti di sesso maschile e con un carico d’imposta di almeno 40 lire annue.
L’Italia era fatta, ma senza le donne, senza i cattolici, senza gli analfabeti, senza i poveri, senza gli evasori fiscali. Cioè senza il 90 per cento della popolazione, costretta al ruolo di spettatrice passiva. Quel Parlamento era composto per quattro quinti da notabili della Destra, gelosi custodi dei propri privilegi, con un unico modello di Stato, quello sabaudo: rappresentavano una classe compatta, l’alta borghesia, ed erano guidati da Cavour. Invece i democratici della Sinistra erano divisi e rissosi (già allora!), ed erano guidati da un genio spaccato in due: aveva la testa di Mazzini e il braccio di Garibaldi, in eterna baruffa tra di loro. In mezzo, un amareggiato federalista, Cattaneo, malamente riesumato al tramonto del Novecento dai secessionisti del Nord.
Come non dar ragione alle rivisitazioni di Federico De Roberto, di Giani Stuparich, di Luciano Bianciardi e, forse più d’ogni altra, a quella di Tomasi di Lampedusa, che nel suo “Gattopardo” riversò tutt’intero lo scetticismo meridionale, realistico, profetico, nei confronti di future magnifiche sorti e progressive di “tutta” la Penisola? Né si può opporre ragionevolmente una qualche ricchezza espressiva di pittori e scultori impegnati per immortalare l’Unità, in realtà facendone sparire i contrasti, i lati oscuri, i tradimenti degli ideali, e omettendo quanto di imbarazzante poteva esserci: dal massacro seguito alla rivolta di Bronte allo scioglimento dell’esercito meridionale di Garibaldi, con la drammaticità e più spesso con la retorica (le tele erano commissionate da Casa Savoia o comunque da istituzioni varie) che caratterizzarono alcuni dipinti: ad esempio, Garibaldi e il maggiore Leggero che trasportano Anita morente attraverso le paludi di Comacchio, di Pietro Bouvier; o la battaglia di Solferino, di Carlo Bossoli; o infine la battaglia di Calatafimi, di Remigio Legat.
Tradito, stravolto nell’ufficialità e nelle icone, il Risorgimento vede naufragare nel mare magno della dislessia contemporanea anche i termini che sono stati d’uso comune, nel significato storico e in quello metaforico, fino a qualche decennio fa: austriacanti, caiserlicchi, mangiasego, segoni, plùfferi, patatucchi, tognini, lurchi sono stati gli appellativi popolari che indicavano gli austriaci, e che oggi si possono leggere soltanto nel Gadda o nelle storie della lingua italiana. Allo stato delle cose, non sembra essere più il tempo di concedersi malinconici ricordi alla Guido Gozzano, per sognare con i versi in cui il poeta scriveva dell’ora «ch’io dissi del Risorgimento, l’ora in cui penso a Massimo D’Azeglio adolescente, a “I miei ricordi”, e sento d’essere nato troppo tardi».
Secondo Arbasino, se si usa l’espressione “c’è l’Italia”, il pensiero corre esclusivamente a una partita di calcio. Ma nel momento in cui il Risorgimento vede la sua anemica epica accartocciarsi per una serie di incidenti (Caporetto, il Fascismo, la fuga dei Savoia, la sintomatica fine dello storico Partito d’Azione, fino ai nostri giorni), nessuno parla più di martiri, di eroi, di spedizioni, di reduci, nessuno chiama più “barabba” i delinquenti o i traditori, nessuno apostrofa più qualcuno come “arruffapopolo” (neologismo di Giuseppe Giusti), non risuonano più non expedit, o possumus. E pensare che è di conio, o di diffusione ottocentesca, una buona parte dei termini politologici tuttora in corso legale, come “radicale”, “progressista”, “conservatore”, “moderato”, “assolutista”, “costituzionalismo”, “oscurantismo”, “repubblicano”, “liberale”, “comunista”, “socialista”, “separatista”, “destra”, “sinistra”… Ma si parla di rivolte, non di “moti”. Sopravvivono a fatica “proclami” e “plebisciti”, sono abusati “unità” e “indipendenza”, ma con riferimento ad altri fatti: hanno la stessa centralità, non più o non sempre lo stesso significato. Che invece può dirsi conservato per gli strepiti di certe trasmissioni televisive per i “gridi” (non più “di dolore”, però) e gli “urli” (con le nostre scuse a Munch), che prorompono dai teleschermi che devastano i nostri pomeriggi televisivi.

18 aprile 1861. L’onorevole Garibaldi, camicia rossa e poncho grigio sulle spalle, irrompe nell’ex salone da ballo di Palazzo Carignano, sede della Camera, e accusa «la fredda e nemica mano di questo ministero», cioè di Cavour, di aver boicottato la spedizione dei Mille l’anno precedente, a costo di «provocare una guerra fratricida».
«Non è permesso di insultarci!», reagisce rabbiosamente il presidente del Consiglio. Il conte stima Garibaldi come valoroso soldato, ma ritiene che l’impresa nelle Due Sicilie gli abbia mandato all’aria il suo progetto di creare soltanto un Regno del Nord.
A scontrarsi violentemente, quel giorno, non sono soltanto due visioni dell’Italia, ma due modelli di Italiano. Cavour è preparato, pragmatico, stimato da molte diplomazie europee. Garibaldi è impulsivo, improvvisatore, amato dalle folle di mezzo mondo. Un uomo di genio, in grado di volgere a proprio vantaggio anche vicende imprevedibili e potenzialmente dannose, e un avventuriero di gran cuore, ma a disagio fra le liturgie istituzionali e a fronte di raffinate strategie politiche.
Quel giorno, comunque, è presente un terzo tipo di italiano, interpretato dal colonnello Nino Bixio. Il quale, al culmine del litigio, prende la parola, rendendo omaggio a Garibaldi condottiero e a Cavour statista, inducendoli a fare la pace, e ottenendo per sé la promozione a generale. Ecco, non è improbabile che ad incarnare il vero Padre della Patria sia proprio lui: il perfetto trasformista, l’eterno mezzano che è il solo a incassare il premio finale.
Tre archetipi, sintesi degli italiani contemporanei che vivono ancora, come sempre del resto, di tregue armate. Miriadi di tribù, di gruppi, di sottogruppi, di vicinati, di unità amicali e familiste alternativamente confinano o si fronteggiano, in nome di tutto e del contrario di tutto. Italiani tutt’altro che realizzati, se non nelle menti superiori, nei personaggi di alta levatura culturale: quelli per i quali il Risorgimento vale come lezione di civiltà, come lascito politico e morale dal quale ripartire per darsi insieme una ragione di conoscenza, di scoperta se si vuole, di riconoscimento di vincoli di fratellanza (di alleanza) dopo la ferocia e gli eroismi del passato.
È il momento di far prevalere il carattere positivo dell’esistenza dello Stato nazionale, perché le critiche, da antirisorgimentali, si stanno vistosamente trasformando in antiunitarie, con la saldatura di tre segmenti: uno settentrionale, di ispirazione leghista e secessionista; un altro rappresentato da nazionalisti meridionali innestati su un complesso arco ideologico che va dai neo-borbonici ai paleo-marxisti; e l’ultimo, dei cattolici che si potrebbero definire guelfo-temporalisti.
I racconti che costoro continuano a proporci riempiono il vuoto che si è determinato da decenni nel nostro discorso pubblico, dopo che questo ha espulso da sé, appunto, ogni narrazione viva e autentica del Risorgimento. È questo vuoto che è necessario colmare di valori condivisi. È questo nodo iniziale che va sciolto perché l’Italia sia, a dirla col Manzoni, «una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie, di sangue e di cor».
Non c’è una terza via: o la morte della Patria o il risveglio delle nostre (migliori) coscienze. Sebbene gli echi, le memorie, le voci del nostro sottosuolo storico, culturale e antropologico premano sempre sulle corde dei nostri sentimenti e del nostro orgoglio, è tempo che l’incontro infelice del Sud con la Storia non ci impedisca più di amare l’Italia “nonostante”, perché – qualunque cosa dicano i duri e puri di altre e barbare latitudini – sono stati gli intellettuali di Magna Grecia i severi numi tutelari della nostra civiltà.

   
   
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