Marzo 2010

ITALICI SMEMORAMENTI - 2

Indietro

Ma neanche Pietro Micca
gode buona salute

B.S.

 
 
 

 

 

 

 

Pietro Micca
è rientrato
nell’ombra stesa da chi si dice pentito d’aver conquistato il Sud, d’aver creduto nell’Unità d’Italia, d’aver speso denari ed energie per fare degli “affricani” un
popolo civile.

 

 

 

Particolare della statua dedicata da Torino a Pietro Micca.

È trascorso un buon mezzo secolo da quando i primi immigrati dal Mezzogiorno venivano accolti a Torino dai commenti sarcastici dei piemontesi più gelosi del loro particolarismo: «Tutta colpa di Garibaldi», sostenevano, con evidente allusione all’Unità della Penisola e ai suoi personaggi-chiave. «Tutta colpa di Pietro Micca», rincarava la dose chi riteneva di poter dire che, se Torino fosse caduta in mano francese, allora il problema si sarebbe risolto alla radice: la città sarebbe diventata a sua volta una sorta di Mezzogiorno della Francia, ma questo era un pensiero che non emergeva minimamente fra le considerazioni e i mugugni della gente di strada. Rimaneva intatto, viceversa, il mito di Pietro Micca salvatore della patria piemontese; era ancora viva, cioè, la tradizione che voleva il minatore di Andorno decisivo nella soluzione dell’assedio francese a Torino nel 1706. A distanza di due secoli e mezzo.
È curioso che, all’epoca dei fatti, nessuno riconobbe la morte di Pietro Micca come fattore decisivo. Tutti tributarono grandi meriti al duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, il quale con accorte alleanze aveva saputo condurre il Piemonte sabaudo contro le armate di Luigi XIV; e celebrarono il principe Eugenio il quale, alla guida delle armate imperiali, era corso da Vienna a Torino giusto in tempo per evitare il peggio. E grandissime lodi vennero cantate ai torinesi, i quali avevano saputo resistere alla stretta dell’assedio con ordine, pazienza, abnegazione e sacrificio personale: avevano provveduto all’ammasso dei generi alimentari senza sprechi, e senza far lievitare i prezzi; avevano spesso pagato di tasca propria, per far fronte ai costi immensi della guerra; avevano diligentemente evacuato le zone più esposte ai bombardamenti francesi, stringendosi nelle case più lontane dai tiri delle artiglierie; avevano accettato di formare una milizia cittadina in appoggio alla guarnigione a difesa della città. Insomma, si erano comportati esemplarmente. E poi si riconobbero la valentia delle truppe piemontesi e la sagacia dei loro comandanti.

Pietro Micca, lì per lì, rimase fra coloro i quali avevano perso la vita come prezzo inevitabile di una guerra; anche se, nella fattispecie, l’episodio di cui era stato protagonista aveva avuto qualche rilievo, impedendo a un’avanguardia di soldati transalpini di penetrare nella Cittadella. Ma nulla di più. Peraltro, nessuno parlava esplicitamente di sacrificio, perché era difficile stabilire – allora come ora – se Micca avesse acceso la miccia consapevole di rischiare la vita, oppure confidando di potersi riparare in tempo.
Incidente o martirio, imprudenza o eroismo, la morte di un minatore, di una “talpa”, non fece grande notizia. In un assedio, la parte del leone la facevano proprio loro, i minatori, che scavavano senza soluzione di continuità gallerie di mina e di contromina, allo scopo di farsi saltare in aria vicendevolmente, gli assedianti per aprirsi un varco di accesso alla città, gli assediati per respingere il nemico e per fermarlo prima che arrivasse ai bastioni.
Vi è anche da considerare che, nell’apparato militare sabaudo, di tradizioni robuste fin dai tempi di Emanuele Filiberto, aveva un certo peso un pregiudizio sfavorevole nei confronti degli artiglieri e di tutti coloro i quali svolgevano mansioni “operaie” collegate alla logistica, al genio, all’architettura e all’ingegneria militari. Queste persone, per quanto indossassero un’uniforme, erano considerate accessorie e lontane dall’ethoscavalleresco così gelosamente interpretato dagli aristocratici che occupavano, di fatto, tutte le piazze di comando dell’armata piemontese.
L’arte della guerra era l’unica attività che si confacesse a un nobile, mentre qualunque altra funzione che richiedesse studio o applicazione tecnica, per non dire manuale, era considerata “arte meccanica”, vale a dire qualcosa di lontano, anzi di remoto dalla nobiltà, da una condizione che si riteneva trasmessa insieme col lignaggio, col sangue, irraggiungibile con altri mezzi.

Dunque, anche all’interno dell’esercito vigeva una gerarchia secondo la quale la cavalleria era l’arma che più si confaceva alla condizione aristocratica, quindi seguivano le fanterie, e in ultima posizione – se possibile in ruoli difensivi, sugli spalti delle fortezze, ma senza alcun peso su un campo di battaglia – le artiglierie. Si trattava di una questione ideologica, profondamente radicata, emblematica della gerarchia sociale e culturale del mondo sabaudo.
Nel corso del Settecento, pur sempre isolati e residuali nell’armata dei Savoia, gli artiglieri si sarebbero applicati a studi importanti di fisica e di chimica, di architettura e di ingegneria. Ma i nobili in uniforme non ne volevano sapere: di conseguenza, tutte quelle esperienze scientifiche rifluirono nella vita civile, fornendo conoscenze e macchinari alle prime industrie tessili e meccaniche piemontesi. Verso la fine del secolo, con la protezione di Vittorio Amedeo III, venne fondata l’Accademia delle Scienze di Torino, che ben presto diventò un avamposto scientifico e tecnologico di prima grandezza in Europa. Ininfluente nell’esercito, si trasformò in un centro di ricerca assai utile per lo sviluppo del settore industriale. Nel frattempo, era trascorso un secolo dall’assedio di Torino e nuove prospettive politiche portavano il Piemonte a guardare all’Italia. Fu in quel torno di tempo che venne riscoperto Pietro Micca, considerato allora come l’antesignano di una resistenza alla Francia e una sorta di protomartire della causa risorgimentale italiana. Oltre che la figura esemplare di un gesto eroico che prescindeva dalla nobiltà dei natali.
Questo ritratto popolare traversò indenne l’Ottocento e gran parte del Novecento. E se oggi possiamo dire che non fu colpa, ma merito suo e dei suoi colleghi artiglieri se Torino divenne il centro scientifico e tecnologico più importante d’Italia, e in seguito la sede della più nota industria metalmeccanica della Penisola, dobbiamo comunque riconoscere che oggi nessuno – o quasi – ricorda più il suo nome e la sua vicenda.
Anche Pietro Micca è rientrato nell’ombra stesa da chi si dice pentito d’aver “conquistato” il Sud, d’aver creduto nell’Unità d’Italia, d’aver speso denari ed energie per affrancare gli “affricani” e farne un popolo “lavato” e civile. Eroe misconosciuto, in un primo momento, poi assurto agli onori della storia risorgimentale (così povera di protagonisti proletari, se si escludono Micca, appunto, quasi spirito anticipatore, e un Amatore Sciesa quasi tirato per i capelli), e infine inutile e quasi fastidioso personaggio, da riseppellire nell’italico dimenticatoio, senza alcun rimorso.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2010