Marzo 2010

PER UNA RISCOPERTA DELLO SCRITTORE DI SAN CESARIO DI LECCE

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Il caso Saponaro

Enrico Tiozzo

 
 
 

 

 

 

 

Romanzo blu.
Raramente un difficile e delicato rapporto di coppia è stato studiato nella letteratura italiana con pari capacità di scavo psicologico.

 

Non appare esagerato parlare di un caso letterario a proposito dell’oblio critico e storiografico in cui da oltre mezzo secolo sembra irrimediabilmente caduta l’opera di Michele Saponaro, almeno quando si riflette sulla grande popolarità e sul successo di pubblico di cui lo scrittore di San Cesario godette in modo pressoché continuato e non senza confortevoli giudizi critici a partire dall’esordio come romanziere nel 1914, con La vigilia, fino alla lunga e fortunata stagione delle biografie, conclusa con il libro su Gesù, nel 1949.

In un confronto con l’opera di altri notissimi scrittori d’intrattenimento del primo Novecento come Luciano Zuccoli, Guido da Verona, Pitigrilli e Lucio d’Ambra, emarginati senza motivo dalle storie letterarie e dal canone degli autori italiani tra le due guerre, la produzione e la figura stessa di Saponaro presentano tuttavia notevoli differenze. Nei confronti di quegli scrittori la damnatio memoriaeera infatti dovuta soprattutto, se non addirittura esclusivamente, a motivi ideologici, con una malaugurata confusione, da parte della storiografia letteraria italiana dal secondo dopoguerra in avanti, tra questioni di pura matrice politica e volute forzature di prospettiva storica. Senza tenere conto del fatto che tutti questi romanzieri erano già celeberrimi in Italia prima dell’avvento del Fascismo, si sostenne (e ancora si sostiene) intrepidamente la tesi che fossero stati favoriti – e quasi imposti – dalla dittatura, della quale sarebbero anche stati i bardi celebrando, nelle loro opere, la figura del superuomo, peraltro malamente scopiazzata dall’opera di D’Annunzio e riadattata ad uso e consumo di un «pubblico di sartine e di barbieri» intellettualmente sottosviluppato e incapace di distinguere tra “alta” e “bassa” letteratura.
Questa posizione critica devastante (ribadita con forza, tra gli altri, da Umberto Eco nei primi anni Sessanta contro l’opera di da Verona, ritenuta «irrecuperabile») si basava quasi sempre sulla mancata lettura delle opere condannate, ricche invece di tematiche multiformi e di personaggi complessi, portatori di dubbi esistenziali, critici nei confronti della società italiana degli anni ‘20 e ‘30 e, non di rado, esponenti di una mentalità libertaria, ribelle e dichiaratamente antifascista.

Nel concreto tuttavia la squalifica critico-storiografica del secondo Novecento è servita efficacemente a impedire la ristampa o la nuova edizione di opere narrative che avevano appassionato la borghesia italiana della prima metà di quel secolo e che erano state vendute in centinaia di migliaia di copie. Negli ultimi vent’anni è stato riedito un solo romanzo di Zuccoli, di d’Ambra nessuno. Dei più “fortunati” Pitigrilli e da Verona sono riapparse quattro o cinque opere a puro titolo di curioso revivale per lo più solo per essere sommerse da una nuova ondata di critiche malevole o di grossolane approssimazioni tendenti a vedere in quelle opere esempi della letteratura “pornografica” che stuzzicava gli appetiti dei nostri nonni. Quello su cui in sostanza più insiste l’impostazione ideologico-critico-storiografica vigente è che quelle opere riproporrebbero un mondo decadente, aristocratico o altoborghese, di lusso e di vizio (peraltro falsi e di accatto), con protagonisti ricchi e sfaccendati, impegnati unicamente a sedurre le donne fatali di turno, insomma degli Andrea Sperelli in sedicesimo, aggirantisi nei quartieri eleganti di Roma, di Milano o di Parigi, del tutto privi di spessore intellettuale e di problemi interiori.

Tutto questo armamentario critico, peraltro approssimativo e fallace, non può comunque essere adoperato nei confronti di Michele Saponaro, il quale prima di tutto – pur abitando a Milano negli stessi anni in cui in quel grande centro letterario ed editoriale viveva e lavorava Guido da Verona – non fece mai parte del gruppo di scrittori-viveurs, di cui parla Carlo Linati nel suo Il bel Guido e altri ritratti, abituati ad incontrarsi in Galleria e a sedere ai tavoli del Biffi o di Savini per sfoggiare le giacche confezionate a Londra e le cravatte acquistate a Piccadilly. E ancora, sempre rimanendo nel campo delle caratteristiche riscontrabili anche a livello epidermico prima di entrare in quelle più dettagliate e relative al contenuto delle opere, Saponaro si differenzia dal terzetto Zuccoli-da Verona-d’Ambra, scomparsi tra il 1929 e il 1939, per essere sopravvissuto alla fine del Fascismo e per aver continuato a pubblicare (senza subire processi di epurazione, come avvenne invece a Pitigrilli) fin quasi al termine degli anni Cinquanta. Certamente la differenza fondamentale tra la narrativa di Saponaro e quella dei quattro principali esponenti di una linea narrativa di cui, in altra occasione, abbiamo definito le particolari caratteristiche dandole il nome di “romanzo blu”, consiste però soprattutto nei temi e negli scenari cari allo scrittore di San Cesario, non del tutto e non sempre collocabili nell’area della narrativa realistico-sentimentale italiana della prima metà del Novecento e tali da conferire a Saponaro una sua speciale fisionomia come narratore.

Al romanzo blu (che in estrema sintesi s’identifica nella narrativa sentimentale italiana di grande popolarità, ma al tempo stesso di alta qualità letteraria del primo Novecento, non separabile a livello critico-storiografico dalla produzione della celebrata triade Svevo-Tozzi-Pirandello) Saponaro appartiene di diritto per opere come Io e mia mogliedel 1929, Bionda Mariadel 1936 e Il cerchio magicodel 1939, romanzi nei quali il tema, di volta in volta centrale o sotterraneo, di una complessa relazione sentimentale s’intreccia con spunti e stimoli (veri e propri temi paralleli più che sottotemi) molto impegnativi: quello del viaggio alla ricerca di se stessi, quello del rapporto dell’artista con la società commercializzata, quello della soffocante atmosfera della vita in provincia. Il rapporto, apparentemente lineare ma in realtà profondamente problematico, tra Bianca e Paolo – i protagonisti di Io e mia moglie– riprende in modo nuovo e originale la questione già affrontata da Svevo in Senilità, quella relativa alla possibilità di educare, o meglio foggiare secondo i propri desideri, una persona di estrazione sociale inferiore, e sposta lo scenario lontano dall’Italia spingendo i personaggi in un viaggio, anche esistenziale, che li porta a stabilirsi a lungo in Svezia.
Parallelamente Saponaro concentra efficacemente i suoi sforzi sul ritratto psicologico dei due protagonisti sviluppando, nello stesso tempo, con chiarezza la tesi del progressivo processo di trasformazione e di emancipazione di una donna spinta dal marito verso comportamenti a lei inizialmente estranei e potenzialmente distruttivi per la vita di coppia. Paolo si rivela un velleitario incapace di padroneggiare il corso degli eventi e, nel climaxossessivo che scandisce i passaggi della sua gelosia, affiora gradatamente il ritratto, nitido e accurato, di un nevrotico, vicino, in questi suoi aspetti patologici, sia al Giorgio Aurispa di Trionfo della morteche ai protagonisti di numerose pagine moraviane. Bianca, da un ritratto iniziale leggermente forzato che la fa apparire come una sorta di selvaggia, arriva a una convincente maturità senza tuttavia mai perdere del tutto la sua capacità di adattarsi agli strani comportamenti del marito, che finisce per apparire assai spesso più ingenuo e sprovveduto di lei.

Il pittore Giorgio Murra, in Bionda Maria, accetta la sfida pirandelliana della falsa morte agli occhi della società ma, a differenza di Mattia Pascal, viene assistito in quest’operazione da un astuto regista, un mercante d’arte ebreo che intende sfruttare la fama che tradizionalmente accompagna gli artisti scomparsi in giovane età.
Lo spunto, già di per sé felice, viene arricchito ulteriormente da Saponaro con l’inserto di una parentesi idilliaca trascorsa dal protagonista nel magico paesaggio salentino, tra la campagna e il mare, e con il susseguirsi di tre diverse relazioni sentimentali (con la figlia di una domestica, con una borghese viziata, con una sensibile e appassionata maestra) che – pur inserendosi a pieno titolo e con buoni risultati narrativi nella cornice del romanzo blu – disegnano nello stesso tempo un efficace e coinvolgente spaccato sociale dell’Italia degli anni Trenta, facendo intravedere in maniera inequivocabile dove risiedano le simpatie e in quali direzioni si muovano le aspirazioni dello scrittore.

Al culmine di questo abile processo di scandaglio del romanziere nel pubblico e nel privato di una società percorsa in quegli anni da grandi trasformazioni, Anita, la protagonista de Il cerchio magico, è una sensibile Bovary del Novecento che si scopre di colpo legata – attraverso un matrimonio combinato dai parenti – ad un uomo formalmente irreprensibile e caratterialmente gentile, ma al quale si sente del tutto estranea. L’abilità di Saponaro consiste qui proprio nell’accortezza, con cui viene tracciato il ritratto psicologico del marito, un professore di ginnasio stabilitosi con la consorte nella provincia pugliese, e nell’evitare con la massima attenzione la trappola dell’accumulo dei lati negativi a carico di uno dei due protagonisti. Il professore è comprensivo, paziente, tollerante fino all’estremo nei confronti della moglie che silenziosamente gli rimprovera tutto: la non avvenenza fisica, la dedizione alla ricerca erudita, la passione per lo spiritismo, l’amore per la musica, in un crescendo parossistico di livore e di odio, in realtà ingiustificati, che hanno tuttavia la loro vera e comprensibile spiegazione nella situazione di passività a cui la donna – libera da impegni esterni di lavoro e senza figli – è costretta suo malgrado e che la spinge a fughe solitarie nella campagna e perfino al progetto della seduzione di uno degli allievi del marito. Raramente un difficile e delicato rapporto di coppia è stato studiato nella letteratura italiana con pari capacità di scavo psicologico, e il pensiero – per numerosi punti di contatto tra i due romanzi – va al romanzo del 1949 di Alba de Céspedes, Dalla parte di lei, che la scrittrice considerava fondamentale nella sua produzione.

Ma a fianco del Saponaro del romanzo blu c’è lo scrittore di opere come Nostra madredel 1921, di Un uomo. L’adolescenzadel 1924, di Lo sconosciutodel 1937, in cui – grazie all’ambientazione, anche di matrice autobiografica nella campagna salentina – Saponaro riesce a far convivere l’idillio paesaggistico di una terra da lui profondamente amata e quotidianamente rivissuta e idealizzata attraverso la tavolozza dei colori e il flusso ininterrotto delle sensazioni e dei ricordi con gli stimoli di una seria denuncia sociale sulle condizioni dei lavoratori agricoli, di un’intensità e di una forza talora sorprendenti che, mentre svelano senza ombra di dubbio dove risiedessero le simpatie politiche dello scrittore, inducono a riflettere su quali fossero veramente il peso e la capacità della famigerata censura del Ventennio fascista.
In una scena de Lo sconosciuto, che è difficile dimenticare, un giovane nobile, senza particolari responsabilità o colpe personali, rischia di essere linciato dai contadini inferociti solo per essersi mostrato a cavallo sulle terre da loro coltivate, mentre il protagonista idealizzato del romanzo, «forte e bello come un dio selvaggio», mostra orgoglioso ai bifolchi le sue mani incallite dal lavoro e divide con loro il frugale pasto a base di «pane aromatico e croccante», innaffiato da «un sorso di vino».
Studi recenti – in particolare quelli di Antonio Lucio Giannone dell’Università di Lecce – hanno messo in luce gli aspetti della vasta produzione saponariana che meritano di essere studiati con attenzione per una riscoperta critica dello scrittore, certamente disgiunta da qualsiasi intenzione preconcetta di rivalutazione a priorima anche finalmente libera da quella insopportabile conventio ad excludendum, di cui Saponaro è stato vittima e che rende oggi quasi impossibile trovare il suo nome nei lavori storiografici più o meno canonici, da Luti a Petronio, da Ferroni a Spinazzola, da Spagnoletti a Luperini, solo per citare qualche nome tra i molti che se ne potrebbero fare.
In questo contesto – e nella nostra ferma convinzione critica del diritto di Saponaro a un reinserimento a pieno titolo nel canone dei narratori più significativi del primo Novecento italiano – vale la pena di ricordare la singolare circostanza della decisione da parte dello scrittore di abbandonare la narrativa d’invenzione, verso la fine degli anni Trenta, per dedicarsi quasi esclusivamente alla stesura di una serie (peraltro assai fortunata tanto per il pubblico quanto per la critica coevi) di biografie di uomini illustri che avrebbero avuto per protagonisti alcuni degli idoli del suo mondo intellettuale, come Carducci, Foscolo e Leopardi.
Su questa singolare e consapevole scelta del passaggio dalla prosa d’invenzione alla prosa saggistico-storica sulla base di un materiale documentario preesistente varrà certamente la pena d’indagare con attenzione anche alla luce di alcuni passaggi illuminanti dello scrittore, contenuti nel Diariopubblicato postumo. Ne dovrebbe uscire l’immagine di un Saponaro raffinato saggista, capace di giovarsi dell’eleganza del suo stile e della saldezza dei suoi principi morali per un percorso letterario paragonabile a quelli di Sciascia, di Calvino, di Magris.

   
   
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