Marzo 2010

ARCHITETTURA A PASSO D’UOMO

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I cataloghi incompiuti

Tonino Caputo - Manlio Ercolani - Renato Mosillo

Coll.:
Eraldo Lazzari
Carmine Guida
 
 

 

 

 

Per mettere
in sicurezza il
nostro territorio
e le persone che lo abitano sarebbero
necessari almeno 20-25 miliardi di euro: meno di quelli spesi dopo ogni disastro
annunciato.

 

 

Cinquecentomila edifici monumentali nel Belpaese, a fronte di circa 45mila in Francia, ancora di meno in Germania, in Spagna, nel Regno Unito: cioè, una massa enorme, cui sono da sommare i tessuti urbani antichi di centinaia di città e di migliaia di insediamenti minori: di tutto questo sono incerte la conoscenza e la tutela. E per di più, dei pochi stanziamenti disponibili per i restauri, si spende poco meno di un terzo, il 30 per cento.
50mila, dunque, i monumenti che sono stati schedati in Italia, mentre sui rimanenti 450mila si fanno soltanto varie ipotesi di lavoro. Quattrocento funzionari si occupano della tutela delle architetture, simultaneamente confrontandosi con le economie di bilancio, con gli antiquati mezzi di trasporto per i sopralluoghi in pianura e in montagna, con la scarsità di personale (autisti, esperti di computer, rilevatori), con gli architetti costretti a fare di tutto (a 1.300 euro al mese, o poco più).
Questa la situazione della tutela del nostro territorio, che è enorme, dove il privato e la speculazione si fanno largo anche con prepotenza. Gli uffici italiani, infatti, devono esprimere pareri motivati, con ricerche sia d’archivio sia sul campo, e con successivi controlli, a circa 200mila richieste all’anno. Sicché ciascuno dei quattrocento funzionari dei Beni Architettonici dovrebbe verificare, in media, 500 monumenti all’anno, anche se in certe regioni si arriva a 1.500 o a 2.000. Ciascuno di loro dovrebbe visitare il monumento, analizzarne le strutture, suggerire soluzioni, aprire un tavolo di lavoro per ciascun progetto, discutere del tessuto urbano e dell’ambiente, esaminando le architetture che danno il senso di un sistema. Che cosa sarebbero Siena o Mantova o Orvieto, o Bologna o Assisi, tanto per fermarci alle latitudini centro-settentrionali, se non si fosse tutelato lo spazio urbano, se non si fossero controllati gli interventi privati, i materiali, le tecniche, per evitare le violenze che si vedono tanto spesso in giro? Certo, ci sono aree che restano escluse dal controllo ministeriale, come le regioni a statuto speciale, dove gli assessori decidono autonomamente: e vengono subito in mente le speculazioni attorno all’agrigentina Valle dei Templi, o la programmata distruzione delle carceri ottocentesche di Trento...

Le cupole della Basilica di San Marco, a Venezia, viste dal campanile.

Archivio BPP

I quattrini per il restauro architettonico vengono fuori da tre fonti: i fondi ordinari, quelli del gioco del lotto, e quelli privati, questi ultimi ovviamente non valutabili. Ebbene, i fondi ordinari dal 2002 ad oggi hanno subìto notevoli tagli, imponendoci una domanda ineludibile: com’è possibile che si destini una parte irrisoria del denaro pubblico alla tutela di quel patrimonio che porta ogni anno in Italia decine di milioni di turisti e miliardi di euro?
In tempi lontani, Carlo Ludovico Ragghianti (citato da Arturo Carlo Quintavalle) suggeriva di considerare i monumenti, le pinacoteche, le città, a livello delle nostre miniere o dei nostri pozzi di petrolio, cioè come le nostre rendite finanziarie; ma, per fare questo, serviva una seria tutela, a cominciare da quella del paesaggio, tutela che, da generazioni, non è riuscita a imporsi – ad esempio – alla costa ligure, a quelle campana, della Puglia, della Calabria, della Romagna, della Sardegna.
Certo, poi è venuta la legge Galasso, che vieta l’edificazione lungo le rive del mare, ma il danno era stato già fatto. Si pensi all’abusivismo edilizio che ha distrutto la forma delle nostre città antiche, creando anche al loro interno, salvo pochissime eccezioni, edifici mostruosi.
Dopo il terremoto in Umbria e nelle Marche, dopo quello in Molise, e soprattutto dopo quello in Abruzzo, (che hanno messo a rischio Giotto e Cimabue, o hanno accartocciato bellissime chiese e splendidi palazzi che identificavano città e territori, minacciando il centro della civiltà del nostro Paese), dopo i veri e propri miracoli dovuti alla devozione di soprintendenti e tecnici del restauro per salvare quanto non era stato letteralmente sfarinato, si è chiesto agli uffici periferici ministeriali una verifica degli edifici, anche perché quasi due terzi del territorio italiano sono in zone sismiche. Ma come si farà a controllare la stabilità di decine di migliaia di monumenti; e, oltre tutto, come si riuscirà ad intervenire là dove ce ne sarà bisogno?

Ma quali sono, oggi, alcuni dei maggiori cantieri di restauro finanziati con stanziamenti pubblici? L’impegno più consistente è per gli Uffizi fiorentini: si tratta di 35mila metri quadrati, con la loggia Isozaki, per un sistema complesso, ricco di spazi per il pubblico e proiettato anche verso il sistema esterno per invogliare i visitatori ad osservare il tessuto urbano e a visitare gli altri musei.
Identica politica adottata per la Galleria dell’Accademia a Venezia, che in pratica viene raddoppiata, passando da 5.800 a 12.000 metri quadrati. Ora frequentata da pochi visitatori, secondo il progetto dovrà diventare un nuovo polo nel sistema urbano. Altro cantiere, il milanese Palazzo Litta, con i suoi 8.500 metri quadrati, destinato ad essere un grande centro di cultura e una moderna sede espositiva.
Ancora nella città lagunare, Palazzo Grimani, di 3.000 metri quadrati, che vedrà recuperato lo spazio interno e farà risultare meglio comprensibile l’originaria configurazione dell’antica, preziosa collezione archeologica che custodisce.
Al Centro d’Italia, interventi a Villa d’Este, a Tivoli, con un restauro imponente: architettura del verde (bellissimo il parco) e giochi d’acqua, restauro degli esterni e degli interni, un lavoro concluso. In corso, invece, gli interventi nella Reggia e nel complesso vanvitelliano di Caserta, compresi il restauro della celebre cascata e la pavimentazione degli uffici, e quelli nel Palazzo reale di Napoli, che oltre alla manutenzione hanno previsto il restauro delle ex scuderie borboniche e quello degli splendidi giardini pensili.
Complessi gli interventi all’Aquila, e difficili da riassumere, dopo le rovine causate dal sisma. È l’intero territorio di questa stupenda città e di tanti altri pregevoli centri abitati che dovrà essere recuperato, con interventi straordinari. Per quelli ordinari precedenti, erano stati previsti per il Castello cinquecentesco lavori di restauro e di adeguamento funzionale, di manutenzione degli impianti tecnologici, di realizzazione e di allestimento museale, e di valorizzazione del parco. Passando in Puglia, infine, intervento di spicco al Palazzo Silos-Calò di Bitonto, con lavori nella struttura, che è destinata a diventare sede della Pinacoteca nazionale bitontina e ad ospitare la collezione Devanna.

L’Italia ci mise novantanove anni prima di riuscire a dotarsi di una carta geologica in scala 1 a 100mila: dal 1877 al 1976. Da Agostino Depretis ad Aldo Moro. E per la nuova, da 1 a 50mila, (che gli specialisti ritengono già superata), siamo messi abbastanza male: dal 1988 ad oggi, siamo ad una cinquantina di fogli completati (più 26 in corso di completamento e 255 iniziati) su un totale di 652. E il progetto rimase spesso a corto di finanziamenti. Segno che la redazione di un’attendibile carta geologica nazionale non porta voti. Soprattutto se si tratta di normali opere di manutenzione, come quelle che, ad esempio, per secoli salvarono la fragilissima Venezia, la cui magistratura ai piromani e ai tagliatori abusivi degli alberi, ritenuti attentatori dell’equilibrio idrogeologico, infliggeva quindici anni di esilio «da tutte terre e luoghi del serenissimo dominio», e ai recidivi «sette anni in galera de condenati, a vogar il remo con ferri ai piedi».
Quante stragi, quanti incalcolabili danni abbiamo registrato con le sciagure del Vajont, della Val di Stava, di Sarno, di Soverato, fino a quella di Messina di appena qualche mese fa? Per mettere in sicurezza il nostro territorio e le persone che lo abitano e i beni culturali che custodisce sarebbero necessari almeno 20-25 miliardi di euro. Troppi, certamente. Ma non più di quanti ne hanno dovuto spendere i governi negli ultimi decenni per intervenire – malgrado le catastrofi annunciate – soltanto “dopo”, quando le macerie e il fango avevano ingoiato tutto e tutti.

Si riducono i finanziamenti pubblici, cala il numero di visitatori dei nostri musei, a Milano Brera soffoca, in Campania Pompei si sbriciola, il territorio perde dieci centimetri al giorno, castelli e palazzi gentilizi spesso sembrano dei Tiziano in un parcheggio, come sostiene il presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali, Carandini, mentre ovunque il personale è in età avanzata, c’è voluta la voce grossa del ministro Brunetta per far aumentare miracolosamente le presenze degli addetti del 70 per cento, e ovunque sopravvivono trascuratezze e contraddizioni: a Roma il Colosseo chiude alle 16; Milano, Firenze o Roma non hanno un museo paesistico né un museo di città; i tombaroli continuano a fare man bassa... Eppure, «si imparerebbe meglio la storia romana con poche gite a Pompei restaurata – scriveva Chateaubriand nel suo Viaggio in Italia– che con la lettura di tutte le opere antiche…».
Dunque, è necessario superare il concetto di tutela generica, per arrivare a quello di tutela di sistema: l’articolo 9 della Costituzione non incarica lo Stato della tutela, ma la Repubblica, cioè tutti noi insieme.
Eppure, le cifre parlano chiaro. In Italia l’industria del turismo vale il 10 per cento del Prodotto interno lordo e genera un’economia di oltre 210 miliardi di euro. Il 30 per cento dei flussi turistici verte sulle città d’arte e storiche. Il nostro Paese possiede il più ampio patrimonio culturale del mondo: su 878 siti Unesco, 43 (il numero più alto) è nel nostro territorio, così come i musei (5.500), i siti archeologici (2.500), i parchi nazionali (23), gli eventi dello spettacolo dal vivo (81.500), il patrimonio enogastronomico (164 prodotti Dop e Igp, 359 vini Doc e Docg). Sono numeri importanti, sufficienti ad illustrare i chiaroscuri che affliggono la nostra industria culturale, che – ad esempio – vedono il numero di visitatori degli Uffizi fiorentini al quarto posto, e più giù ancora il Palazzo Ducale di Venezia, preceduti largamente dal Louvre parigino e dai londinesi British Museum e Tate Modern.
La valorizzazione del patrimonio culturale, artistico e naturale di una nazione è una leva efficace per sviluppare il vantaggio competitivo in termini di crescita economica, di creazione di nuovi posti di lavoro, di immagine, di inputstrategico. Nel mondo ci sono molti esempi validi di valorizzazione di questo patrimonio: la Gioconda e le Cascate del Niagara, il Guggenheim e le Piramidi egiziane, Petra e l’Ermitage, sono stati oggetto di azioni originali volte a sostenere la ricchezza artistica e culturale, grazie a nuovi modelli di business, come l’online advertising, il network management, il licensing, l’organizzazione di eventi aziendali nelle sale museali, e a valorizzare il potenziale commerciale dei servizi retail.
Queste intelligenti iniziative hanno consentito di generare indotto in tutto il terziario. Ma se mancano le infrastrutture e i servizi, se non si procede velocemente ad interventi di restauro e di manutenzione quotidiana, com’è nel caso italiano, il gioco si fa duro.
Introdurre programmi mirati di investimenti in questo splendido settore potrebbe portare a significativi stimoli in termini di Pil e di occupazione, con risultati sorprendenti. Con la prospettiva di superare il gapche ci separa da altri Paesi, che distano da noi anni luce per quantità e qualità di testimonianze storiche, artistiche e culturali. Dovremmo fare un monumento ai beni posseduti dall’Italia, invece di perderci dietro a insopportabili burocrazie, a indisponibilità di fondi adeguati, a presunte saturazioni di beni. Chi troppo ha?...

   
   
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