Marzo 2010

ALLA RICERCA DEI POETI DIMENTICATI

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In Ombra

Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva

Coll.:
Giovanna Arigliani
Alessandro Olmo
Enzo Oxilia
 
 

 

 

 

Sfolgorio albale.
La poesia è
fuori del tempo,
è destinata
all’eternità, vive
in se stessa e
s’incarna quando il poeta incanta
il mondo con la sua passione e col suo fiato profetico.

 

 

Lo si vuole gnomico, nel senso democriteo, e filosofico, nel senso metafisico di un Bruno o di un Campanella, il poeta Edoardo Cacciatore. Fu certamente talento di riconoscibile area meridionale. Sicché la sua poesia metafisica comunque attinge al vero, senza mai essere didascalica. Simultaneamente canta e dice, («Eppure sangue piove e non discosto / dall’obiettivo un parapetto di gridi / belvedere è d’un tremito / guarito a furia d’agosto»), senza che questo impedisca la creazione di versi di stupenda compiutezza poetica («Fuori adesso è fuori e non basta affacciarsi. / L’emoglobina fu l’intimo e a grumi altare / sangue d’idee che poi ad un tratto scivola / su confidenze spinose e addio parole / circostanziate assassinio o burla frivola / sotto le palpebre tacquero e a che spiare»).
Dall’opera poetica di Cacciatore, sostengono due antologisti, Marco Albertazzi e Marzio Pieri, non si esce estraniati: «Al contrario. La miriade di microcosmi che ciascuna sua poesia contribuisce a creare non è mai un gioco letterario fine a se stesso. Se ne intuiscono i motivi profondi...»: («Agile tutto su smalti / curva ondeggiante a livello / dei desideri / nero su verde che a salti / non sei nemmeno più uccello / su prati veri / soffio cresciuto in istoria / sommossa e pubblica accusa / moto iniziato / stinge il sangue ed in memoria / la voglia a sbalzo ora usa / oro e miniato»).
Straordinaria eccezione, l’opera poetica di Emilio Villa, cultore di filologia semitica e paleogreca, traduttore del poema accadico Enuma elie – in prosa – dell’Odissea. Ragion per cui in molte sue poesie, sebbene scritte in italiano, («lingua di schiavitù», dell’“Ytaglya” accademica), compaiono numerose inclusioni nelle lingue più disparate, dalla latina alla greca, alla provenzale, alla francese, a quelle semitiche, che suggeriscono l’idea di un «impasto magmatico ed enigmatico».
Scrive in Linguistica: «Non c’è più origini. Né // Né si può sapere se. / Se furono le origini e fede // idolo di Amorgos!... // No, non c’è più origini. // No. // Ma // il transito provocato delle idee antiche – e degli impulsi... // Chi arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza / usava lo spirito senza rimedio nel momento in decisivo / come un compasso disadattato, non esperto, così non si poteva / agire più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione / senza essenza // Chi le braccia levava saziate di viole nel palpito assortito / oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito / immune che popola e corruga a segmenti il nembo / delle testimonianze storiche... // E non per questo celebro coscientemente il germe / sepolto, al di là, / e celebro l’etimo corroso dalle iridi foniche, / l’etimo immaturo, / l’etimo colto, / l’etimo negli spazi avariati, / nei minimi intervalli, / nelle congiunzioni, / l’etimo della solitudine posseduta, / l’etimo della sete / e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate / dalle fosforescenze idumee, idolo di Amorgos!».
Tanto è ricca di effluvi di luci e di colori d’azulejos la poesia di Onofri, quanto è venata di oscurità e di disperazione quella di Guido Ceronetti, che nel suo mondo in bilico sul precipizio sembra non lasciare alcuno spazio alla speranza («Sulle teste visibili, sulle mani prendibili / tra un gesto e un osso, tra un capello e una cavità // tutto è messo per affondare / mai nulla il buio restituirà»; e altrove: «Vinti e perduti ci vuole il creatore: / troppo trasfuse in noi di sé l’Occulto»). Una qualche possibilità di riscatto può emergere – ma a fatica – dalla «lucida contemplazione del disordine». Allora nel contesto metafisico della sua poesia si colgono i bagliori che illuminano la notte e il lettore («Lontani rivivrai qui tra i dormienti / e il Nulla nome avrà per te di amore»).
La sovversione del linguaggio in questo schivo-irridente poeta diviene valido strumento epistemologico, e svela una verità pessimistica: in un mondo in disgregazione, la realtà dell’uomo è la morte. Ciascuno cerca la salvezza per sé. E in questo modo, le onofriane «melodie rapprese in mondo» nei «tremolii di finezze moribonde / trasalimenti di bellezza invalida / li indossiamo in ricordi suicidi». Ogni afflizione si fa nota sublime, ribadisce Ceronetti, secondo il quale a Onofri mancherebbe la musica: altra prova, se così si può dire, della complementarità dei due, come delle luci e delle ombre, delle albe e dei tramonti, di due estremi – cronologici e di geografia poetica – che finiscono fatalmente per incontrarsi.

Premessa d’obbligo, prima di inoltrarci nello scandaglio della poesia d’amore: ma che cos’è la poesia? Si potrebbero riferire le risposte, dirette o indirette, di moltissimi scrittori, saggisti, interpreti di questa suprema forma d’arte che abita fra gli uomini dalla notte dei tempi. Per il nostro Vittorio Pagano, «poesia / non è che il senso di sé, la Misura / d’un poco d’ombra...». Per Emily Dickinson, poeta è «colui che distilla / effetti sorprendenti, / essenze incomparabili / da immagini comuni / da specie familiari / che alla soglia perirono», mentre per Ungaretti «poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento...», (definizione, più fiduciosa di quella del Corazzini, poi ribadita nei versi dedicati al “Gentile / Ettore Serra”). Per Antonia Pozzi è una forma di elevazione-tensione spirituale che ispira persino – in vero e proprio senso religioso – una preghiera: «Oh, tu bene mi pesi / l’anima, poesia: / tu sai se io manco e mi perdo, / tu che allora ti neghi / e taci. / Poesia, mi confesso con te / che sei la mia voce profonda: / ho camminato sul prato d’oro / che fu mio cuore, / ho rotto l’erba, / rovinata la terra – / poesia – quella terra / dove tu mi dicesti il più dolce / dei tuoi canti... / Poesia, poesia che rimani / il mio profondo rimorso, / oh, aiutami tu a ritrovare / il mio alto paese abbandonato –. / Poesia che ti doni soltanto / a chi con occhi di pianto / si cerca – / oh, rifammi tu degna di te, / poesia che mi guardi».
Per Ezra Pound il richiamo della poesia è una “lotta” quasi ossessiva, come un grido del cuore che non può essere represso: «Su di me c’è ancora un tremore nel tramonto, / e piccoli elfi rossi di parole gridano: “Un canto”, / piccoli grigi elfi di parole gridano per un canto / piccole foglie gialle di parole gridano: “Un canto”, / piccole foglie verdi di parole gridano: “Un canto”, / le parole sono foglie, vecchie foglie gialle già di primavera, / portate qua e là dal vento vanno cercando un canto». E se Valerio Magrelli sostiene di fare lo stesso lavoro dell’imballatore: «Anch’io faccio cambiare casa / alle parole, alle parole / che non sono mie... / È questo il futuro, la spola, il traslato, / trasferimento e tropo...», D’Annunzio i carmi «son prole / delle foreste, / altri dell’onde, / altri delle arene, / altri del Sole, / altri del vento Argeste...». Vittorio Sereni e Antonio Porta, infine. Per il primo, «si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c’è sempre / qualche peso di troppo, non c’è mai / alcun verso che basti / se domani tu stesso te ne scordi»; e per il secondo la poesia deve parlare a tutti per mezzo del profeta-intermediatore, la cui parola tornerà a farsi musica: «Prego che la poesia / forte e pietrificata / in passato e futuro / voglia sgorgare adesso liquida / musica su da un pozzo inesorabile / (fin che l’uomo abiti la terra) / e questo scorrere sorgivo e antico / passa dal filtro mio / ma è poi di tutti, / insieme ci mettiamo in ascolto».
Ma è bene semplificare, se possibile, l’apparato critico, e suggerire la definizione più semplice, immediata: poesia è la parola che sottrae al buio e libera dalla notte ciò che esiste, scendendo su cose ed eventi come luce che li fa “essere” nella loro inconfondibile specificità: come la luce aurorale che richiama quella della prima creazione che sottrae all’indistinto quelle cose e quegli eventi, li fa esistere chiamandoli per nome, accendendoli. Sfolgorio albale, dunque, la poesia è fuori del tempo, è destinata all’eternità cui anela, vive in se stessa e s’incarna quando il poeta agisce incantando il mondo con la sua passione ispirata, col suo fiato profetico, con la sua partecipazione non solo alla creazione, ma anche alla presa di coscienza, dunque alla redenzione di quel medesimo mondo.
Sismologo della contemporaneità, il poeta è sempre uno spirito fondatore che dialoga con gli dèi, al modo degli antichi vati. Sa essere semplice come un gesto antico, è capace di intuire, cogliere e governare le contraddizioni, di dare il senso dell’immemorabile lunga durata e dell’immediato quotidiano.
L’amore, poi, è un seme che feconda la poesia, in cui muore come il chicco di grano nella terra, per rinascere come afflato lirico, libero dai ceppi concettuali, filosofici. Terrestri. È in questa poesia che l’io si crocifigge, per attingere a più profondi scandagli, con parole che sottendono altre parole, con messaggi solari e ombrosi, con sapienza di botteghe artigiane del verso, con epifanie della gioia e dello spleen, con epicità espressive e sintassi infrante, con sperimentalismi valicati, con corsi e ricorsi di sentimenti. È l’amore: perché, come ha scritto Puškin, «il canto suo non ha catene / ed è davvero come il vento».

Amore. E anche nostalgia che svela memorie ondulari. O riflessioni su realtà amare. E ballate e omaggi e invettive e sogni e solitudini... È illimite lo spartito, solo a fermarci alle voci dal medio ‘900 al decennio zero del terzo millennio. Con una veloce carrellata, nel corso della quale, oltre ad alcuni grandi – e come tali riconosciuti – scrittori italiani, saranno presenti molti pugliesi, nostra gente di periferia, d’esilio e di frontiera, cantori di canti liberi per una donna o una terra o un’idea, voci ed echi di generazioni resistenti, in diaspora, in silenziosi ritorni, in incorrotte solitudini.

Sibilla Aleramo: «Immagini risorgono nel vento, / nuovo il tempo ritorna, / un dono eri alla vista e al cuore / quando nudo correvi per lo stadio deserto / nei mattini di Delfo, / alta la fronte al vento dell’aprile, / simile a pura strofe / sorridevi agli Dei, / su me beata / i dolci occhi posavi / più dell’aprile gioiosi, / nella gran luce della primavera / un dono eri degli Dei...».
Camillo Sbarbaro: «Ma te la mia inquietudine cercava / quando ragazzo / nella notte d’estate mi facevo / alla finestra come soffocato: / che non sapevo, m’affannava il cuore. / E tutte tue sono le parole / che, come l’acqua all’orlo che trabocca, / alla bocca venivano da sole, / l’ore deserte, quando s’avanzavan / puerilmente le mie labbra d’uomo / da sé, per desiderio di baciare...».

Luciano Folgore: «Un brivido nello spogliatoio di seta, / un mormorio sulla finestra socchiusa, / un filo d’odore, venuto / dalla notte delle acacie aperte, / e una grande farfalla che ignora / che intorno a te / non si bruciano le ali, / ma l’anima».
Sandro Penna: «Ride su me la primavera. Tornano / le rondini, si sa. Volano via / via le parole degli amici stolti. / Ritornano, per me, ora le antiche / parole dell’amore. In te, fanciullo, / splendono. Giuocano nei tuoi passi / incerti. Ma certa in te cammina / solitaria e tranquilla la felicità».
Piero Bigongiari: «Tu che irrori la mensa ed alzi il calice / all’altezza degli occhi, io che ti bevo, / cieco, e ti tocco sulle labbra, ecco // io per te sono l’ultima favilla, / già tuo nel quieto spegnersi per l’aria, / ma non tuo per il fuoco che ha condotto / questo parere ad essere, già fiamma / nel brivido di freddo che le imposte / aprendosi ora lasciano filtrare / d’un giorno, questo: giorno tuo se è mio».
Maria Luisa Spaziani: «Amarti in solitudine, percorrere / curve di luna con le labbra. Palpita / il gran sesso del mare che si rotola / e feconda se stesso nell’abisso. // Amarti in solitudine è perfetto / grido del sangue, domanda e risposta. / Gran cerchio che si chiude, superficie / maledetta stellante di occhi chiusi».
Alda Merini: «Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento / gemmando fiori da ogni stanco ramo / e fiorita son tutta e d’ogni velo / vo’ scerpando il mio lutto / perché genesi sei della mia carne. // Ma il mio cuore, trafitto dall’amore / ha desiderio di mondarsi vivo. // E perciò dammi un figlio delicato, / un bellissimo vergine viticcio / da allacciare al mio tronco, e tu, possente / olmo, tu padre ricco d’ogni forza pura / mieterai liete ombre alle mie luci».
Francesco Zedda: «Se tu mi neghi un bacio torno all’ombra / ma quando tu mi leggi ad alta voce / il verso mio ti brilla sulle labbra: / colombe in volo in porpora d’aurora».
Vivian Lamarque: «Innamoratamente, mentre lui leggeva lo guardava. / Tra le sue lunghe ciglia di alberelli vedeva nidi di famiglie cinguettanti e numerose, lì sui rami all’ora di cena tutti insieme si mangiava. / L’azzurro filo d’inchiostro con attenzione il signore seguiva bene per capire. / Non lo disturbavano il cinguettare e il solletico delle piume tutt’intorno? / No, poiché quel signore studioso era anche naturale».
Giuseppe Rosato: «Sul margine dell’ultimo silenzio / che voce può più giungerti, per quale / attesa da risolverne? Eppure / resti per abitudine in ascolto / se l’immota caligine / si franga d’una voce amata / e se ne smagli un brivido sonoro, / un singulto di luce, per memoria...».
Antonia Pozzi: «Poesia, mi confesso con te / che sei la mia voce profonda: / ho camminato sul prato d’oro / che fu mio cuore, / ho rotto l’erba, / rovinata la terra – / poesia – quella terra / dove tu mi dicesti il più dolce / di tutti i tuoi canti, / dove un mattino per la prima volta / vidi volar nel sereno l’allodola / e con gli occhi cercai di salire...».
Cesare Pavese: «Le finestre sapranno / l’odore della pietra e dell’aria / mattutina. S’aprirà una porta. / Il tumulto delle strade / sarà il tumulto del cuore / nella luce smarrita. / Sarai tu – ferma e chiara».
Stefano Benni: «Le piccole cose / che amo di te / quel tuo sorriso / un po’ lontano / e il gesto lento della mano».
Eraldo Miscia: «Vorrei bruciare come un carro di fieno / lungo la strada del sud, aperta al mare. / E seguire la polvere dei tuoi passi / tra i sentieri di fichidindia / e le rovine sovrumane e aride / dove le cicale si suicidano nel canto».
Umberto Fraccacreta: «E tu, o Antea, protesa dalla loggia / agli spruzzi dischiudi / l’avida bocca, / e riversa anche tu bevi la pioggia, / riempi di luce gli occhi, / e all’immagine sorridi. // Come la foglia, / quando un’onda di baci t’investe / offri il viso le palpebre i capelli, / folle d’ebbrezza. / Di fresca rugiada / s’imbeve il tuo viso, / alla pressura cedono le palpebre, / si serrano le ciglia, / quasi a un sonno leggero. / Ti svegli alfine / come umida foglia, / e in un barbaglio d’oro schiudi / le lunghe ciglia, o Antea, / fra lagrime e luce».
Margherita Guidacci: «Io non sono il mio corpo. / Mi è straniero, nemico. / Ancora peggio è l’anima, / e neppure con essa m’identifico. // Osservo di lontano / le rozze acrobazie di questa coppia, / con distacco, ironia – / con disgusto talvolta. // E intanto penso che la loro assenza / sarebbe più guadagno che dolore: questa e altre cose... Ma mentre le penso, / io chi sono? E dove?».
Luigi Fallacara: «Ama il raggio posarsi eppoi fuggire, / tingere d’oro il cielo eppoi lasciare / d’ombre distese nell’azzurro ali, / sopra i sonni mortali. // Ma in te diventa balenar d’un’orma, / colore dell’affetto e una sua forma, / riso d’umida sera / che si fa per durare una preghiera».
Gesualdo Bufalino: «Tu unica, tu viva, tu acqua / e aria del mio vivere / e veemente complice di morte; / tu mio pugno e stendardo / contro le scure procedure della sorte; / tu mio grano, mio grembo, mio sonno, / fuoco d’inverno che sventi l’obliqua / nube di notte dove abita l’Orsa, / tu unica e viva, tu canto / di grave organo e grido / di lenta carne e fiore e cibo, mia roccia / di paragone e tiepida / tana, mia donna, mia donna, tu unica, / tu viva...».
Gino De Sanctis: «Hai il nome / che ogni altro nome precede / sei la Parola / che cuce il giorno alla notte. / Quando lemure s’alzi / o che al deserto scoglio / il vento porti polline di grida / (s’alzano gli albatri / e tagliano il buio marino / lungi dai nidi / attratti da remoti naufragi) / allora vienimi incontro / Parola / muovi il silenzio / prometti l’alba / fammi la strada / andiamo».
Lucio Romano: «Non credere, cara, che con amici a Milano la sera / stia volando in metrò verso nuove avventure. / Non credere. Amo adesso tristezze civili: / strade larghe senza cuore, gialle senza foglie. / Ho tentato, sai, di estirparti dal cuore. Ho tentato. / Ma occhi perlati e seni avvizziti dopo notti d’amore / m’implorano sempre: – Vattene, appartieni a qualcuna, / appartieni!...».
Pasquale Scarpitti: «Oh la Lucania, le sue donne ambrate / che tu vesti di nero, i volti densi / come crete del Bradano, ai vasi ti si levigano! / Il dolore ne fermi ché si serbi, / e ne ravvivi fatica e bellezza / per storie più antiche / dell’antica tua gente. / In te la Magnagrecia non si è spenta».
Antonio Verri: «Se qualcuno ti parlasse di un mondo che ormai / gira sul niente, ti prego, stringi i pugni / mangiati il cuore parla delle ragazze di crema / dei loro fiori in petto, delle melodie di velluto / dei bazar in piazza a Martano / caccia le unghie fai capire che volevamo / fare della poesia di lotta, con Conversano, / dei treni che vanno a Milano, del fustagno / che vestono i poeti, delle croci di mia madre / e che il niente da noi non è innocente, / dei lupi mannari, delle tue notti / da strega, di Bodini dei peperoni / o di quando ci aggiustiamo il sole in testa coi lupini... / oppure dì soltanto che non è da tutti rubare al cielo / i suoi segreti. Non dovercene spiegare le ragioni...».
Domenico Giuliotti: «Quaggiù, tra veli d’ombra, / la terra s’è coricata; / e mentre respira nel sonno, / o parlotta come chi sogna, / sopra le scintillano a miriadi / le sue lontanissime sorelle. / Ti adoro dunque, Signore, / per quel tuo gran giardino capovolto, / le cui tante rame fiorite / sono costellazioni e sistemi di mondi...».
Amelia Rosselli: «Forse morirò, forse ti lascerò queste piccole / carte in ricordo: tu non distribuire / pensieri nelle selve, ai poveri, ma ai / ricchi, dona tutto il mio sangue... Stringi attorno / a me la tua mano fiorita...».
Anna Maria Ortese: «Mio primo amore, pallido ragazzo / una mattina calda: ancora ascolto / il battito del cuore nella gola, / ancora il male sento, il male-bene, / ancora nelle vene / passa il turbato ansare. / Dolore di uno sguardo / fanciullesco, piacere / che strazia di uno sguardo / indifferente sopra noi posato! / E fu breve la cosa. E presto uscita / sui verdi prati, avidamente il male – / bene pensavo, e quanto / l’avrei portato nel mio triste cuore».
Rocco Scotellaro: «Io non so più viverti accanto / qualcuno mi lega la voce nel petto / sei la figlia del trainante / che mi toglie il respiro sulla bocca. / Perché qui sotto di noi nella stalla / i muli si muovono nel sonno / perché tuo padre sbuffa a noi vicino / e non ancora va alto sul carro / a scacciare le stelle con la frusta».
Vittore Fiore: «Cosa penso di te? La geografia sei / e la storia. Senti, immagini, / fragile come siliqua di bosco, / deiscente, acre e forte. / Sei meravigliosa, conosci i verbi / degli ideali, non quelli / degli smaccati sentimentalismi. / Variabile e ferma, lucida, attuale, / caparbia, ambiziosa di cose certe, / pulite, inafferrabili, / da te costruite, di cose diverse, / non opache, ti entusiasmi, / dici parole nuove, / per i miei versi come spade / conficcate nei punti giusti / del corpo, della vita. / Una cosa posso dirti, con certezza: / muovo per questo viaggio meticoloso / e trepido sulla terra dei tuoi dolci / capelli, neituoi occhi dicielo».
Biagia Marniti: «Io spero di fiorire all’alba. / Che tu mi prenda / Amore, carne viva, /usignolo di verde pino. / Sciolta arenaria / la roccia è infranta / o dolcissima fiamma. / Azzurri occhi, acqua di cristallo, / il tuo corpo è terra infinita / ove il morbido seme germoglia».
Giuseppe Selvaggi: «Tramonta la luna, / le mie mani si fanno luminose; / danza Dio sotto l’ulivo grande. / Fra le docili erbe / l’alba ci troverà bagnati / fin nelle ossa, se tu vieni».
Salvatore Toma: «Arriverà / la squaw dei tuoi pensieri / l’anima ideale / i figli ideali / e la vita. / Arriverà la primavera / coi suoi fiocchi rosa / come se avesse partorito / la femminilità. / Arriverà la gioia di vivere / a costo di morire».
Vito Antonio Conte: «Forse un giorno troverai / quel luogo dove lascio naufragare / l’ultimo dei miei perduti sogni // cammini sul filo / equilibrista del mio cuore // in fine potrai riposare sul mio petto / il collo tuo nell’incavo mio ascellare / e il braccio abbandonato».
Giammario Sgattoni: «O se almeno scandissi come allora / note serene! (i giorni erano chiari / d’erba, di sole verdi; e vi annegavi / – tu radice tu foglia – quando il cuore / era nave d’azzurri nel tuo cielo). // Altra vela – e altro vento la scompiglia – / tenta vergini approdi; dentro, un fuoco, / un incendio di amori ti consuma. / La tua vita è il comignolo, che fuma / ed accende la sera a poco a poco».
Giacinto Spagnoletti: «I marinai raccontano / che nel partire sempre / guardano la terra ansiosi: / dove la terra muore / e le ultime palme ondeggiano / sorridenti fanciulle / coi fazzoletti muti / il volo dei capelli neri / promettono ai marinai perduti».
Melanton: «Tu / ferma come il vento / quando sulla pianura / tace ogni spiga / ogni foglia d’ulivo / e anche il mare si piega / lento uguale / al manto meridiano // tu come il silenzio larga / calda come l’estate / che sfalda gli orizzonti // tu lontana e vicina / simile a paradiso / di campagne bucate / d’oro e d’ombra // tu pietra / tu dolce ferita / tu mano che giunge / alla mia mano / tu solo grido...».
Pierluigi Mele: «Si ama – le canzoni, l’acqua, il volo / e s’impara ad amare, come credo col jazz, / certi poeti, il vino, le ombre. / Sul resto spariamo a caso».
Angelo Lippo: «Sono ridotti in polvere gli amori / Quanta storia sconfitta / Senza luce intrecciano / stelle mattutine / Uno spicchio di luna bianca / impazza nel sogno dorato / poi mi chiama, mi percuote / con il fruscio delle onde, / e attendo la Resurrezione».
Giuseppe Villaroel: «E noi, pellegrini d’amore, sentiamo nel cuore una grande / felicità che si spande dal calice d’ogni fiore. // Seguiamo il notturno viaggio, cercando un bene ignorato; / quello che abbiano sognato in un meraviglioso miraggio; // quello che sempre c’invita, senza lasciarsi scoprire, / perché bisogna morire per ritrovare la vita».
Claudia Ruggeri: «Donna del piano porta stati nere / per tutte strade per aligi annotta, / per l’angelo perso illanguidito steso / dentro al ceppo e torno torno mila / grana incenso dice parole, e per la / còscina delle barbe e per la làmpana, l’insensata / affretta: perdila mila pallida / la viatora magata l’ammantata / sperimenta il monte come sempre / e la proibita sembianza...».
Franco Costabile: «Troppo tempo / siamo stati nei monti / con un trombone fra le gambe. / Adesso ce ne scendiamo / muti per le scorciatoie. / Dai Conflenti / dalle Pietre Nere di Ardore. / Dal sole di Cutro / pazzo sulla pianura... // Troppo tempo / a gridarci nella bettola / il sette di spade / a buttare il re e l’asso. // Troppo tempo / a raccontarci storie / chiamando onore una coltellata / e disgrazia non avere padrone...».
Marino Piazzolla: «Somiglia al dolore volato / il tuo volto di ieri. / Compagne della luna come al tempo / delle rose improvvise. / Non sai chi sei; ma intanto una parola / sale dal petto / dove un lume di fiori ti ricorda...».
Vittorio Pagano: «Delle croci che infamano la pace / ed in me tramortiscono / l’amarezza fallibile / di conoscerti in volo, in volo come / la parola più santa / che profanassi, amore, / la parola sospesa alle mie labbra / d’agonizzante, amore, / da quando seppi che alla tua clemenza / derelitta – teatro sventurato / di ruderi – non posso domandare / più nulla, e che non posso domandare / nemmeno agli astri, all’erba / già falciata, Marcella, ed alla nostra / montagna di silenzio, / perché, perché si muore...».
Libero de Libero: «Narrata e bruna all’aria che la cela / tutta negli occhi quella testa, e un fuoco / stretto di labbra il suo segreto brucia / per la guancia che rapida matura / entro la notte bella dei capelli. / Sulla fronte una luna si ricorda».
Ercole Ugo D’Andrea: «Dalla nostra grezza opacità, / onda scialbata, minore, traspare / come può, almeno una volta e sempre, / il viso amato, rassegnato / alla mineralità della sua morte di rosa, / e neppure lo nomino perché / parente è all’angelo povero / e neppure tu lo leggi fra le righe / questo sonno di giada / perché oscuro è l’evento del morire / alla propria sopravvivenza irritata. / Così resta oscurissimo fiore / inerpicato su burroni celesti / e se esce da queste grate / si ferisce le mani, l’anima».
Leonardo Sinisgalli: «So quando fioriscono al Pincio / le mimose, quando gelano i carrubi, / conosco la forma delle tue rose, / delle tue nubi. Ho visto i cavalli / scintillanti guardare il cielo / sui terrazzi, i santi sui parapetti, / le donne dai petti mostruosi, le rondini, / i ragazzi sulle rive dell’Aniene. / Conosco il bene di tanta bellezza. / Sono questi i mirti / che scrollano polvere se li tocco, / sono queste le pietre della giovinezza».
Giovanni Bernardini: «Al caro incanto della vita / apri occhi e colori / e non conosci il vento che ci attende. / Il tuo sorriso segna dolci note / al giorno, ferma i fiotti / del tempo che straripa, / inazzurra i bruni diaframmi / del dolore. Ascolti innocue Sirene, / vivi la favolosa età dell’oro / dipanando il filo d’un cammino nuovo. / Sei rosa fresca aulentissima / che splende pur al gelo dell’inverno».
Raffaele Carrieri: «La bella di Gerusalemme / ha capelli di leone / e odore di noce moscata: / quando si muove / sembra che balli // la danza dei Nove Bracciali. / La bella di Gerusalemme / ha cuore di rondine / e occhi di sole bruciato: / se ride fa breve l’inverno, / fa neve l’estate / la bella di Gerusalemme».
Vittorio Bodini: «Quando tornai al mio paese nel Sud, / dove ogni cosa, ogni attimo del passato / somiglia a quei terribili polsi di morti / che ogni volta rispuntano dalle zolle / e stancano le pale eternamente implacati, / compresi allora perché ti dovevo perdere: / qui s’era fatto il mio volto, lontano da te, / e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare. // Quando tornai al mio paese nel Sud / io mi sentivo morire».
Lorenzo Calogero: «Ma dimmi: e perché mi ami? / La tua giovinezza passata / e presente era una foglia / e perché da un lembo stai. // Ma tanto, quel che ho amato / era la tua giovinezza scorsa / e remota come un canto / nel canto imminente della sera».
Bartolo Cattafi: «Nella bruma del molo dormirai / mentre sul filo del Tropico i pesci ballano / e nel Nord s’invetrano i ghiacciai... / Ti indicheranno le dita rugose / gli aghi sicuri delle bussole pazze / ad altri vagabondi dolorosi / a quelli che cercano il fioco fanale / una tiepida immagine, la tua mano...».
Girolamo Comi: «Creatura per cui ardo e m’abbandono / come al richiamo della Luce-madre, / più che gioia da consumare, cerco / nella tua stessa carne il segno e il dono / della fiamma nativa che riveli / la nostra prima purezza che s’apre / su itinerari segreti di cieli / intensi come il canto interiore / dello spirito quando è solo Amore...».
Antonio Errico: «La nostra vita fu, scrisse Tommaso Fiore. / Fu. / Nelle tombe sulle piazze / nelle rivolte contro niente / nei libri tarmati / nelle torri assediate / sui balconi crollati / nelle chiese bizantine / nei racconti di briganti / negli altri e sulle cime / dei campanili / nei deliri della pietra. // Dalla feritoia del castello di re Carlo / ogni sera s’affaccia un gufo eterno».
Giovanni Francesco Romano: «T’incontrai come apparsa, nella sera, / e il cuore ansiosa e schiva ti portava. / Un lampione oscillando allo scirocco / ti illuminava gocciole / fra i riccioli in tempesta. / Sera d’inverno, e a noi di primavera».
Nico Mauro: «Porterò lontano il mio racconto / ad ogni sosta lascerò una parola / un colore tuo, / e sulla strada del ritorno / come ora / nulla sarà uguale. / Se tu vai via / io saprò / dove riposa il mare».
Cristanziano Serricchio: «Che resterà di te, di me, di quest’ora / che non cede al tramonto? / Non vagheremo più per giorni chiari / e rive di leggenda, non cercheremo / più l’orme dei nostri passi / dove amore crebbe con la torre / alta contro il mare iroso».
Donato Moro: «O Amore, creatore del mondo, / indomito furore dei mortali, / gioia senza fine del creato, / tu porti alla luce le ombre / più fredde della vita, / tu sei l’aereo canto degli uccelli, / il palpito segreto della feconda terra. // Tu come la ridente primavera, / come il seno misterioso dell’estate, / sospingi frementi gli uomini / a respirare il soffio della luce. // E noi con volo d’ala appassionata / ti ricerchiamo ardenti, / per cadere trafitti in mezzo al cielo».
Elio Filippo Accrocca: «Il megafono invoglia / a sfiorare la costa d’altri lidi, a un passo / tra una scogliera e l’altra come gli anni / che rivedo sui fianchi d’altre donne... / Un costume ha il profilo del tuo corpo / che non afferro più da tanto tempo».
Aldo De Jaco: «Cara amica, / stamane / ho chiamato il Griso / e gli ho detto / di rapirti – Ha detto / che non è possibile, che / devo convincerti. Ma è questo / che non è possibile, non so / quale via percorrere. Oh! Naturalmente / so benissimo che in qualunque labirinto / si può giungere al Minotauro / ma io nel conoscerti non ho usato / il filo di Arianna né le molliche / di Pollicino...».
Elisabetta Boldrin: «Ore tese / nel senso di un sorriso / di mani nelle mani / come corpi nell’eco di un bacio. / In un lampo di parola // un demone / inventa un addio, / ma arde / nell’amore che / ricuce fiamme di pazzia, / seta d’ali / se farfalle nere cadono / nell’assenza che / muore».
Salvatore Bello: «Belle occhi neri / specchi di tarantole, / ballano al ritmo / delle zappe / che aprono il cranio / della terra, / canto d’amore / di disperazione, / sete che non si spegne / al bacio della brocca / di creta. / Tornano ai giacigli / le belle / vestendo a lutto / sogni / e magri seni».
Silvio Raffo: «Sentivo che un tempo era passato, / chiuso e finito in me come una storia / che non si dice più; pure durava / qualche cosa di lei viva nel cuore, / qualche cosa a gridare nelle vene: / ed era questo appunto, la sua fine».
David Maria Turoldo: «Io sono la Tua ombra, / sono il profondo disordine / e la mia mente è l’oscura lucciola / nell’alto buio, // che cerca di Te, inaccessibile Luce; / di Te si affanna questo cuore / conchiglia ripiena della Tua Eco, / o infinito Silenzio».
Ario Napolitano: «Mi nutrii della luce dei tuoi occhi; / e mi accogliesti, detersa la mia anima / all’ombra tua fedele, al terso seno / della tua essenza. / Ma nulla seppi offrirti in dono / se non l’idea ferma promessa – di farti dea immortale».
Ida Travi: «Questa è una rosa rossa, tu la vedrai sbiancare nella mano. // Quando la rosa sarà tutta bianca, allora salirà la neve / e il mondo ne sarà trascolorato. // Rosa la luce sulla fronte e sulla guancia rosa un cerchiolino: / ascolta : quando il tuo orecchio è aperto nella neve / tutto il mio occhio è acceso, illuminato».
Daniele Giancane: «T’acceca la luce meridiana, / là è la sede degli emigrati in Canada, / appresso i reduci di guerra e i bersaglieri. // Così è un paese dell’antico Sud, placido / dormiente nell’ora della siesta, / dove si parla a bassa voce / e attendi l’alba fra gli ulivi».
Leonardo Mancino: «Ora è l’ultima tappa nelle terre secche / della sete o quasi, della vita nella mia terra / delle scoperte passioni: la storia la vedo // e non la vedo, / il viaggio per le curve della / salita al Monte racconta / di ulivi luminosi d’argento, / di crochi e colori d’iridio / tracce di narciso e viole; / il cuore viene trascinato fino al formicaio / tra i frantumi di lava / e nel cielo sfrecciano compatte orde / di balestrucci urlando sibili acuti...».
Raffaele Nigro: «Il Vulture ha una piuma di nubi sul cappello / Venosa è là dietro, / tra Canosa devastata e Melfi ventosa. / Orazio ride di questo imbroglio / di matasse, a destra Puglia e a sinistra paglia. / Coi peperoni appesi / si è fatto una corona da poeta e non sa più / se scriva versi pugliesi o lucani».
Bruno Epifani: «Su questa terra vivono / donne nere / e senza volto / Ma forse vivono / come questi miei giorni assurdi / e vanno / insieme alla morte / vanno a scavare la terra senza fondo / e chiudere il dolore in una buca...».
Lino Angiuli: «Se poi mi metto col pensiero / profuma d’acquafresca il tuo sorriso / quindicenne / quando lasci che io me lo abbracci / senza bisogno di usare le braccia / basta lasciare combaciare gli occhi / acchiappare per le ali un lunedì qualunque / e farne – che so – un’albicocca / senza torcergli neanche un capello».
Rina Durante: «Questo è l’eterno silenzio / denso di rumori che nessuno ascolta, / la quiete febbrile, animata / di parole arcane, / bisbigli del vento / fra i picchi delle scogliere. / Questa è la mia terra / che tra le mani a clessidra / lentamente mi scorre / con lo stesso ritmo del sangue / che palpita nelle mie vene».

(2 - continua)

   
   
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