Marzo 2010

ITALICI SMEMORAMENTI - 1

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Cavour chi?

M.B.

 
 
 

Piace di più
Garibaldi, mentre il pensiero liberale di Cavour
non

intriga né la destra né la sinistra, e meno che mai la Lega, che piange per l’unificazione
dell’Impadania con il Mezzogiorno.

 

 

Pare che abbia reso l’anima al Creatore sussurrando: «L’Italia è fatta», pur temendo che non fosse proprio così. Equidistante dall’irruenza guerrigliera di Garibaldi e dai furori repubblicani di Mazzini, Cavour sapeva bene che il lavoro era ancora lungo e complicato. È stato scritto che con la sua intelligenza diplomatica, con la sua cautela riformista, con le sue idee anticipatrici, con la sua abilità nel fare uso di contesse-escortdell’epoca per trovare alleanze, fece molto per unificare la Penisola.
Ora l’Italia avrebbe due ottime occasioni per celebrare la sua figura e per aprire un dibattito approfondito sulla sua opera: il 10 agosto 2010, bicentenario della nascita, e il 6 giugno 2011, centocinquantesimo anniversario della morte. Ma è noto che siamo un popolo distratto. E di celebrazioni e rivisitazioni del pensiero e dell’azione politica del “Tessitore” si parla poco, quasi per niente.
Piace di più il malmostoso Garibaldi, mentre il pensiero liberale di Cavour non intriga né la destra né la sinistra, e meno che mai la Lega, che piange lacrime coccodrillesche per l’unificazione dell’Impadania con le terre brigantesche del Mezzogiorno. Lo statista è dimenticato dallo Stato, sostiene Nerio Nesi: «È una rimozione in atto da tempo, e lo dimostra il fatto che vie e piazze sono molte meno di quelle che ha Garibaldi, personaggio “più facile”, più popolare (anche nel senso di più populista). Ma il vero Padre della Patria è Cavour. E quasi tutti se lo sono dimenticato. Al punto che non si trovano neanche i pochi soldi che sono necessari per mantenere il patrimonio cavouriano nel paese natale di Santena: il castello settecentesco, col parco all’inglese, la tomba di famiglia, la biblioteca e l’archivio ricco di documenti».
Certo, i valori dell’Unità d’Italia non sono ben visti dai legaioli del Nord, per ragioni del tutto opposte a quelle dei legittimisti del Sud. Intanto, proprio il patrimonio cavouriano è logorato da tempo, e pure l’alluvione del ‘94 ci ha messo del suo, lasciando scempi nella villa di Santena. Occorrerebbero quattro o cinque milioni di euro per rimettere tutto a posto.
Ma Cavour non è raccomandato, dunque non trova finanziamenti: troppo liberale per la sinistra, troppo torinese e troppo poco populista per la destra, troppo italiano per la Lega. Meglio dunque lasciarlo dov’è, nello smemoramento più sconcertante, anche perché se un po’ di politici e di intellettuali d’improvviso riacquistassero il ricordo del passato, non di dibattito sereno e chiarificatore si tratterebbe, ma di starnazzanti baruffe televisive, che fanno tanto bene all’audiencee tanta gola ai pubblicitari. Questo ci passa il culturame di questo nostro mondo contemporaneo.

«Amo talmente la Germania che preferisco averne due», si lasciò sfuggire poco prima della caduta del Muro di Berlino un incauto Giulio Andreotti. Chissà se poi si ricordò del precedente, anch’esso poco profetico, di Cavour: l’artefice del Risorgimento, nel lontano 1858, amava talmente l’Italia da augurarsi che ce ne fossero tre. E il suo progetto lo riassunse in questo modo all’imperatore francese Napoleone III: un Regno dell’Alta Italia, sotto la sovranità di Casa Savoia, che si sarebbe esteso fino al fiume Isonzo, comprendendo tutta la valle del Po, i Ducati e parte delle Legazioni pontificie; un Regno dell’Italia centrale, con capitale Firenze, composto dalla Toscana, dall’Emilia e dai rimanenti Stati Pontifici; infine un Regno delle Due Sicilie, con diverso nome e con qualche acquisto territoriale, da confermare ai Borbone, se la dinastia avesse dimostrato sufficiente duttilità politica. Quanto al Papa, privato del suo potere temporale, sarebbe stato compensato con l’offerta della presidenza onoraria della neonata Confederazione italica, formata dai tre Stati di nuova formazione.
Che il “Tessitore” la pensasse in questo modo, e pertanto all’inizio non ambisse per niente all’unità della Penisola, è il tema centrale del Regno del Nord, di Arrigo Petacco, non per gusto revisionistico, ma allo scopo di mettere qualche punto fermo nella versione edulcorata del nostro Risorgimento. Non una sequenza di tappe necessarie, secondo lo storico, condusse all’esito finale dell’Unità; piuttosto gli eventi si dipanarono in un fitto intrico di ambizioni e di emozioni, di astuzie e di casualità, che finirono per trascinare il Primo ministro piemontese.
All’inizio della storia, troviamo una lettera-fiume inviata da Cavour al suo re Vittorio Emanuele II, per informarlo dell’esito soddisfacente di un incontro segreto. Infatti, il 21 luglio 1858, nella stazione climatica di Plombières (come riportano del resto tutti i libri di storia e la stessa vulgata risorgimentale), lo statista piemontese e l’imperatore francese si erano incontrati segretamente, concordando la strategia destinata a scalzare l’Austria dall’Italia settentrionale e a favorire di conseguenza, insieme alle aspirazioni dei patrioti italiani, il ruolo francese nella penisola. Ma nessuno – e meno degli altri proprio Cavour – puntava realmente a creare un Regno d’Italia centralizzato.
Furono piuttosto gli imprevisti e le miopie politiche a mutare il corso degli eventi. Tramontò così il progetto federalista di Cavour. Più che il carisma di Garibaldi, o dello stesso Mazzini, pesò l’inconsistenza degli alleati e il risultato fu il Cavour che conosciamo: non più federalista, ma paladino dell’Unione nazionale.
A dimostrazione, tutto questo, che le versioni ufficiali di solito non dicono il vero. Tant’è che scrisse Montanelli: «Solo dopo l’Unificazione Cavour scese a visitare Bologna, Firenze e Pisa, ma oltre l’Arno non andò mai. E al ritorno disse al suo segretario: “Meno male che abbiamo fatto l’Italia prima di conoscerla”». Qualcosa da dire, dopo questo, contro i cosiddetti revisionisti?

   
   
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