Marzo 2010

 

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Le Giravolte

AA.VV.

Percorsi per:
valentina meliadò, luigi scorrano, a.b.,
gigi montonato
, raffaele marinelli,
florio santini, rocco boccadamo
 
 

 

 

 

Se non ci sono parametri più validi di altri, se la Storia e la Tradizione non hanno un valore e un peso specifico, se non c’è nulla di universale per cui valga la pena anche combattere, allora la prima cosa che morirà sarà proprio il sale della democrazia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL VUOTO CHE AVANZA

LIBERALI ALLO SBARAGLIO

Ci sono poche parole al mondo inflazionate come liberalismo democrazia. Dopo la caduta del Muro abbiamo assistito ad un’autentica rincorsa al liberalismo fai da te, alla ricerca di una sua qualunque accezione ascrivibile alla propria storia politica, come se la Guerra Fredda non fosse stata una spada di Damocle delicatamente poggiata sul nostro collo per quarantacinque anni, ma una sorta di stress collettivo guaribile con una buona dormita. Peccato che una mattina ci siamo svegliati senza memoria e senza decenza, e che da allora chiunque si rifaccia seriamente alla tradizione liberale venga tacciato addirittura di mancanza di substrato politico-culturale. La parola democrazia, poi, ha avuto una parabola peggiore, vittima da sempre delle appropriazioni indebite delle peggiori tirannie della Storia.
Dunque, non sorprende che oggigiorno tali parole e concetti servano più da copertura morale agli egoismi e alle intemperanze dei singoli e della collettività, piuttosto che ad identificare le ragioni filosofiche, etiche, sociali, giuridiche ed economiche dell’unica dottrina politica storicamente vincente sotto il profilo della convivenza umana e dell’organizzazione sociale. Con tutti i limiti che sono propri dell’essere umano – perché il liberalismo non è una creazione politica da adattare all’uomo, ma il prodotto storico-filosofico dell’osservazione e della riflessione dell’uomo sull’uomo – con una specificità unica: una perfettibilità direttamente proporzionale alla volontà della società di migliorare la sua condizione di collettività formata da singoli individui.
Se allora l’ingrigimento generale del pensiero liberale, provocato soprattutto dal crollo del comunismo, non può sorprendere, lasciano letteralmente senza parole le frasi pronunciate a difesa del relativismo da parte di alcuni cosiddetti “liberali”. Secondo costoro, infatti, senza relativismo non c’è democrazia! Questa è la risposta che hanno saputo dare alla sfida lanciata dal nuovo Papa prima ancora di essere eletto! Questa è l’idea che circola nei salotti buoni, dove i neosedicenti liberali si presentano sempre muniti del loro bravo manuale politically correct, altrimenti sei out.

Non è uno scherzo, è la cartina di tornasole della nostra decadenza morale e culturale; è il segno dell’indifferenza, del menefreghismo e della vacuità; è il vuoto che avanza, preambolo, da sempre, di qualche brutto scossone, è l’assenza della paura, che non è affermazione di coraggio, ma compromissione di se stessi pur di non essere toccati.
Perché è proprio il relativismo ad uccidere la democrazia. Se tutto è egualmente valido, se non c’è la possibilità di definire qualcosa come migliore, più adatto o più giusto, se non ci sono parametri più validi di altri, se la Storia e la Tradizione non hanno un valore e un peso specifico, se non c’è nulla di universale per cui valga la pena anche combattere, se non c’è la possibilità di distinguersi e differenziarsi, se avere delle convinzioni profonde non ha senso, perché portarle avanti significa esporsi all’accusa, addirittura, di fascismo, se questo disfacimento di noi stessi è lo strumento più adeguato alla comprensione del nostro tempo, allora la prima cosa che morirà sarà proprio il sale della democrazia: il riconoscimento e il rispetto di ciò che è diverso da noi. Perché come sarà possibile riconoscere un’identità e una specificità ad una cultura, una religione o una politica, se perdiamo il senso della nostra identità e specificità in favore di un amalgama grigio che tutto avvolge con analoga indifferenza? Se ci votiamo a considerarci, e di conseguenza ad essere considerati, nulla?
La scalata al successo del relativismo è dovuta alla folle idea che questo favorirà l’affermazione della pace e della convivenza civile nel mondo, e ne siamo talmente convinti che lo spregio di noi stessi diventa un’affermazione di superiorità, e non di eguaglianza, dell’altro, soprattutto dell’altro che è in grado di minacciarci fisicamente. Comunque, è esattamente il contrario, perché per i suoi due terzi il mondo è composto da Paesi che non anelano alla pace e al benessere, Paesi sostenuti da pensieri e ideologie forti che sono agli antipodi delle libertà e dei princìpi fondanti le democrazie occidentali.
Come possiamo confrontarci con tutto questo se non abbiamo la dignità e la consapevolezza delle nostre conquiste, della nostra tradizione, della nostra storia? In nome di cosa abbiamo scritto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, se non esiste nessuna verità universalmente valida? In nome di cosa onoriamo le nostre istituzioni e obbediamo alle loro leggi, se tutto è opinabile? Ma sopratutto: se non c’è possibilità di giudizio, se giusto e sbagliato, vero e falso, sono categorie relative, chi e cosa limiteranno mai l’egoismo, la sopraffazione e la crudeltà insiti nell’uomo?

Il relativismo uccide l’uomo perché non lo osserva, non lo conosce, non lo giudica, non lo sprona e non lo limita, lasciando ch’esso si consideri, come spiegò benissimo l’allora ancora cardinale Ratzinger, l’unico parametro e l’unico punto di riferimento della sua vita. è un invito al delirio di potenza, e i liberali dovrebbero saperlo, dovrebbero insistere sull’importanza della consapevolezza della propria specificità quale strumento di confronto e valutazione dell’altro, perché in caso contrario il rispetto, la comprensione e la pari dignità delle diversità non sussistono.
In tale contesto sarà difficile che uno spirito autenticamente liberale possa ricomporre la frattura tra coloro che hanno trovato nel relativismo, cioè nell’assenza di parametri, il loro unico parametro, e quelli che, da sempre, difendono la loro storia e identità senza complessi e senza aggressività, avendo il coraggio di scegliere, di schierarsi, di opporsi, di differenziarsi, di dubitare, di confrontarsi, senza mai perdere il senso dell’appartenenza alla loro storia e alla sua specificità, e rimanendo sempre aperti al mondo pur nella convinzione di essere dalla parte giusta. Questo è liberalismo, questa è democrazia.
Se è bastata l’elezione di un Papa che ha idee e convinzioni profonde a mandare allo sbaraglio parte del liberalismo italiano, cioè parte di una tradizione che del confronto, anche aspro, con la Chiesa Cattolica, soprattutto con il suo potere temporale, è stata protagonista, allora vuol dire che i caratteri di una sana democrazia li abbiamo già persi, perché non siamo più in grado di confrontarci con la forza di chi crede fortemente in qualcosa e si sente portatore di verità, capacità che peraltro avevamo già perso nella rinuncia al confronto paritetico con l’Islam.
Che paradosso! Potrebbe essere proprio la Chiesa di questo Papa a dialogare forse più proficuamente con le altre religioni, con la dignità delle proprie convinzioni, e ad ottenere magari più di quanto non abbia fatto l’Europa con l’abbraccio al pensiero debole relativista e con il disprezzo della religione che ne ha segnato la storia.

valentina meliadò

 

 

 

 

Quale senso ha il rapporto dell’uomo con il passato proprio e con quello dei suoi simili? Qual è la funzione della memoria? E si può, in qualche modo, insegnare la memoria?

 

INSEGNARE LA BELLEZZA?

PASSIONI E RAGIONI

Nate in occasioni diverse, sono certo pensate per un insieme dato dai nuclei tematici che vi si pongono e sviluppano, per il linguaggio suggestivo con cui sono tessute... Sono così le intriganti prose raccolte in un libro di piccola mole ma di grandi ambizioni di Antonio Errico, Le ragioni della passione / Approdi e avventuredel sapere, Kurumuny Edizioni, Calimera, pubblicato lo scorso anno.
Nei tratti che costruiscono il volume confluiscono elementi diversi abilmente intrecciati: sicché la linea “pedagogica” sottesa non ha le asperità delle dimostrazioni puntigliose, ma la leggerezza del sogno, dell’immaginazione, la levità del volo, il fiducioso abbandono a una forza interiore che non inganna e non delude e che tutti, anche nelle condizioni umane apparentemente più disgraziate, possono ritrovare in se stessi, da soli o per mezzo di chi, avendo compreso chi è l’altroche gli sta di fronte, riesce ad esaltarne la forza nascosta, il cuore segreto da stanare e far emergere alla luce.
Il sottotitolo del libro indica nel binomio approdi e avventurequelle che sono le polarità del sapere: arrivi e partenze per nuovi viaggi nel mare della conoscenza, entusiasmo di scoperta e irrequieta ricerca di chi si mette in gioco, non per sé soltanto ma anche (soprattutto?) per gli altri, sì che sia possibile camminare insieme a quegli altri.
Tutti i capitoli, sostanzialmente, vertono sulla passione dell’insegnare, sulle motivazioni che giustificano l’insegnamento, sulla qualità del discorso educativo, sulla “creatività” che l’azione nel campo dell’insegnare richiede.
L’autore procede non per la via delle indicazioni di schemi da adattare a realtà diverse, ma facendo ricorso soprattutto alle risorse che vengono dall’universo fantastico della letteratura. I suggerimenti per una nuova “pedagogia della conoscenza” rifuggono dal manualistico, si affidano – vittoriosamente si può dire – al grande respiro di un universo che non preesiste al linguaggio, ma che per mezzo del linguaggio, di un verbo originario, si crea, si compone, si riassesta in forme sempre nuove, si diceo si pronunzianella gemmazione perenne e miracolosa della vita.
Per dare consistenza ad una “fantasia pedagogica” (l’espressione non è in nessun modo riduttiva), Errico chiama in soccorso le sue letture ampie e varie o la sua osservazione di opere d’arte (il “Narciso” del Caravaggio in copertina trova spazio anche nel testo); sceglie (con appropriati e personali strumenti narrativi) ciò che riassume e chiama a prova di esemplarità.

Che cosa significa insegnare? Arrivare al nucleo della creatività e attivarne le potenzialità. Capire umanamente la modernità, contro le cui distorsioni si sono levate per tempo voci autorevoli. Quale senso ha il rapporto dell’uomo con il passato proprio e con quello dei suoi simili? Qual è la funzione della memoria? E si può, in qualche modo, insegnare la memoria? «Non c’è disciplina d’insegnamento che non sia memoria», afferma l’autore. Al quale si potrebbe, forse banalmente, mostrare l’abisso spaventoso tra i suoi suggestivi enunciati e la corrente pratica scolastica. Le ragioni della passione (nella fattispecie la passione d’insegnare) non sono merce comune. L’autore non risponde all’osservazione eventuale con un suo atto di fede, ma con la forza della persuasione profonda che ne guida e sostiene la riflessione. Occorre osare, insinua. E l’insinuazione si fa audacia di credere possibile insegnare la bellezza come la memoria: e «l’insegnamento della bellezza è anche – implicitamente o esplicitamente – insegnamento della libertà, del suo valore assoluto rispetto a se stessi e agli altri».
Nelle sue varie articolazioni ogni tratto propone un sottotema: lo enuncia, lo sviluppa, lo conclude aprendo sul successivo, creando una rete di richiami che rafforza l’unità del libro, dà consistenza a quanto può sembrare un dilettoso immaginare una possibile pratica didattica che attinge direttamente all’universo del meraviglioso elaborato dalla poesia e dalle arti o scoperto con i metodi della scienza. La riflessione si fa racconto, magica tessitura di parole coinvolgenti. Si profila un progetto, si incide un segno collegato ad altri segni, si vuol persuadere per la forza di una convinzione che non cederebbe ad obiezione alcuna.
Si potrà dire: si tratta, forse, solo di una ricetta. E sarà pure una ricetta. Ma d’autore!

luigi scorrano


 

 

 

Il balsamo della poesia garantisce echi senza fine, fama eterna, presenza in forma di sfere in una sfavillante costellazione, finché il mondo navigherà fra le latitudini illimiti dell’universo.

 

SCAFFALE

LE SCINTILLE DI DAO CI

Dei sei titoli che compongono la raccolta di racconti di Giovanni Bernardini, (Fuga dalla notte, Manni, dicembre 2009), cinque trattano il tema della morte come fenomenologia del fatale culmine – non soltanto biologico – che coinvolge il destino dell’uomo. Al modo di Fogazzaro, («Niente richiama l’uomo a sentire la realtà del mistero che gli incombe, come lo spettacolo di una morte»), Bernardini descrive per scenari nello stesso tempo diversi e convergenti il punto del non-ritorno, dell’oltre il «gorgo di sole / tenebroso»(Valeri) che inabissa «in una dolorosa (…) condizione (…), in solitudine lontana dal cielo e dalla terra», in una «inesplicabile dimensione» che lascia senza risposta «i grandi interrogativi umani». È la dimensione di un Inferno o di un Purgatorio? O soltanto quella di un Limbo, per condanna da parte di un’Entità sconosciuta, non rivelata, che tuttavia, pur cancellando i sensi, la vista, l’udito e la stessa voce, consente la sopravvivenza del pensiero?
Il primo racconto, Lilli, tocca subito un tema intrigante, quello di una premonizione, di un “avviso” – sotto forma di una telefonata – echeggiato da un mondo misterioso, inconoscibile. Il protagonista, che inutilmente tenterà di individuare i personaggi e di interpretare le loro parole, morirà di lì a poco, d’improvviso, col cuore spaccato.
Il secondo, La gabbia, ci conduce oltre l’umano, ma ancora non rivela la destinazione definitiva: una donna, morta, ci porge i suoi pensieri: «Io sono stata giudicata e condannata… ingabbiata senza nulla sapere, in solitudine, lontana dal cielo e dalla terra… Sarà questo il mio inferno o il mio purgatorio?». Spirito, essenza sospesa, col sospetto di essere respinta dal luogo ultimo: «Forse la mia fede è stata insufficiente, ho creduto a modo mio, sebbene recitassi preghiere e rosari. Mi è mancata la convinzione profonda, la certezza di una sopravvivenza, la speranza di un aldilà...».
Il terzo, Tenere lontana la notte, è racconto lungo, una specie di chiave di volta dell’architettura narrativa della silloge. Il protagonista, Aldo, sogna una donna in gramaglie che gli preannuncia: – Verrò a prenderti –. Costei si presenta: – Sono la morte –, e ritorna la notte seguente, annunciando che all’uomo resta «uno scampolo di vita». La signora in nero si rifà vedere la terza notte: – C’è una Legge Naturale – dice – che va rispettata, anche se può concedere una variante: scrivi un romanzo, oppure intrattieni una corrispondenza d’amore, ma senza incontrar mai l’interlocutrice. Finché scriverai mi terrò lontana da te –. È l’inversione dei destini narrati dal mito di Orfeo ed Euridice: sarà Aldo-Orfeo a precipitare nel regno delle ombre, se tradirà il patto. Allora l’uomo snoda memorie, ricostruisce episodi della sua vita, rammenta incontri, rivive amori, passa in rassegna nomi, (Laura, Rosi, Magda…), fino al momento in cui sceglie Carla, la donna che per sorprendente coincidenza proprio allora gli scrive, e cita i versi dell’Ars poeticadi Stanislaw Grochowiak: «Le ore con la penna curano le ferite. / Anche la morte è lontana come era nell’infanzia».
Il tema della “dilazione” era stato in qualche modo affrontato anche da Giuseppe Cassieri (in Ingannare l’attesa); ma qui Bernardini imbastisce una trama differente, sulla quale innesta l’ordito di un vero e proprio romanzo (breve) epistolare, con uno scambio di pensieri e uno scandaglio di passati e presenti fondali psicologici e sostrati sentimentali, lungo una parabola narrativa che sale, dapprima, a vertici di squisita sensibilità, per poi tendere alla linea dell’orizzonte, in fase di tramonto e di caduta, di volontà infiacchita, di malessere psico-fisico. In ospedale, riappare la signora in nero: a suo tempo aveva perorato la sua causa, ottenendo un altro anno di vita; di anni, invece, ne erano trascorsi tre. Era il momento!
Florica dà il titolo al quarto racconto. È una badante rumena, con alle spalle una storia di violenze subite dal marito, dal quale si è separata, prima di emigrare dal Paese di Dracula e di mettersi al servizio di un direttore di banca in pensione, malato di ipertensione arteriosa: un uomo che «aveva una concezione non rigida, comunque seria della morale, da agnostico che tuttavia fortemente avvertiva il mistero della vita e della morte». Tra i due si stabilisce pian piano un rapporto amichevole, fino alla sera in cui Florica sente la necessità di assecondare il riposo con un sonnifero. Il bancario la scopre addormentata su un divano e, spinto da un improvviso risveglio dei sensi, dapprima la bacia, poi comincia ad accarezzarla, non svegliandola del tutto, ma determinando in lei – convinta che si trattasse dell’ex marito – una reazione che la trasforma in un’emula del principe-vampiro, inconsapevolmente portatrice di morte.
E sempre la morte sarà la protagonista del quinto racconto, La Grande Casa, un’immensa villa nel bosco, un giorno covo di briganti, con innumerevoli comignoli, che si diceva abitata da una madre e da suo figlio e sorvegliata da un guardiano tuttofare; e che un bracco roano marrone voleva visitare, per scoprire cosa ci fosse di vero al di là delle dicerie degli uomini. Venuto da chissà dove, il cane, e affidato a una vecchia guardia forestale che lo aveva chiamato Luigi, anzi Luì, in ricordo di un amico. Un cane umanizzato, che si era esercitato a lungo per acquisire la capacità di parlare. E tanto cercherà, fino al giorno in cui scoprirà un varco che lo introdurrà in ambienti vastissimi e complessi, apparentemente deserti: è l’ermetica prigione-labirinto nella quale compare ogni tanto il supercilioso guardiano, abitata dai fantasmi della madre e del figlio, di briganti e brigantesse, di vari animali, che ogni notte sfilano in lugubre processione, accogliendo alla fine anche l’ombra del bracco, morto d’inedia. A conferma del destino riservato, senza alcuna eccezione, a tutte quante le creature viventi.
Il sesto e ultimo racconto, Il vento non può spegnere quelle luci, dà la soluzione dell’enigma della fine della vita. Secondo i contadini e i pastori d’Irlanda e di Scozia, i menhir e tutte le pietre infisse verticalmente nel terreno vivono: girano su se stessi, danzano, si chinano, bevono, salutano; nascono, hanno un’infanzia, crescono. E per questo sono chiamati in gaelico “uomini falsi” o “uomini finti”.
Ecco: richiama alla mente questa leggenda la conclusione del libro di Bernardini. La notte di Natale – riferisce lo scrittore – le cose inanimate parlano. Un mercante cinese di sete litiga con i libri – le pietre miliari della cultura del mondo – della biblioteca del padre defunto: essi riconoscono che la vita è la prima maestra, ma soprattutto che sono le loro pagine a completare l’apprendimento, ad arricchire l’intelletto, ad affinare i sentimenti che sgorgano dal cuore. Nelle parole stampate che contengono è racchiusa la sapienza dei padri, dalla quale deriva la saggezza: – Noi siamo immortali –, chiosano i testi. Indispettito, il protagonista, Dao Ci, li brucia; allora «scintille a forma di globi incandescenti» salgono nel cielo, «disponendosi come una vistosa costellazione al cui confronto i gelidi occhi delle stelle sembravano chiusi». E nessun vento, per quanto impetuoso, riuscirà mai a spegnere quelle luci.
Questo è il messaggio esaustivo, incardinato nel valore testimoniale della scrittura, nella sacralità della parola poetica, e intrinsecamente nella nobiltà dello stile. Il baratto imposto dal fato – la corrispondenza epistolare con una donna un tempo amata, con tutto il carico di passioni e di tumultuosi sentimenti che coinvolge e svela – da una parte conferma la finitudine umana, i limiti che la moira potente ha filato per tutti i nati da donna o da femmina; dall’altra, (dopo i cinque “casi” iniziali, raccontati da Bernardini con la sua consueta maestria espressiva), è emblematico dell’inizio di una storia “altra”, del principio fondativo di una memoria non labile, perché il balsamo della poesia garantisce echi senza fine, fama eterna, presenza in forma di sfere in una sfavillante costellazione, finché il mondo navigherà fra le latitudini illimiti dell’universo.

a.b.

 

 

 

 

In queste contrade ciò che non è di nessuno è preda del primo che ci arriva; e il demanio, proprietà dello Stato, qui è terra di nessuno.

 

SALENTO CHE VAI...

IL FRANGIVENTO TRA MARE E TERRA

Lungo la litoranea Torre San Giovanni-Leuca, tra la località detta I Francesie quella chiamata Ciardo, in territorio di Castrignano del Capo, dopo il canalone, dove il paesaggio s’incattivisce e la roccia cade a strapiombo e apre un baratro sul mare che in quel punto s’incunea, l’attenzione è catturata da uno spettacolo straordinario, poetico nella sua ingenuità. Una sorta di tenda lisa e sfrangiata che non pende dall’alto, ma nasce dal basso, come in un’immagine capovolta, s’allunga tra piante di vegetazione spontanea, resti di trulli, siepali e fichidindia, in parallelo con la costa e la strada.
È di un grigio morbido, che sembra aver assorbito nel tempo tutti i colori della luce. Nella parte più bassa è alta poco più di un metro e in quella più alta meno di due. Nasce più spessa alla base, poi si snellisce, fino a terminare a sbrendoli. È tessuta con pietre a secco, poste l’una sull’altra, senza apparente maestria. Nella parte più alta e sottile le ultime pietre lasciano passare luce e vento. Al tramonto la luce è un ricamo; il vento, seppure forte, arriva franto, a carezze.
Quante cose esprime quella porta di pietre a secco, surreale guardiana del mare e della campagna! Una finestrella lascia intravvedere l’azzurro del mare, alla sommità di una specie di porta chiusa in alto da due conci laterali e in mezzo un cuneo a chiave. È l’unico elemento architettonico consapevolmente elaborato: i due conci sono intaccati per poggiare e scaricare bene sulle pietre laterali, che li sostengono a contrasto. Accanto c’è come uno stipetto ricavato nel muro, con quattro lastre sottili, forse per poggiare qualcosa, quasi fosse l’interno di una stanza; rovine di crolli.
La teoria di pietre si stende per chilometri e separa la costa dalla campagna. Il piano verso la strada è più alto di quello volto al mare e intrattiene la terra coltivata; mentre l’altro è più basso, montuoso, accidentato, con qua e là cespugli di macchia mediterranea, digradante verso il mare.
In una delle zone più povere della Puglia, al confine/inizio dell’Italia – a pochi chilometri c’è il Santuario della Madonna de finibus terraee tutt’intorno le sontuose ville dei signori – l’operosità contadina ha strappato la terra al demanio, l’ha trasformata in terra da coltivare e se l’è gelosamente chiusa. La costruzione della litoranea, in tempi più recenti, l’ha trasformata in un relitto di campagna.

Dal mare, dalla costa sassosa (pesculusa) e cespugliosa, si vedono qua e là, a distanza irregolare, come ingressi tra i muri di recinzioni a secco: inutili segnali di rivendicazione di una proprietà “non proprietà”, peraltro facilmente violabile. In queste contrade ciò che non è di nessuno è preda del primo che ci arriva; e il demanio, proprietà dello Stato, qui è terra di nessuno. Basta vedere le costruzioni private che lungo la costa salentina sono a due passi dalla spiaggia, demanio appunto, rubato e condonato.
Ma c’è qualcos’altro che questa frangia di pietre esprime, è quel qualcosa che spesso non si riesce a definire con le parole dei letterati e dei filosofi, dei sociologi e degli antropologi. È l’identità salentina, plurale, contraddittoria e complessa.
Il Salento tra le due componenti fisiche di cui è fatto: la terra e il mare. Il muro le separa perché l’una non danneggi l’altra; anzi, perché l’una porti beneficio all’altra in una sorta di naturale reciprocità. La terra prende dal mare la parte benefica del vento e trattiene quella più impetuosa e nociva alle colture. Da una parte si coltiva, dall’altra si pesca.
I salentini sono agricoltori e pescatori insieme, in contraddizione con gli altri e con se stessi. Degli agricoltori hanno l’attaccamento alla terra, ossessivo, fino a rivendicarne il possesso al centimetro, fino a scannare il vicino se sconfina nel suo campo. È straordinario come chi ha costruito quel muretto abbia voluto lasciare perfino la finestrella interna, ‘u cuncitturu, forse, a prova di essere il proprietario dell’opera e del suolo su cui insiste. Ma la rivendica a chi, se dall’altra parte non c’è che il se stesso pescatore? Propria del salentino è la prudenza di lasciare comunque un segno tangibile, inoppugnabile di rivendicazione, perfino contro un se stesso, ipotizzato dall’altra parte.
Dei pescatori i salentini hanno, invece, quell’altruismo che nasce e si educa nel mare, quel reciproco prestarsi aiuto nell’incontro con altri, che secondo taluni spiega il nome stesso di Salento, soccorso in acqua.

gigi montonato

 

 

 

 

Le reliquie non sono un bene culturale ma religioso, da venerare in una chiesa e non da esporre in un museo. D’altra parte, i turchi sono musulmani, e i musulmani non credono nei Santi.

 

GUERRA SULLE SPOGLIE DEL PROTETTORE DI BARI

SAN NICOLA CONTESO

Nove secoli di devozione bruciati con due parole: – Restituiteci Nicola –. Per il vescovo di scarsa pazienza che al Concilio di Nicea prese a schiaffi l’eretico Ario, non dev’essere facile sentirsi chiamare “Babbo Natale”, e meno che mai sentire che un governo non cristiano reclama le sue spoglie, da collocare in un museo. La Turchia chiede che l’Italia ceda le reliquie di San Nicola, gelosamente custodite a Bari dall’XI secolo.
Il Santo era originario della città di Myra, nell’antica regione turca della Licia, l’attuale Demre. Le spoglie vennero traslate (più esatto dire “trafugate”) pochi anni dopo il Mille, e da allora non si sono mosse dal capoluogo pugliese. «Appena ultimato il museo di Demre – ha dichiarato il ministro della Cultura turco – chiederemo le reliquie di Babbo Natale, che devono essere esposte qui, e non in una città di pirati». Il riferimento è a Bari, che all’epoca era sotto il dominio bizantino; e di culto bizantino è la chiesa dedicata al Santo, eretta nel V secolo a Demre. Sepolto a Myra, il feretro fu rubato da 62 pescatori naufraghi al tempo della prima Crociata. La sua figura è ritenuta all’origine della leggenda di Santa Klaus.
Gli archeologi di Ankara fanno riesplodere una disputa secolare, sostenendo di avere la certezza che il Santo «voleva essere sepolto nella sua Myra», come risulterebbe da un “testamento”. Per ottenere la restituzione, Ankara è disposta a chiedere l’attivazione delle procedure che hanno consentito a molti Paesi di riavere opere d’arte trafugate in passato, denunciando “i pirati baresi”.
In Vaticano si ritiene che la Turchia abbia intenzione di sfruttare a fini turistici l’immagine di San Nicola, come dimostrerebbe la statua di bronzo che sorge in una piazza centrale di Demre. E il rettore della Basilica Pontificia di San Nicola di Bari precisa che le reliquie non sono un bene culturale ma religioso, da venerare in una chiesa e non da esporre in un museo. Oltre tutto, la richiesta è stata rivolta all’Italia, mentre è noto che depositario di quelle reliquie è il Vaticano. D’altra parte, sottolineano i fedeli baresi, i turchi sono musulmani, e i musulmani non credono nei Santi. Allora, di che cosa stanno parlando?
I cattolici baresi sperano in una “santa alleanza” con gli ortodossi, visto che anche i russi apprezzano la città pugliese che ha conservato degnamente i resti del Santo. Nicola, fra l’altro, avvicina il Vaticano a Mosca. La recentissima restituzione della chiesa barese dedicata al Santo spezzò una barriera epocale, al punto che il portavoce del Patriarcato paragonò l’avvenimento alla caduta del Muro di Berlino.
Dunque, da una parte Bari è un laboratorio ecumenico e il culto del suo Santo Protettore favorisce l’unione tra cristiani; dall’altra, la richiesta di Ankara è considerata un infortunio, e in quanto tale irricevibile dall’Italia. I turchi, infatti – rileva il teologo Gianni Gennari – sono arrivati in Asia Minore dal Turkestan cinque secoli dopo la morte del vescovo di Myra. Nicola è divenuto Babbo Natale per aver riscattato tre prostitute offrendo borse di monete d’oro. Da qui la memoria del portatore di doni.
Va ricordato, fra l’altro, che i trafugatori risalirono l’Adriatico, lasciando un pezzo di omero del Santo a Rimini e altri frammenti a Venezia. Nella ricognizione dei resti, effettuata nel 1953, dopo otto secoli, una Commissione Pontificia comprovò l’autenticità delle vicende storiche che avevano riguardato San Nicola, detto anche Magno, e chiamato pure Niccolò, patrono, oltre che della città pugliese, dei marinai, dei pescatori, dei farmacisti, dei profumieri, dei bottai, dei bambini, delle ragazze da marito, degli scolari, degli avvocati, dei mercanti, dei commercianti, e infine delle vittime degli errori giudiziari.

raffaele marinelli

 

   

TRE POESIE INEDITE DI FLORIO SANTINI

DI ALTRI RITORNI

Senza titolo

Le madri uccidono i figli, i figli uccidon le madri:
cronaca sta per mostra d’orripilanti quadri.
Apro i giornali, ogni pagina tratta di guerra:
una misteriosa insania serpeggia sotto terra.

Non posso dir come una volta “Scrivo una poesia”.
Rima e ispirazione fan rider chicchessia.
Un solo argomento tra i “pezzi” rimane a galla,
l’odio, ch’ovunque rimbalza, diabolica palla.

Non mancano da destra e sinistra patetici sermoni,
ma non ci son più com’una volta uomini buoni:
tant’è che son costretto ad essere volgare,
se ho la pretesa di farmi ascoltare...

Un gran male, più del resto, accorcia la vita mia,
è un virus incurabile, che chiamo antipoesia.
Amico, t’offro questo sconnesso contributo
Per dimostrare infine che ciò ch’ho avuto ho avuto.
Credimi, desidererei non essere mai nato
Ond’evitar di concludere “Quel ch’ho dato ho dato”.

2002


Ritorna al Sud, Amico

Non è che sia morto, è sparito;
forse Milano, forse Torino l’hanno inghiottito:
Quand’invece era qui, ci vedevamo spesso
E non ero senz’argomenti come adesso.
Che un Amico possa significare tanto aiuto,
giuro che proprio non l’avrei saputo.
Di poesia, noi parlavamo in continuazione:
era una continua reciproca lezione.

Ti vidi, ogni volta, divenir più stanco,
ma sui progetti continuavi a tener banco.
Un giorno, con la tua auto anch’essa malandata,
scaricasti una caterva di carta stampata.
Era il mio ultimo libro che avevi editato,
quel diario per cui t’avevo tormentato...
Felice, mi dicesti: “Sei contento?”
Poi, mettesti in moto, veloce come il vento.

Così facevi. Da allora, non t’ho più visto.
Per saper dove sei, ho implorato Cristo.
E non pregavo da non so quant’anni,
quali che fossero i consueti affanni.
Mai avrei supposto che forza avesse quel legame,
in un mondo rabberciato da futili trame.
Ritorna al Sud, Amico; faremo cultura insieme;
nessuno più di noi starà così bene.

[È un fatto vero; perciò ne raccomando la pubblicazione!]



Non sembri strano né paradossale

Vorrei tanto essere cremato;
però non dimenticato.
Sarebbe onde recar minima noia
Pur ricordando qualunque gioia.

Il mio passato, una volta raccolto,
di spazio occuperebbe non molto;
la mia vita, riassunta nel fuoco,
tornerebbe a sembrare un gioco.

Forse gli amici vorrebbero ristamparla via
In segno di dotta cortesia,
ma col tempo una tomba si fa discarica.
Al contrario, un cofanetto par che dica:

“Sceglietemi con fregi d’oro giallo
e pareti di limpido cristallo,
così ch’io possa di nuovo raccontare
cose e persone che mi piacque amare”.

Non sembri strano né paradossale;
la cremazione distrugge solo il male.
Ciò che rimane è cenere mista a sabbia,
eterno miscuglio dell’umana rabbia.
Io, invece, non sarei morto sottoterra;
sarei lì, per maledire ogni guerra!

florio santini

 

 

 

I ragazzini, solo in quella particolare domenica, a differenza delle altre festività, erano mattinieri, non vedevano l’ora di uscire, sfoggiando per la prima volta dopo l’inverno i pantaloncini corti.

 

TRADIZIONI A MARITTIMA

FIERA DI PRIMAVERA

Sulla scia di una tradizione ormai secolare, nella prima domenica di marzo si svolge a Marittima una manifestazione ancora molto sentita, la fiera della Madonna di Costantinopoli, la Vergine compatrona del paesello, venerata sotto forma di un’artistica statua in cartapesta e un’antica icona bizantina nel piccolo e grazioso santuario a lei espressamente dedicato.
Si diceva manifestazione molto sentita, non a caso, per due motivi da sempre radicati nella mente e nella sensibilità dei marittimesi. Una volta, praticamente sino a pochi decenni addietro, era l’unica occasione di mercato a domicilio, tant’è che, in seno alle famiglie, molti acquisti erano programmati e scadenzati giustappunto in concomitanza della fiera; inoltre, l’arrivo della prima domenica di marzo suggeriva nella suggestione popolare una specie di simbolo, se non proprio di definitivo distacco dal periodo freddo, perlomeno di inizio del passaggio dall’inverno alla stagione primaverile.
Certo, nei tempi recenti, sono a mano a mano intervenuti innumerevoli stravolgimenti ed evoluzioni, vuoi attraverso l’apertura un po’ ovunque di mercatini, supermercati, ipermercati e megastore, vuoi per la larga diffusione dei mezzi di trasporto che consentono di muoversi quando si vuole e di raggiungere per gli acquisti le più disparate località, sia, infine, in virtù del fenomeno della pubblicità, soprattutto radio-televisiva, e grazie alle schiere di venditori porta a porta che, come dire, non ti fanno mancare quasi nulla.
Così, invece, non accadeva prima. La fiera era attesa con autentica frenesia da tutti, a partire dai piccoli fino alle persone anziane.
I ragazzini, solo in quella particolare domenica, a differenza delle altre festività, erano eccezionalmente mattinieri, non vedevano l’ora di uscire, sfoggiando per la prima volta dopo l’inverno i pantaloncini corti, preceduti, nel compimento di tale atto, soltanto da qualche visita di nonni o zii, i quali come sempre si erano alzati presto, portando in dono, come primo segno della manifestazione, un fascio di carote fresche, le mitiche pistinache, secondo il gergo dialettale.
Lungo le strade e le piazzette del paese, la fiera si snodava sistematicamente in sequenze scandite e organizzate a seconda della natura merceologica dei prodotti in esposizione: in Piazza Umberto, di fronte alla chiesa Matrice, prendevano posto le baracche di generi alimentari, casalinghi, piccoli e artigianali giocattoli, dolciumi; il largo cosiddetto della “Campurra”, dominato dalla Cappella di San Giuseppe, era invece deputato alle baracche di tessuti, arredamenti per la casa, confezioni e calzature. In via Convento, si situavano i venditori di articoli per l’agricoltura, cereali e granaglie in genere, ortaggi e verdure, scale, corde e quindi, dulcis in fundo, i venditori di animali e bestiame (dai piccoli volatili – pulcini, galletti e puddrasce – conigli, agnelli, pecore, capre, suini, cavalli, asini e muli, nonché qualche capo bovino).
Consisteva essenzialmente in questo la gamma di mercanzie che la fiera offriva alle del resto povere possibilità di acquisto dei marittimesi e degli abitanti dei paesi vicini, i quali vi convenivano anch’essi in numero ragguardevole. Le contrattazioni iniziavano verso le sei, sette del mattino, protraendosi fino al primo pomeriggio: piccoli, onesti e dignitosi affari per entrambe le parti che li animavano e generavano.
Talvolta, poteva capitare che in occasione della ricorrenza, all’ultimo minuto della vigilia o addirittura nel corso della manifestazione, scoppiassero temporali con vento e acquazzoni: in casi del genere, per fortuna non frequenti, il cattivo tempo stravolgeva e metteva a soqquadro tutto, sicché la fiera veniva rinviata alla domenica successiva.
A comprova di siffatta sfaccettatura, a chi scrive è direttamente accaduto, in un paio di occasioni, dopo essere uscito di buon’ora da casa, di imbattersi improvvisamente nel maltempo, di trovarsi costretto a rifugiarsi per ore, si pensi un po’, all’interno della chiesa e, da lì, assistere allo smantellamento di baracche e merci, per poi, una volta passata la tempesta, fare mesto e inglorioso ritorno fra le mura domestiche.
D’altronde, non si deve dimenticare che, allora, l’ombrello rappresentava un optional propriamente comunissimo, e macchine, praticamente, non ne esistevano, contandosi nel paese solo una “Topolino” e una “Fiat Giardinetta”: e i torrenti d’acqua generati dal temporale non potevano certamente affrontarsi e guadarsi a cuor leggero, neppure dai più temerari.

Nell’ambito della mia famiglia, l’occasione della fiera significava anche rivedere uno zio che viveva nel brindisino e lavorava presso un magazzino di tessuti. Egli, difatti, insieme con i suoi titolari, così come faceva sovente “mercato” qua e là mediante una grande baracca espositiva autotrasportata, era solito partecipare alla fiera di Marittima, arrivando la sera del sabato e recandosi per la cena e per dormire dai miei nonni. Ricordo che la sua baracca era sempre posteggiata al largo “Campurra”, a ridosso del muro sud della navata della cappella di San Giuseppe.

Un episodio rimastomi straordinariamente impresso risale a cinquantacinque, forse sessant’anni addietro, nell’approssimarsi, appunto, della fiera.
Mi trovavo di sera, insieme con i miei fratelli, in casa dei nonni paterni, accomodato su una panchetta all’interno del rustico e caldo “focalire”, di fronte al nonno impegnato a fumare il suo toscano, con la brace puntualmente in bocca perché tirasse meglio, dopo una giornata di lavoro; la nonna, seduta vicino al medesimo angolo di calore, intenta a sferruzzare un capo di lana; la zia seduta, a sua volta, accanto al tavolo, con fidanzato a lato, nell’atto di ricamare gli ultimi capi per il suo corredo.
Ad un certo punto, la nonna passò a commentare, con voce chiara e distinta, che quell’anno la fiera avrebbe comportato una lunga serie di acquisti in vista del matrimonio del figlio e del conseguente arredo, sia pure sommario, della sua nuova abitazione: zappa, vanga, calderina, falce, limmo, limmune, limmiteddro, pignate, pentole, bisaccia, treppiedi, quadare quadarotto, scala, lavaturo... e, così via elencando, la lista seguitava con tanti altri aggeggi, e sembrava non finire mai.
Il nonno ascoltava, cercando di metabolizzare il lungo elenco, facendo contemporaneamente il conto, soprattutto, di quale sarebbe stato il relativo esborso, paventando che lo stesso potesse finire col prosciugare fino all’ultima lira i magri risparmi familiari e, addirittura, costringere a contrarre qualche debito (all’epoca, di certo, non era di moda il ricorso al credito al consumo).
Sta di fatto che, come fulmine a ciel sereno e in barba al suo temperamento di solito mite e calmo, egli sbottò in un improperio, alla buona ma sonoro, all’indirizzo della malcapitata moglie, intimando, praticamente, di farla finita.
La violenta reazione del buon uomo generò grande sconforto, non solo nella nonna, ma anche nella zia: difatti, di fronte alla reprimenda del padrone di casa, proruppero entrambe, per diversi minuti, in un pianto sconsolato. E noi, piccoli ma attenti spettatori, lì bloccati, zitti e muti, davanti a quella scena.
Al giorno d’oggi, ogni cosa è inevitabilmente mutata: i venditori presenti alla fiera sono costituiti in prevalenza da immigrati extracomunitari, i quali espongono, più che altro, cianfrusaglie e paccottiglie di scarso e dubbio valore. D’altronde, per la platea degli acquirenti, le fiere e i mercati sono a portata di mano tutti i giorni del calendario.
In siffatta radicale metamorfosi, a Marittima è però dato di riscontrare un tratto positivo che vale la pena di mettere in evidenza, una novità e un’utile iniziativa nella discontinuità dell’antica tradizione.
Su iniziativa di una famiglia di costruttori di imbarcazioni per la pesca e da diporto in legno, artigiani veramente bravi e apprezzati in tutto il Salento, nell’ambito della fiera della Madonna di Costantinopoli è stata inserita una nuova sezione sotto forma di salone nautico e di attrezzature per la marineria.

rocco boccadamo

 

   
   
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